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Channel: moysikh! – NAZIONE INDIANA
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Non solo launeddas

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Quella sporca dozzina (+1)

ovvero un prezioso cofanetto di dischi sardi da consegnare agli alieni prima della capitolazione

di

Claudio Loi

1. MARCELLO MELIS. The New Village On The Left… (1977 Black Saint)
Ci sono arrivato un po’ tardi a scoprire questo album di Marcello Melis uscito nel lontano 1977. È stato quando mi sono messo a studiare seriamente la storia della musica in Sardegna e scoprire che si trattava di un lavoro importante. Per la prima volta venivano messi sullo stesso piano linguaggi tanto diversi da sembrare una forzatura da hipster retrofuturisti. Il Coro Rubanu di Orgosolo (in realtà piuttosto restio nella fase iniziale) seduto allo stesso tavolo di personaggi così avant come Roswell Rudd, Famoudou Don Moye e un giovane Enrico Rava. E chiaramente il contrabbasso e la sensibilità protosarda di Marcello Melis che, nel suo eremo di Manhattan, riesce a far quadrare la faccenda. Dal nuovo mondo inizia un nuovo mondo, fatto di incontri, scontri, momenti esaltanti e qualche delusione. La storia dell’etnojazz inizia così e diventerà una delle storie più belle da raccontare. Una storia che non è ancora finita.

 

2. PIERO MARRAS. Fuori Campo (1977 EMI)
In pieno boom cantautoriale sembrava quasi impossibile scalfire la cortina di ferro dei big italiani e invece Piero Marras ci dimostro che era possibile. Fuori Campo è un gran bel disco, pieno di belle canzoni, di quelle che ancora oggi si possono fischiettare con soave piacere. Tra cinquecento prenuragiche e richiami alla sarditudine meno scontata rimane un’opera che ha segnato il nostro destino di ascoltatori consapevoli e ci fatto conoscere le infinite sfumature della sua musica. Poi Marras è cambiato e anche noi ed è giusto così.

 

3. CADMO. Boomerang (1977 Vedette)
Antonello Salis, Riccardo Lay e Mario Paliano erano belli da vedere e da sentire: pieni di vita, di voglia di suonare, di abbattere schemi e barriere. Una miscela esplosiva di free jazz, rock, prog e anche qualche sfumatura di Sardegna a cui era difficile restare indifferenti. Hanno lasciato poche tracce discografiche per questo molto preziose: sono la fotografia di un mondo che non esiste più.

 

4. PAOLO FRESU QUINTET. Ostinato (1985 Splasc(h))
Eccolo Fresu al suo disco d’esordio alla guida di un quintetto che non conosce le dinamiche del tempo e la normale decadenza degli esseri umani. Era già tutto qui: i suoi riferimenti storici, la tecnica indiscutibile, la capacità di assemblare suoni e persone. Nonostante la giovane età Fresu riesce a concepire un disco maturo che regge bene all’ascolto anche dopo diversi decenni. Col tempo Fresu è maturato, ha ampliato la sua platea di partecipazioni, organizza, sposta masse e lo fa sempre con disinvoltura e nonchalance. E nel 1985 già si intuiva che non era qualcosa di effimero.

5. JOE PERRINO AND THE MELLOWTONES. Rane’n’Roll (1988 IRA)
Quando uscì questo disco Joe Perrino era al culmine della sua popolarità: concerti a raffica, interviste, articoli sulla stampa specializzata, passaggi televisivi. Il disco esce per la label fiorentina IRA una delle più attive etichette del periodo che aveva come filosofia quella di promuovere il rock italiano cantato in italiano. C’era anche lo zampino del giovane Gianni Maroccolo e una produzione di tutto rispetto che lo proiettava oltre cortina. Il disco ottenne ottime recensioni e la band ebbe l’opportunità di esibirsi anche oltremare. Quanto basta per consacrare Joe Perrino come il miglior rocker che la Sardegna abbia generato. Ed è ancora qui a regalarci la sua energia fatta di muscoli e tanta passione.

6. KENZE NEKE. Naralu! De Uve Sese (1992 KN Gridalo Forte)
Venivano da Siniscola e loro punto di riferimento erano i Clash e tutte quelle band post punk che vedevano il rock come veicolo di trasmissione di ideologie e di rivendicazioni popolari. E la Sardegna era uno scenario perfetto per questo tipo di proposte: temi come imperialismo, sfruttamento, isolamento hanno sempre fatto parte del loro messaggio musicale. E soprattutto la rivendicazione di una lingua, di una cultura, di un modo di esistere e di resistere. Per tanti anni hanno agitato la bandiera della ribellione e dell’anarchismo con grande seguito popolare. Poi il tempo passa e le cose mutano. Kenze Neke esplode in una miriade di esperienze collaterali ma l’idea di fondo rimane sempre quella e l’isola è ancora terra di conquista.

7. DORIAN GRAY. Matamoros (1995 Interbeat)
Dagli anni Novanta ai giorni nostri i Dorian Gray (ovvero Davide Catinari) senza soluzione di continuità e una proposta artistica in continua evoluzione. Dalle chitarre piene di elettricità dei primi album a un suono più intimo e rarefatto e un garbato utilizzo dell’elettronica. Qualche aggiustamento nell’organico e il ricorso a collaborazioni extra musicali (letteratura, poesia, arti visive, fumetto) dimostrano un approccio misurato e intelligente fuori dal comune e soprattutto fuori dai soliti cliché con cui viene identificato il rock. Matamoros è un lavoro di grande intensità che contiene tutte le ossessioni di Davide Catinari: il sudamerica alterato e psichedelico, gli States della beat generation, funghi, cibi lisergici e muraglie cinesi, lo spleen della poesia fin de siècle. Uomini e topi sempre alla ricerca di un mondo migliore (non necessariamente terreno).

8. SIKITIKIS. Fuga dal deserto del Tiki (2004 Casasonica)
Sono stati il gruppo di riferimento degli anni Zero anche grazie a questo disco (e alla produzione di Max Casacci dei Subsonica): un esordio fulminante che è arrivato nel momento giusto e nel posto giusto. Hanno sdoganato situazioni che anni di manicheismo culturale aveva tenuto ai margini: le colonne sonore dei B-movies italiani, il soft porno, i poliziotteschi, west an soda and spaghetti, la musica leggera e quella popolare. Un lavoro di decostruzione postmodernista che ha funzionato (anche senza chitarre in origine) e che ancora stupisce. Piace la loro attitudine a sparigliare i giochi, a navigare nel sottile confine tra kitsch e cultura alta e a considerare il mondo un gran caos. Poi si sono divisi e sono rimasti i Siki con un pop raffinato e solido. Ma anche ottimi progetti collaterali come i cinematici Dancefloor Stompers.

9. IOSONOUNCANE. Die (2015 Trovarobato)
È nata una stella? È ancora presto per dirlo e due ottimi album non ci permettono di sbilanciarci più di tanto (ma non ho grandi dubbi in proposito). Ma Die rimane uno dei più interessanti dischi prodotti in Italia in questi anni e Jacopo Incani un punto di riferimento da cui ci aspettiamo grandi cose. Die contiene tanta roba: una vocazione cantautoriale di impostazione classica infettata da un’elettronica spinta e ultramoderna, una voce fuori dal mondo e persino inaspettati richiami alla tradizione ancestrale sarda. Un’operazione multistrato che rilascia ad ogni ascolto qualcosa di nuovo. Tutto giocato su più sensi (come il titolo d’altronde che può essere letto sia in inglese che in sardo) con la consapevolezza che niente è come sembra, che le cose e le idee non sono blocchi intoccabili. Musica da fine del mondo per un mondo destinato a finire (e forse a ricominciare).

10. THE RIPPERS. A Gut Feeling (2017 Slovenly)
Un dovuto omaggio alla più grande rock band che l’isola abbia conosciuto ma anche un omaggio a tutta la scena garage/psychobilly/surf/punk e cazzi vari che vanta una storia gloriosa (ancora in essere per la verità). I Rippers vantano un culto che travalica i confini dell’isola nonostante non abbiano mai fatto più di tanto per farsi conoscere. Ma bastava assistere a un loro set per capire la forza di questa band: un suono compatto e feroce, veloce e asfissiante e la voce del cantante che sembrava provenire da un altro mondo. Nessun compromesso, nessuna tentazione commerciale. Solo rock sparato alla massima potenza. Adesso sono in pausa ma aspetto fiducioso un loro ritorno, sono sicuro che saranno ancora in grado di spaventarmi.

11. DREAM WEAPON RITUAL. The Uncanny Little Sparrow (2018)
Avere Simon Balestrazzi in Sardegna è un dono del cielo. La sua enorme esperienza e sensibilità diventa patrimonio isolano e la scena elettronica/sperimentale/industrial/ ambient ne trae sicuro beneficio. Tra i tanti progetti portati avanti in questi anni questo è uno dei più mirabili e fruibili grazie all’apporto di Monica Serra che in qualche modo rende più umano il frastuono apocalittico di Balestrazzi. Richiami al passato, alla natura, a territori extraesistenziali per una pietanza che non ha eguali. Un vinile prezioso, raro, emozionante e fuori dal tempo.

12. SAFFRONKEIRA. Automatism (2019 Denovali)
Sempre in tema di elettronica una delle migliori sorprese di questi anni è l’apparizione sulla scena di Saffronkeira (aka Eugenio Caria di Castelsardo). Se ne sono accorti anche i tipi della Denovali prestigiosa label tedesca che lo ha inserito nel suo roster. Dopo alcune prestigiose collaborazioni (Maria Massa, Enzo Favata, Paolo Angeli e altri) questo disco ci presenta il lato più colto di Saffronkeira con richiami alla storia della musica elettronica (alcuni suoni sembrano provenire dalla sedute di registrazione dei primi Tangerine Dream) e lo sguardo sempre rivolto altrove. Un fluire sonoro ricco di suggestioni neoromantiche, distopie cerebrali, convulsioni ritmiche e altre invenzioni sorprendenti.

 

13. PAOLO ANGELI. 22.22 Free Radiohead (2019 ReR)
Paolo Angeli che mette mano al corpus sonoro dei Radiohead è una bella notizia che non sorprende più di tanto vista la grande apertura mentale del personaggio. Operazione rischiosa quanto stimolante che ci permette di avere a disposizione tutte le vie di fuga da lui intraprese in questi anni: una chitarra modificata e in continua evoluzione, la passione alla sperimentazione, il richiamo alla cultura isolana, la necessità vitale di non ripetersi, di non vivere di rendita. Su tutto il profumo estatico della potenza creativa dei Radiohead che si adatta in modo perfetto alla cosmogonia sonora del ragazzo con la maglia a righe.


Buena Vista Social: all that jazz

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Questa nuova rubrica è dedicata  alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

Il millennial jazz di Nate Chinen

di

Franco Bergoglio

Nate Chinen, La musica del cambiamento. Jazz per il nuovo millennio, prefazione di Ashley Kahn, traduzione di Seba Pezzani, il Saggiatore, Milano 2019.

Dal suo osservatorio privilegiato di New York e dal suo stabile lavoro per il più prestigioso giornale della metropoli, il New York Times, il giovane critico Nate Chinen ha la possibilità di cogliere i germogli del jazz allo stato nascente, “adesso”, analizzandoli con passione e discernimento, come spiega Ashley Kahn nella prefazione. Il suo libro, un testo che mancava nel panorama del jazz, si concentra su quanto è emerso sotto il sole del jazz nel nuovo millennio. Non sarà una visione definitiva, sarà anche solo l’inizio del dibattito, ma come si dice in gergo sportivo Chinen mette a terra la palla e dice la sua, chiudendo il libro con un elenco di 129 album essenziali, dal 2000 al 2018.

L’autore –conscio, come già diceva Thelonious Monk che il jazz “non va da nessuna parte”- disegna comunque delle mappe per interpretare il presente di questa musica, spiegando francamente cosa gli piace e motivando le scelte. Il primo capitolo entra subito nel vivo, proponendo come primo attore del “cambio della guardia” Kamasi Washington, colui che ha proposto per il jazz un immaginario nuovo,capace di riconnettersi, dopo anni, con la comunità afroamericana, proponendo una visione alternativa al jazz come “accademia”. Quando Washington parlava di «immagine scadente del jazz, in realtà stava descrivendo il contrario: una comprensione comune di quella musica come qualcosa di rarefatto e prezioso e persino leggermente noioso. Dai primi anni Ottanta, il jazz era diventato sinonimo di rispettabilità, confacendosi al titolo di «musica classica americana». Una conquista ottenuta grazie a una miscela di fattori con in prima linea il virtuosismo e la capacità manageriale di Wynton Marsalis e dei suoi accoliti, i young lions, pronti a ridefinire il jazz con una serie di schemi fissi, coadiuvati dal documentario di Ken Burns (a cristallizzare la storia ufficiale del genere) e da alcuni critici come Albert Murray e Stanley Crouch. Si tratta di un gruppo compatto di personaggi impegnati a difendere questa nuova ortodossia che in qualche modo hanno sequestrato l’immaginario del jazz per alcuni anni, tagliando le ali estreme, marginalizzando sia le avanguardie sia le ultime propaggini del jazz-rock e delle derive commerciali. Il capitolo Uptown Downtown racconta in termini geografici questa divisione tra neoclassicismo dogmatico e nuova avanguardia. Mentre Marsalis si muove in centro con i grandi finanziamenti del Jazz At Lincoln Center, John Zorn occupa autorevolmente la scena underground della Knitting Factory, un humus dove si formano tanti artisti oggi fondamentali da Dave Douglas a Tim Berne. Nel libro vi sono artisti che guadagnano uno spazio maggiore, con interi capitoli dedicati al loro lavoro: Brad Mehldau, Steve Coleman, Jason Moran, Vijay Iyer, Esperanza Spalding, Mary Halvorson, i Bad Plus e Snarky Puppy. Pochi invece i riferimenti al pantheon del jazz. Chinen parte dal presupposto che molti musicisti si sono formati sull’influenza di loro contemporanei (o quasi) e quindi praticamente il solo Herbie Hancock compare a più riprese, come ponte tra il jazz degli anni Sessanta/Settanta e la scena contemporanea.

Il libro è ricco di suggerimenti di ascolto e di dettagli di prima mano, frutto di molte interviste di Nate Chinen ai diretti interessati. Riporto un aneddoto, pescato nel capitolo dedicato al quartetto di Wayne Shorter, da subito considerato un supergruppo (con Danilo Pérez, John Patitucci, Brian Blade non potrebbe essere diversamente), ma improntato a una sperimentazione rigorosamente “senza rete”, soggetta a cambiare di sera in sera alternando grandiosi concerti a esibizioni fiacche, brani avventurosi e lunghe divagazioni che non riescono a quagliare.

Uno dei primi concerti del quartetto, al Festival di Spoleto, fu accolto da una smaccata penuria di applausi. Scosso da tale reazione Pérez andò a parlarne con Shorter dopo lo spettacolo. «Bé, capitava sempre con Miles» gli rispose il suo capo allegramente. Mi pare un buon segno».

Un altro merito del libro è quello di esplorare i contorni del jazz senza porsi troppe barriere. Impossibile raccontare l’estetica di un certo jazz contemporaneo senza riferirsi alla scena hip hop, con la figura di J Dilla, il trionfo planetario di Kendrick Lamar o quello di D’Angelo. Cambiando versante Chinen racconta successo il del quartetto di Donny McCaslin, “l’ultima band di Bowie”, con il ritorno del jazz rock a New York, propiziato, tra gli altri, da Dave Binney e dagli Undergrond di Chris Potter. Chinen volge anche lo sguardo al jazz “globale” raccontando dei concerti dell’International Jazz Day Unesco, della Thelonious Monk International Competition che mette in mostra talenti da ogni parte del mondo, dei tanti musicisti “freschi” che stanno arrivando dall’America Latina, dalle proposte del Jazz Re: freshed di Londra fino a spingersi verso la scena cinese. Non pervenuta l’Europa, in buona compagnia con l’Africa. Questa assenza è il limite di un autore la cui forza è quella di essere al centro della scena americana e di non poter quindi cogliere con eguale capacità i fermenti del Vecchio Continente o di altre parti del mondo. D’altro canto il riassestamento geopolitico in corso promette sconquassi di non facile lettura e il tutto si riverbera anche nella musica. Chinen ha coraggio nel portare avanti le sue tesi e nel proporre una valutazione rapida e giornalistica di questi venti anni, posando il primo mattone della storia del jazz che si dovrà scrivere nei prossimi anni.

via facebook

Do you remember Sanremo?

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Il fantastico queer di Achille Lauro: uno sguardo sul pubblico

di

Olga Campofreda

 

La sera della finale di Sanremo ho riunito un mucchio di amici con la scusa del mio compleanno e ho sistemato il mio laptop ben visibile davanti al divano e alle sedie. La verità è che adoro da matti guardare il festival da quando sono a Londra, con persone che non conoscono la cultura italiana o che la conoscono dall’esterno, con più o meno stereotipi, ma sempre con uno sguardo nuovo, che solletica la mia italianità più scontata. Senza neanche troppe discussioni siamo stati tutti d’accordo, alla fine, sul fatto che ad Achille Lauro andasse conferito il premio come miglior performer: quello che avrebbe meglio rappresentato l’Italia all’Eurovision, spettacolare come Renato Zero o David Bowie, provocatore come Madonna, istrionico come Lady Gaga o Beyoncé, perfino. Certamente non un’avanguardia mondiale, ci siamo detti, ma quantomeno Lauro ha aperto la finestra della sua stanza e ha respirato un po’ i tempi che corrono. Sì, ma dove?

È stato solo dopo qualche giorno dalla chiusura del festival che mi sono resa conto che esiste ancora un posto dove un artista come Lauro – nonostate tutti i precedenti – possa essere non capito, violentemente criticato e deriso. Quel posto purtroppo è l’Italia.

Sull’elemento dello spettacolare in Lauro già si è detto molto e piuttosto bene nell’articolo di Daniele Cassandro su Internazionale, che ha parlato di un artista abile a non lasciarsi usare dalla televisione, usando lo schermo per mostrare “lo spettro delle possibilità”, della fluidità di genere, della queerness. La bellezza di questa performance, aiutata certamente dai costumi di scena di un genio della moda quale Alessandro Michele, ha tuttavia fatto sì che la nostra attenzione, catturata dal palco, non badasse più di tanto alle reazioni di chi, con noi, stava a guardare.

Sanremo non è stato tanto rappresentativo dell’Italia di oggi negli artisti che ha presentato alla kermesse, quanto nel pubblico che quella kermesse ha commentato sui social e nei bar. Quelli che “Lauro ha anticipato il carnevale”, quelli che “capisco la performance, ma la vita privata tienila per te”, quelli che “è il festival della musica e non dovrebbe esserci altro”. Inizialmente pensavo fosse una questione generazionale, e sarebbe stato forse ancora (benché poco) giustificabile. Mi ero perfino stupita di come, proprio la generazione dei sessantenni, già esposta al linguaggio di Bowie, del glam rock, di Madonna, etc, avesse ancora tale candore da riuscire a scandalizzarsi per i quattro minuti sul palco dell’Ariston. Tuttavia non si tratta della solita messinscena dei boomer contro millennials o gen z. Mi sono trovata a discutere sull’argomento via facebook anche con miei coetanei che ugualmente attaccavano l’ex trapper come artista e relativa simbologia della performance.

Il discorso su Lauro mi ha aperto gli occhi su quanto il gesto di questo artista abbia avuto senso nell’Italia di oggi. L’Italia dell’eteronormatività che attacca quando si sente attaccata dall’altro da sé, ovvero quando altri modi di stare al mondo in quanto individuo si rendono palesi e semplicemente dicono “io esisto”. L’Italia che viene costretta a farsi delle domande su questioni che si erano date per scontate, quali le strutture piccoloborghesi nelle quali le nostre vite sono inserite e dalle quali sono regolate (trovati un lavoro, sposati, fai una famiglia, fai figli anche se non te li puoi permettere che tanto Dio ci pensa, dunque vai in chiesa). Vedo una similarità incredibile tra le dinamiche innescate dal queer e la definizione di fantastico data da Todorov in letteratura. Il fantastico, dice il narratologo, dura poco più di un’esitazione: quando non riesci a spiegarti un fenomeno ma poi arrivi a collegarlo a leggi razionali (strano) o a forze soprannaturali (meraviglioso). Il queer suscita scandalo perché dura molto più che un’esitazione; genera frustrazione in chi lo guarda, non lo capisce e si sente oltraggiato dalla sfacciataggine di queste identità che non aspirano affatto ad essere incluse, accettate o giustificate. La cultura eteronormativa non sa e non può spiegarsi il concetto di binarismo di genere con il proprio linguaggio familiare e strutturato, con il proprio senso finalistico votato al culto del bambino. La frustrazione genera rigetto, rifiuto. Incomunicabilità ben rappresentata dai fischi: il rumore di chi dissente ma non sa argomentare.

Più che per la sua performance Lauro va ricordato per le reazioni che ha suscitato nel pubblico italiano, per averci mostrato che c’è ancora molto lavoro da fare culturalmente e umanamente, nel mondo dello spettacolo e fuori. È in questo contesto allora che la sua performance a Sanremo si trasforma in un’affermazione politica, in un gesto impegnato: “Me ne frego” significa anche che cercare l’integrazione è l’ultimo degli obiettivi, perché integrato significa sempre di più omologato e suscitare scandalo pubblicamente e con gioia, proprio come nei migliori Pride, potrà forse servire a far cadere qualcuno dalla poltrona mostrandogli quanto grande e differente appaia la stanza dal pavimento.

Radio days: Alone III

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Immagini di Marco Cazzato

Anime Stanche

di Mirco Salvadori

 

LEI: Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche.

 

Chissà perché ricordo questa frase di Primo Levi proprio ora, pensava lei tra il follemente divertito e il torpore confusionale che le impediva qualsiasi movimento. Ricordava, ma alla rinfusa. Ricordava quel suo primo e ultimo anno di alberghiero, il professore di Italiano, le sue poesie e la speranza che riuscivano ad infonderle: speranza, bella parola. Ora, supina sull’orlo dell’abisso, sentiva un oggetto estraneo accanire dentro il suo corpo, come una bestia che la divorava dal di dentro. Le sembrava di essere distesa sul ponte di una nave in balia della tempesta, scaraventata contro la balaustra di acciaio, dura, spigolosa, maledettamente tagliente. Ecco l’onda! Pensava terrorizzata tra sé e sé, eccola che affonda e mi invade. Affogo, mi manca l’aria ma questo non basta, ora so che arriva anche il colpo, eccolo arriva! Questa volta sul viso, direttamente contro quella balaustra che provoca tagli profondi e tumefazioni. Qualcosa le stava squarciando l’anima, lo faceva in modo scientifico, cadenzato, in un crescendo di follia che trasformava i suoi intestini in carne da macello. Non vedeva né sentiva più nulla se non il feroce canto della violenza che pestava e bestemmiava e malediva mentre lei si rifugiava nel ricordo di quel primo e ultimo anno di scuola vissuto nella meraviglia di una materia sconosciuta che le donava la pace mai trovata e ora le permetteva di comprendere quanto, quanto stanche fossero le bestie di quella poesia.

 

Sono i maledetti mattoni con i quali hanno costruito questi palazzi! Quei cosi rosso cupo tutti bucherellati fanno filtrare il freddo, l’umidità e il rumore. Entri in casa ed è come se fossi ancora per strada, nel pieno centro di questa sciagurata periferia che non ti molla con il suo sguaiato dialetto fatto di rifiuti, grigiore, muffe alle pareti, graffiti e quell’insostenibile rumore di porte sbattute. È come se questo universo di vita grama fosse un immenso stagno e si vivesse immersi nella fanghiglia che ne ricopre il fondale impedendo la vista del fatiscente palazzo, decrepita torre di controllo sopra una palude che non sa darsi pace e non vuole fare i conti con la sua incapacità di amare o di farlo nel modo orribile a cui è da sempre abituata, sbattendo una porta alle proprie spalle, una mano sulla cinta e l’altra sulla nuca di chi gli sta di fronte.

 

I ricordi si sovrappongono, la fuga necessaria dall’insondabile profondità del male si trasforma in delirio: le porte del vecchio ascensore si aprono, lei e sua figlia entrano nello stretto abitacolo sommerso di sporcizia e scritte altrettanto insopportabili. Lo specchio, andato in frantumi da anni, sopravvive grazie al triangolo che ancora riesce a riflettere le miserie di quel luogo e il viso tumefatto di una madre che stringe la propria creatura in seno. Indossa gli occhiali da sole che tanto le piacevano, quelli che suo marito le aveva regalato per il compleanno, comprati in qualche bancarella dove vendevano le copie degli originali con lenti in pura plastica. A lei però non importava, quella giornata se la ricordava bene. Si riflette in quel triangolo di specchio e rivede la festa, la torta, lei che apriva il pacchetto, suo marito che sorrideva ancora sobrio, Clara che giocava vicino al tavolo e il tintinnio di un messaggio che giungeva sul suo cellulare. Continua a scendere e riflette davanti quel residuo di specchio, ripensa a lei a suo marito ma ciò che vede sono solo due paia di lenti di plastica nera che riescono a coprire quello che mai avrebbe voluto guardare: le grida di lui che chiedeva spiegazioni per un innocuo messaggio di auguri, la sua mano che lanciava la figlia contro il muro e giungeva ad artigliarle i capelli. Era lo strappo, la caduta sul duro pavimento, il primo calcio ricevuto, il dolore atroce, i capelli usati come si usa una corda per trascinare la bestia al macello, erano le bestemmie seguite dal rumore sordo della porta che sbatteva dietro le sue spalle per una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, diecimila volte! Era la tenebra della disperazione nella quale riecheggiava il rumore sordo di un primo pugno allo stomaco.

 

LUI: E poi son solo. Resta la dolce compagnia di luminose ingenue bugie.

 

Sua moglie la recitava ogni tanto sottovoce, questa strana incomprensibile frase. Erano parole che riuscivano a scatenare un delirio di rabbia nei suoi confusi pensieri. Non sapeva chi ne fosse l’autore, un vip della tivù forse ma conteneva due parole per lui insopportabili: Solo e Bugie.

 

ULTIMA ORA: I corpi di madre e figlia sono stati ritrovati nello scantinato del palazzo dove abitavano. La morte risale alle prime luci dell’alba. Una valigia è stata rinvenuta vicino all’ascensore ed è all’attenzione degli inquirenti. Sembra che la donna cercasse di fuggire con la figlia dal marito, noto nel quartiere per il suo comportamento violento. L’uomo è ricercato per duplice omicidio.

 

 

“Alone – Vol. III”
17 dicembre 2019

di

Gianni Maroccolo

“Non possiedo nome eppure m’invadono tutti.”

Terzo appuntamento con il disco perpetuo di Gianni Maroccolo: il Volume III di Alone (sottotitolo:Palude)  pubblicato da Contempo Records. La collana si avvale del contributo delle illustrazioni e dell’artwork di Marco Cazzato e dei racconti di Mirco Salvadori. A Lorenzo “moka” Tommasini sono stati affidati post-produzione sonora e mastering. La supervisione è di Alessandro “Tozzo” Nannucci.

Il Volume III affronta il tema della violenza contro i più deboli, in particolare donne e bambini. L’animale scelto per questo capitolo è la libellula, figura dal forte significato simbolico. Questo insetto leggiadro ed elegante porta con sé significati profondi.

Nella cultura occidentale, è simbolo di equilibrio, pace e libertà. La palude è l’habitat naturale della libellula. L’insetto ha origini umili: nasce nel fondo fangoso di uno stagno, dal quale evade trasformandosi in un animale alato in grado di staccarsi da terra.

La libellula rappresenta la trasformazione, la ricerca della verità e la transizione dall’infanzia all’età adulta. La sua vita è caratterizzata da due stadi distinti, ancorché connessi tra loro. Per questo il Volume III è suddiviso in due parti, come due atti di un’opera. Vari temi identificano le scene, che suscitano emozioni contrastanti. Dopo una breve ouverture, si dipanano i due movimenti.

La violenza si manifesta in vari modi: fisica, sessuale, psicologica, economica. Chi commette volontariamente atrocità inimmaginabili verso chi non è in grado di difendersi è facilmente assimilabile a una larva intrappolata in un’oscurità profonda.

Difficilmente riesce a fuggire da quell’abisso, talvolta non lo vuole neppure. Comprensibile l’impulso di raggiungere gli aguzzini nel loro stesso fango e commettere altrettante o peggiori atrocità su di loro. La vendetta non può però farci superare i nostri limiti di larve umane. Il Mahatma Gandhi affermava: “occhio per occhio, e tutto il mondo diventa cieco.” Il nostro destino, invece, dovrebbe essere quello di Vedere. Siamo purtroppo imprigionati in noi stessi, bloccati come i corpi in fondo al mare narrati nel Volume II e il solitario bue muschiato perso nella tormenta del Volume I: questo è il tratto che lega i tre volumi pubblicati fin qui. Come Marok ha già avuto modo di ribadire, la sua musica canta il negativo come un inno alla Vita, non alla sua negazione.

Due gli artisti ospiti del Volume III: Luca Swanz Andriolo recita il testo di Nina Maroccolo “Non possiedo nome eppure m’invadono tutti”. Ne scaturisce una meditazione introspettiva e caratterizzata da momenti di rara emotività. Il Volume III verrà inviato a tutti gli iscritti alla campagna abbonamenti ideata nel 2018 da Contempo Records, ma sarà disponibile per chiunque nei formaticlassici: LP, CD e download digitale.

Pandemia: top ten

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Playlist della pandemia ovvero il peggio che ci possa capitare nell’universo della musica contemporanea in dieci semplici passi (non oltre, non di più…)

di

Claudio Loi

 In questi giorni pandemici si passa il tempo a fare cose che non servono a nulla. Almeno apparentemente se si ragiona con lo statuto dell’efficienza a tutti i costi. Perciò ben vengano le facezie, le sottili e inebrianti perdite di tempo, il nulla che si avvolge in sé stesso e ci rimanda a uno stato mentale carico di rimembranze e sorridenti incertezze. Il virus è umanità che si autoflagella, è amore che uccide, un bacio che regala torture. Ci porta a uno stato di irrequietezza e instabilità, riscrive i canoni del vivere, del comunicare, dell’amore. Torneremo a non essere noi stessi? Torneremo ai nostri fasti quotidiani così gravidi di consumo e aperitivi all’alba? Non si sa ancora. Intanto vi propongo una playlist virale tanto inutile quanto bisognosa di terapie intensive.

 

  1. Renato Zero. Contagio. 1982.

Questa canzone di Renato Zero si trova nell’album Via Tagliamento 1965/1970 pubblicato nel 1982 e dedicato al Piper storico locale romano che immagino Renato abbia frequentato. Il testo è perfetto per i nostri giorni e sembra scritto proprio per noi: “Pericolo di contagio, che nessuno esca dalla città, guai a chi s’azzarda a guardare laggiù oltre quel muro, oltre il futuro… L’epidemia che si spande, l’isolamento è un dovere oramai… Dare la mano è vietato, se mai soltanto un dito e l’errore”. Il paziente Zero (cit.) è tanto disinvolto quanto sincero e profondo. Musica non così tanto leggera e dai risvolti imprevedibili.

 

  1. The The. Infected. 1984

Matt Johnson (The The) negli anni Ottanta faceva sfracelli ed era una delle menti più instabili del calderone post punk. Pochi punti di riferimento, nessuna direzione preconcetta, tante influenze da consolidare e approfondire: dal rock più schietto al blues rurale malaticcio e fuori sincrono. Passione smodata per le percussioni e relativi rimandi ai beat dell’africa meno didascalica. Il brano in questione da il titolo al suo secondo album licenziato nel 1986 e l’infezione è relativa ad amori che non lasciano tregua. Una palude di sentimenti da cui non si viene fuori facilmente. Ma è proprio un bacio che ci ucciderà…

 

  1. Front Line Assembly. Virus. 1986

Siamo in Canada in compagnia di un duo che ha lavorato con tenacia sulle possibilità offerte dalla musica elettronica nelle sue varianti più dark (tipo Biohazard per capirci). Una sorta di techno futuribile e polverosa con pochi sprazzi di onesta felicità. Ritmi pesanti e suoni oscuri che lasciano diverse scorie nel nostro organismo. Musica che richiede anticorpi che forse ancora non abbiamo creato.

 

  1. Contaminant PCB. 1993

Industrial music che rispecchia tutte le caratteristiche del genere con evidenti riferimenti ai Clock DVA e ai primi DAF. Un suono metallico e pressante che ci fa pensare alle fabbriche ancora chiuse. Chi ha nostalgia di suoni forti, dai brividi prodotti dalle grandi carpenterie industriali troverà conforto in questi solchi. Musica che crea qualche dissapore, che infesta il nostro organismo, scava caverne nella carne e ci sfinisce. Da ascoltare con le dovute precauzioni e con un controllato distanziamento sociale.

 

  1. Bad Religion. Infected. 1994

Una delle band storiche dell’hardcore punk americano. Nel 1994 sono al massimo delle loro possibilità e la loro musica è sempre piena di pathos, di urgenza comunicativa, dalla voglia di esprimersi senza troppe precauzioni. Il brano in questione è tratto dall’ottavo disco della band americana (Stranger Than Fiction) e si trova anche in formato singolo con la copertina che ci fa capire da che parte andare: una mano con un guanto da chirurgo che tiene un cervello palesemente infetto. “You and me have a disease / You affect me, you infect me / I’m afflicted you’re addicted / You and me, you and me”. Che altro aggiungere?

 

  1. Iron Maiden. Virus. 1996

Lo stupro della mente è un disordine sociale. I cinici, l’indifferenza. dell’essere sempre i migliori”. Il virus secondo gli Iron Maiden degli anni Novanta è qualcosa che ha a che fare con i rapporti umani e con i sistemi sociali contemporanei, un sorta di malattia sociale che intacca e destruttura. Siamo lontani dal fulgore metallico dei primi Maiden ma non manca l’onestà di sempre e la voglia di comunicare disagio, insofferenza, tradimenti. Insomma le solite menate della vita pre Covid-19.

 

  1. Infected. 2001

Barthezz, è lo pseudonimo di Bart Claessen disc jockey e producer olandese di musica trance. Quando uscì questa traccia lei era molto giovane e piena di vita, di esplodere e conquistare il mondo. Poi ha ripreso il suo vero nome e oggi è una delle più stimate producer della scena dance internazionale. Mi piace questo brano per il suo approccio superficiale tanto da essere quasi didascalico. Poche parole, solo suoni digitali creati in vitro con il solo scopo di far muovere i nostri corpi con sonorità che non producono preoccupanti effetti collaterali. Rimane una stolida sensazione di kitsch industriale e di indolente distrazione. Ci può stare.

 

  1. Pandemia. 2007.

Rap di razza dalla penisola italica. Lui è Marco Fiorito meglio conosciuto come Kaos One nome storico della scena rap romana (Cfr. Colle del fomento, DJ Gruff, Neffa). Questa traccia la trovate all’interno dell’album Karma del 2007 e rappresenta il rap dei nostri anni. Rabbia, furore, parole che pesano. “Nel nome del padre del figlio e dello spirito aspetta un momento qua c’è un equivoco quanto di santo in questa croce che è in bilico? darci il veleno e ricattarci con l’antidoto”.

 

  1. Pandemia Sonora. 2016.

Spagnoli di cui so molto poco. Il territorio frequentato è quello dell’elettronica cheap e sfranta, tribal, hard techno, mental e cosette così e i beat incalzano minacciosi come microrganismi che cercano alloggio all’interno dei nostri corpi. Siamo negli anni Zero e avanza minacciosa un’idea di mondo da ristrutturare, da ridefinire. Basta poco e tutto si fermerà. Per quanto tempo non è dato sapere.

 

  1. Andrà tutto bene. 2020.

Qui siamo proprio sul pezzo. Elisa, nobile e delicata cantautoressa triestina, si lancia con apprezzabile tempestività in questi giorni strani, malati, indefinibili. La canzone scivola leggera come polline di primavera in compagnia di Tommaso Paradiso (The Giornalisti). La canzone è stata creata attraverso interazioni social alla giusta distanza: questo richiedono i nostri tempi. Elisa cerca di consolarci e di farci star bene. Per un po’ funziona poi ti affacci alla finestra e qualcosa non torna. Andra tutto bene?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Primo Maggio: Resistenza vs Liberazione

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Ci piace condividere, non dividere. Siamo homini et fimmine, artiste, attori, musicisti, compositori, allestitori, scenografe, ballerini, scrittori, uomini e donne di parola, e musica, di segno e corpo, tecnici del suono e della luce, magazzinieri e mascherine, comunicatori e organizzatori, programmatori di festival e animatori di progetti culturali. Facciamo eccezione ma siamo anche la regola di un mestiere che vale il più delle volte più di quanto non costi. Può perfino valere molto e non costare niente, in apparenza. Sono mestieri, in Italia, con arte ma senza parte. Eppure siamo partigiane e partigiani di una cultura che può solo essere libera, ma che per esserlo deve nutrirsi, alimentarsi, sostenere. Viviamo un momento davvero drammatico, a teatri chiusi e luci spente, ma senza rinunciare a quello che sappiamo fare meglio, incrociamo le braccia per un giorno, questo giorno. La nostra vita è da sempre Resistenza, nel mondo del lavoro, oggi vorremmo trasformare quella parola in Liberazione.

Estensori ed esecutori in ordine sparso: Massimiliano Sacchi (clarinetto), Francesco Forlani (recitativo), Davide Della Monica (pianoforte e voci) Marco di Palo (violoncello), Ernesto Nobili (chitarre elettriche e bouzouki), Cristiano Della Monica (piattini e una saz-a-laika), Roberto Vacca (fisarmonica), Francesco Banchini (chalumeau e voci), Francesco De Cristofaro (irish whistle),  . Video di Davide e Marianna Kyri. 

Dia Logue: stop making sense

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Rivista è cosa mai vista (effeffe)

 

 

 

 

 

“Nella sofferenza che io trovi l’essenza”. Su Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio di Lorenzo del Pero

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di Francesca Matteoni

C’è chi per comprendere la natura di un sentiero deve perdersi, accettando di non riconoscere un volto, perfino il suo. È un sentiero di straniamento come di grazia, che resta sempre un po’ oltre, mentre ci teniamo al buio senza cedere e senza pelle. Ci sono artisti che giungono così alle loro opere, avendo fame e trovandosi a mordersi le ossa, ciò che ci sostiene. Nonostante una certa mitologia non c’è niente di romantico in tutto questo. Si è soli. Si può non tornare. Occorre fidarsi dei primi istinti corporali: nutrirsi, dormire come si può, respirare, resistere, anche se è il corpo che sembra tradirci. Eppure qualcuno torna, se non nel quotidiano, nell’arte, nella piccola salvezza ostinata della musica e della parola.

Mi sono ricordata di queste cose ascoltando a lungo l’ultimo disco di Lorenzo Del Pero, Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio (VREC / Audioglobe 2019). È già stato detto varie volte che l’universo autoriale di Lorenzo spazia da Bob Dylan a De André  da Chris Cornell a Jeff Buckley e molti altri studiati e sofferti in anni di esperienza – ma il gioco dei rimandi si esaurisce presto e spesso serve solo a non fare i conti con la materia poetica del disco.   Come suggerisce il titolo dall’amore animale, non meditato, innocente quanto inconsapevole si va verso l’amore dell’uomo, che non ha nulla di vittorioso, ma è un umile svelarsi delle cicatrici, e infine si cerca il confronto aspro e non pacificato dalla fede con il Dio (un Dio, fra i tanti possibili) della tradizione cristiana, costringendolo nella dimensione viva della sconfitta. Sono le tre fasi del sentiero, tre intermezzi che percorrono e ricuciono il disco in un dialogo fra l’uomo che non sente più niente/solo anche in mezzo alla gente e le figure a cui si rivolge per chiedere perdono e presenza o per donare a se stesso un riscatto raccontandole.

“Romina” e “A Silvia” sono canzoni struggenti, dove emergono ritratti di donne e di amori ostinati come gli errori, ma capaci di recuperare la dignità. Il singolo “Verrà la pioggia” è un urlo lucido contro i signori della terra, dove alle lacrime dei primi versi  che puliscono i miei occhi dalla polvere/ed il cuore dalle vostre menzogne, fa eco il pianto del mondo nella pioggia che lava le colpe di tutti, purifica e porta giù il cielo. E forse si porta via anche l’illusione del potere. “Dell’amore animale” ha l’amarezza di una verità personale: Troppo tempo è passato/prendo ciò che rimane/di una mente confusa/aggrappata a un sorriso/ quanta gente delusa/quanti calci nel viso, mentre “Misera cosa” riconduce la passione alla sua vanità, un sudario di astuta bellezza; e  “Sposa per denaro”, ben oltre il titolo, canta di chi getta via il sogno per una via facile solo in apparenza. Ma le tre vette dell’album sono, nell’ordine, “Sorella solitudine”, “Ave Maria” e “Preghiera blasfema”. La prima canta meravigliosamente una condizione esistenziale, dove si è liberi o deprivati delle aspettative riposte nell’altro, chiunque esso sia. Costante e senza volto, è la solitudine. Non può ferire con la memoria.  “Ave Maria”, è forse la canzone dal maggiore impatto emotivo, quella dove l’amore tanto annunciato, tradito e smarrito si rivela puro e terreno, la presenza gentile della madre, colei pronta a battersi fino alla fine perché Vale più l’uomo vivo/di un Dio quasi morto. Il Cristo è la fragilità di ogni figlio spezzato, sanato nella grazia materna, che sia quella di una madre reale, con un nome e un’età o madre-vita ovunque si manifesti. E così “Preghiera blasfema” è un’accusa, una richiesta e un atto di riconciliazione con il padre, per essere infine visti come si è: deboli invece che forti; impauriti e immersi in un santo delirio al cospetto di una volontà incomprensibile che non ci riconosce. Nella sofferenza che io trovi l’essenza, scrive Lorenzo. Quel nocciolo duro che è la vita e il desiderio di esserci, anche con una tristezza resistente che a volte si piega alla preghiera e alla gioia.

Non è un ascolto indenne, questo. Se ne esce cambiati, come indossando la parte di noi che ci fa più male e che pure è la nostra compagna fedele. Il talento può dare fastidio, può provocare una smorfia d’imbarazzo quando si mostra nudo. Il talento di Lorenzo è la sua voce, che è poi la sua anima. A volte l’anima non ce la fa nel mondo ordinario o in quello che crede sia tale. Si nasconde, aggredisce, urla e cade. Ma si rialza nel canto.


Il mistero del violinista Raffaele Nobile

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di Kika Bohr
Sto cercando di scrivere qualcosa su un simpatico personaggio pieno di vita che incontravo ogni tanto per le vie e nelle inaugurazioni di mostre a Milano, era sempre accompagnato dal suo violino e ogni tanto da una ragazza che si mascherava da gatto. Era lui il “Gatto Teofilo” che risultava dal suo indirizzo di posta elettronica o era la sua ragazza, il “gatto”? e “Teofilo”?

Un giorno, in uno di questi incontri casuali mi aveva raccontato che aveva dato lezioni di violino a mia sorella alla scuola popolare di musica di via Santa Marta. Lei non ricorda di averlo avuto come maestro, comunque aveva suonato per un po’ il violino e aveva frequentato via Santa Marta… Realtà e fantasia si incrociavano nei suoi racconti come per i migliori cantastorie e lo si ascoltava sempre con gran piacere, come una vecchia conoscenza che si è sicuri di ritrovare improvvisamente girando l’angolo, con la felicità di sentirsi improvvisamente portati fuori dai crucci quotidiani. Perché da tutta la sua persona rubiconda, barba e capelli lunghi, corporatura tondeggiante, emanava una grande allegria e c’era ogni volta una felicità dell’incontro, rari al giorno d’oggi. Un giorno mi ha parlato del suo orto, Raffaele viveva fuori Milano, ma non in periferia, in campagna, forse. (Ultimamente ho saputo che era di Voghera, quindi a una sessantina di chilometri da Milano). Lo immaginavo allora mentre suonava “donna lombarda” (v. ad esempio qui) uno dei suoi pezzi forti, magari all’ombra di una pergola o danzando tra le insalate e i cavoli cappucci: qualcosa di panico si sprigionava dalla sua persona. La vita quotidiana per lui si mischiava spontaneamente alla cultura. Lo trovavo spesso alla Galleria Ostrakon di via Pastrengo a Milano. Lì, c’erano letture di poesia, mostre, presentazioni di libri in un piccolo spazio che offriva sempre novità interessanti. A volte Dorino Iemmi lo invitava a suonare, altre volte Raffaele passava semplicemente a bere un bicchierino e a fare quattro chiacchiere. Stupiva la sua capacità di mischiare cultura “alta” e popolare senza apparenti inibizioni. Ora ho scoperto che già nell’ ‘81 aveva scritto “L’albero del canto” e recentemente aveva pubblicato “Il testamento dell’avvelenato” un’altra piccola raccolta di canti popolari delle “quattro province” – un territorio dell’Appennino tra le province di Genova, Pavia, Alessandria e Piacenza. In realtà di queste misteriose “quattro province” parlava spesso nelle sue – a volte brevi altre lunghissime e piene di aneddoti – introduzioni che lui faceva prima di imbracciare il suo strumento.

Quando suonava però, nell’estasi musicale e nella danza – perché lui sembrava ballare mentre suonava – nella sua verve e con quel suono del violino allo stesso tempo sapiente e popolare, mi ricordava i violinisti di Chagall che ti portano come niente fosse sopra un tetto o in giro per il firmamento.
La sua “musica dei folletti” come la definiva a volte, (e come aveva scritto nell’astuccio dello strumento quando vendeva i suoi cd autoprodotti), non era una cosa da Walt Disney.

Ero sicura di avere qualche video o immagine di lui e ho cercato nei miei confusi archivi di tutti gli ultimi anni. Mi sono accorta che non ne avevo neanche una. Come è possibile? Forse perché quando c’era la sua presenza non si pensava a niente, ci si lasciava trascinare e incantare dal suono del suo violino, della sua voce e dai suoi lazzi, troppo felici di ridiventare bambini.

È scomparso improvvisamente un anno fa e mi sono resa conto di quanto poco si sa delle vite degli altri, anche di persone che ci sono sembrate così vicine….

Su Youtube si trovano parecchi video su di lui: ad esempio qui

Colonna (sonora) Gramsci

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Claudio Loi

Questa playlist nasce – oltre che dal grande rispetto e ammirazione verso Antonio Gramsci di cui sono conterraneo – dalla volontà di colmare una défaillance. Ogni anno ad Ales in Sardegna, il paese natale di Gramsci, un manipolo di irriducibili organizzano Rock per Gramsci, una giornata di festa a base di ottimo rock, cibo preparato in loco, tanti amici, tanta birra e la gioia infinita di stare insieme sotto la protezione dell’amato Antonio. Anche nel 2020 la festa si è consumata tra mille sacrifici e rinunce ma io, purtroppo, per un impegno concomitante, non ho potuto partecipare. Per questo mi sono sentito in obbligo di pensare questa playlist con musiche di ogni tipo e ogni dove. Ecumenica, politica, sardocentrica, instabile, disorganica e illogica come il mondo che ci circonda e che ci piacerebbe vivere in altri termini. Quindi buon ascolto nel nome di Antonio Gramsci e lunga vita a Rock per Gramsci.

 Claudio Lolli. Quello lì (compagno Gramsci). Da Un Uomo in crisi, 1973.
Questa canzone racconta le vicende di Antonio Gramsci ancora studente a Torino, viste con gli occhi di un suo vicino di casa dalla mentalità chiusa e reazionaria. È come se Gramsci venisse condannato a priori per il suo essere un uomo che pensa e ragiona. “Il giorno che arrivò in città fresco dalla Sardegna, per fare l’università c’aveva già lui la faccia di chi c’insegna, aveva già la sua strana testa grossa e l’aria di uno che ha freddo fin nelle ossa. Io lo sapevo quello lì, me lo sentivo quello lì, che non sarebbe andato avanti molto.” Purtroppo Lolli ci ha lasciato ma la sua musica rimane con noi.

 

 

Scritti Politti. Skank Bloc Bologna. Singolo del 1978.
Hanno avuto almeno due vite. Una punk militante e selvaggio intorno al 1978 quando pubblicarono il loro primo devastante singolo Skank Bloc Bologna e poi la svolta glamour verso un art-pop più sofisticato eppure pieno di belle intuizioni e black music. Il loro nome arriva da una deformazione (voluta o meno non si sa) degli Scritti Politici di Antonio Gramsci e questo basta a farceli amare. Ma la musica di Green (Gartside) è sempre stata di superba qualità in tutte le loro reincarnazioni. Secondo Simon Reynolds (Post-Punk 2005) “‘Bloc’ è una sottile allusione ad Antonio Gramsci (uno dei teorici neomarxisti preferiti dagli Scritti e al suo concetto di ‘Blocco storico’: un’alleanza delle classi oppresse per rovesciare l’ordine costituito e riformare il ‘senso comune’ dominante in merito a ciò che è naturale, stabilito, possibile; la rivoluzione come creazione di una nuova realtà”. E il riferimento a Bologna è relativo al subbuglio politico-culturale che la città a conosciuto alla fine degli anni Settanta, un ‘Blocco’ o meglio un ‘Movimento’ indefinito composto da: occupanti abusivi, femministe, gay, studenti, lavoratori non sindacalizzati e saltuari e il PCI che brancolava nel buio. “Something in Italy / Is Keeping us alive” cantavano gli inglesi mitizzando una scena che poteva essere il germe di un nuovo mondo. Poi le cose sono andate un po’ diversamente ma l’importante è sognare.

 

Franco Madau. Cantu pro Gramsci. Da Ottana del 1984.
Franco Madau, di Tuili, ha conosciuto le fabbriche del nord Italia, ha vissuto le lotte operaie, lo sfruttamento e cosa significhi lasciare la propria terra con poche speranze di migliorare la sua condizione umana. Poi è tornato a casa e con la chitarra ha raccontato la sua visione di Sardegna, ha cercato di smuovere le coscienze dei propri simili, ha girato il mondo portando la voce della sua terra. L’album Ottana risale al 1984 (ma esiste anche una ristampa del 2004) ed è uno dei suoi lavori più diretti e riusciti e non poteva mancare un doveroso omaggio ad Antonio Gramsci. “E così abbiamo sfilato di notte, con le macchine in fila ordinate. Ed ad Ales – dove è nato – siamo arrivati, e nella piazza poi ci siamo fermati. Abbiamo portato più di mille garofani, e una bandiera rossa per ricordarlo, e nel silenzio una voce dal gruppo si è levata: Antonio nostro, non sei morto ancora. Antonio nostro, non morirai mai; ti vediamo in ogni cosa giusta, in ogni giorno di festa dove c’è gente che lotta per difendere il pane.”

Billy Bragg. Workers Playtime del 1988.
L’album Workers Playtime risale al 1988 ed è uno dei più diretti e incisivi pubblicati da Bragg. Sulle sue posizioni politiche c’è poco da aggiungere: tutta la sua vicenda umana e artistica è improntata alla diffusione di concetti di origine marxista, canzoni di protesta sulla scia di altri artisti precedenti come Woody Guthrie, Phil Ochs, Pete Seeger ed è nota anche la passione di Bragg per il pensiero politico di Antonio Gramsci tanto che nel booklet del disco è espressamente riportata una sua citazione. In quella frase Gramsci riflette sul rapporto tra lotta politica e rapporti umani, sulla capacità di essere sinceri, leali, uomini giusti. E su cosa significhi essere militanti, sposare una causa, combattere per degli ideali in rapporto alla propria esistenza e alla capacità di essere rivoluzionari anche tra le pareti della propria casa, nei limiti imposti dalla personale esistenza di ognuno. Riuscire a capire i limiti del proprio ego per evitare il mestiere del politico, freddo, lucido, spietato, calcolatore. “Se sbatti la testa contro il muro è la tua testa che si rompe e non il muro – questa è la mia forza, la mia unica forza.”

“How many times have I wondered if it is really possible to forge links with a mass of people when one has never had strong feelings for anyone, not even ones own parents, if it’s possible to love a collectivity when one has not been deeply loved himself by individual human creatures. Hasn’t this had some effect on my life as militant – has is not tended to make me sterile and reduce my quality as a revolutionary by making everything a master of pure intellect, of pure mathematical calculation”.

“Ma quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario?”. (Lettera del 6 marzo 1924 da Vienna alla moglie Giulia).

 

Clara Murtas / Ennio Morricone. In forma di stella. Da De sa terra a su xelu del 2002.
Murtas e Morricone si incontrano per la prima volta a Roma nel 1974. Il maestro la invita a collaborare a un album dedicato ad Alexander Panagulis e la sua voce si affianca a quelle di Dodi Moscati e Donatina De Carolis nella facciata B del disco. Nel 1976 sarà sempre Morricone a invitare la Murtas per cantare nella colonna sonora de L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo. Da cosa nasce cosa e nel 2000 è Clara Murtas a chiedere a Morricone di curare gli arrangiamenti per una versione orchestrale della tradizionale Ave Maria. Deus ti salvet Maria. Il maestro accetta volentieri e il risultato sarà pubblicato nel 2002 in un CD dal titolo De sa terra a su xelu con la voce ieratica e solenne della Murtas e le magie sonore di Morricone. In forma di Stella è il brano che chiude il disco con musiche di Morricone e Murtas e testi scritti dalla Murtas integrati da una quartina di Peppino Marotto dedicato ad Antonio Gramsci. “Quadernos iscrittos in d’una cella oscura / De unu sapiente illumina su mundu”. Le parole di un poeta ricordano il pensiero di un intellettuale con lo sfondo magico delle musiche di Morricone e la voce di Clara Murtas. C’è poco altro da aggiungere…

Purge. Antonio Gramsci. Da Il Neige en Syrie del 2002.
Trio canadese composto da Yannick Essertaize, Frédéric Talbot, Éric Leblanc, ha pubblicato l’album Il Neige en Syrie nel 2002 due anni prima del loro scioglimento. La traccia Antonio Gramsci è elettronica spinta con sembianze tecno. Musica glaciale, rumori di macchine, anima sintetica e un cantato in francese che non rasserena. Nessuna notizia sul gruppo e sui singoli componenti ma non poteva mancare.

 

 

 

 

 

Giovanna Marini. Le ceneri di Gramsci del 2006.
Le ceneri di Gramsci è una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini pubblicata da Garzanti nel 1957. Il volume, che riporta il sottotitolo “Poemetti”, raccoglie undici poesie già pubblicate su riviste tra il 1951 e il 1956. Nel 40° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Ostia, 1975) Le Ceneri di Gramsci è diventato – grazie a Giovanna Marini – un oratorio a più voci dal canto di tradizione orale al madrigale d’autore e la versione che si trova nel libro-disco pubblicato nel 2006 è stata registrata dal vivo al Teatro “Giovanni da Udine” di Udine. La Marini rilegge i versi di Pasolini e li rende opera corale di rara bellezza: “un discorso intimo e serrato di passioni frustrate, allontanate, spente a forza, una serie di pensieri mai espressi, ragioni mai dette, questo è un canto della verità, qui Pasolini si svela interamente, senza pudori, attraverso la poesia”.

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato quaggiù tra questi liberi.

Alla fine dei versi Pasolini ricorda che “Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: “Cinera Gramsci” con le date.

 

Roberto Piana. Da Tuo Antonio Gramsci del 2007.
Roberto Piana è un pianista e compositore di formazione classica e la solita trafila: Conservatorio, diploma, concerti, premi prestigiosi, didattica e tanto altro. Oltre al repertorio classico per pianoforte Piana ha sempre prestato grande attenzione ai musicisti della Sardegna, la sua terra, in particolare a Lao Silesu al quale ha dedicato diverse incisioni e interessanti ricerche. Nel 2007 ha pubblicato un CD dedicato ad Antonio Gramsci attraverso un’interazione tra parole e musiche. Le note di presentazione di Tuo Antonio Gramsci chiariscono bene il senso dell’operazione: “Intanto un uomo. Un inedito Antonio Gramsci si riscopre attraverso un esclusivo repertorio di musiche originali firmate dal pianista e compositore Roberto Piana e ispirate alle nozioni ritmico-armoniche vergate dall’intellettuale sardo nei Quaderni del Carcere, oggi proposte per la prima volta, tra letture recitate di missive private indirizzate da Gramsci alla madre e alla moglie (…)”.

 

Il Teatro degli Orrori. Martino. Da Il Mondo Nuovo del 2012.
Tratto da Il Mondo Nuovo terzo album della band di Pierpaolo Capovilla, Martino descrive una storia di violenza poliziesca, ispirata dalla poesia Il compagno di Sergej Aleksandrovič Esenin. “Era figlio di un semplice operaio. La sua storia è molto breve. I suoi capelli erano neri. Come la notte. Che cova sciagure. Aveva solamente due amici. Sergej, un gatto vecchio e sordo. E Antonio Gramsci. Se ne stava incorniciato alla parete. Come al solito. Martino viveva E nessuno sapeva. Antonio Gramsci. Lo osservava di soppiatto. Spione comunista. Ma il suo sguardo. Non era mai malevolo”.

 

 

Giorgio Baratta, Clara Murtas, Giancarlo Schiaffini, Adriano Orrù. Gramsci in Concert. 2013.
Due voci recitanti, un trombone, un contrabbasso e le parole di Antonio Gramsci sul palco della piazza del nuraghe di Sant’Anna Arresi nel 2013 poi finite in un CD. Parole sparse, scritte su pezzi di carta, quaderni, supporti inventati all’occorrenza, idee in divenire, concetti universali, un magma immenso da ricomporre e decifrare mille volte, all’infinito. Un corpus che ci serve per capire questo strano mondo: “Il mondo è veramente grande e terribile, e complicato. Ogni azione che viene scagliata sulla sua complessità sveglia echi inaspettati”. Parole sante!

 

Gabriele Mitelli. Antonio Gramsci. Da Hymnus ad Nocturnum del 2014.
Trombettista e compositore bresciano, Gabriele Mitelli ha pubblicato il primo disco a suo nome, Hymnus ad Nocturnum, nel 2014 per Parco della Musica Records. Lo accompagnano Nelide Bandello (batteria), Giulio Corini (Contrabbasso) e Alfonso Santimone (piano). Il disco comprende 7 tracce e la sesta si chiama semplicemente Antonio Gramsci. Vincenzo Roggiero così scrive: “Hymnus ad Nocturnum è disco che si eleva al di sopra delle meschinità terrene, che si dipana riflessivo e meditabondo con la libertà e l’informalità linguistica del quartetto a sorreggerne le sorti. È musica che si pone con delicatezza e sincerità ma che scuote con decisione la coscienza dell’ascoltatore”. Antonio Gramsci avrebbe gradito.

 

Pornostroika Dadaifi. Indifference. Dalla compilation Martyred Heretics del 2014.
Nella compilation Martyred Heretics, pubblicata nel 2014 dalla label Mustard Relics troviamo 18 brani di impostazione industrial, dark wave, noise e cosette così e la quarta traccia è opera del gruppo greco Pornostroika Dadaifi che propone Indifference basata sulle opere di Antonio Gramsci. Musica elettronica disturbata, malata, pensata per scenari apocalittici contemporanei, geografici e mentali. Diversamente piacevole.

 

 

 

En?gma. Cerbero. Da Shardana del 2018.
Pseudonimo di Francesco Marcello Scano rapper di Olbia prima nel giro di Salmo poi spostatosi verso altre direzioni. Shardana è il suo quarto album, pubblicato il 23 febbraio 2018 dalla Artist First: 11 brani più le bonus track Cerbero e ImagiNation, già precedentemente pubblicate dal rapper sul proprio canale YouTube. Rispetto alla media dei rapper/trapper italiani En?gma si evidenzia per la cura dei testi e la qualità è forse troppo alta per un pubblico che apprezza ben altro. In Cerbero colpisce la citazione al conterraneo Gramsci. “A volte mi chiedo ma se t’ammazzi? Che mondo lasci? Dove ne prendi pure il doppio se sei debole e t’accasci. Dove i sorrisi falsi sono prassi così come i freddi abbracci. Pazzi, siamo pazzi, appunti sparsi senza sintassi. Passi da scalzi nei ghiacci. Tipo che ancora in giro si parla di fasci. Ed io che allora riempirò quaderni come Antonio Gramsci.”

 

Finisce così il mio personale omaggio a Gramsci. Ho scelto tra tante possibilità quelle che mi sono sembrate più interessanti anche se forse un po’ scontate. Ognuno potrà farsi il suo viaggio e la sua scaletta se lo desidera, questo è solo un piccolo divertimento e nulla più. Ho lasciato fuori ad esempio Mauro Sabbione e il suo progetto Gramsci Bar del 2003, ho eluso Blitz Gramsci, un misterioso produttore elettronico che ha scelto questo moniker chissà perché. E poi Jago di cui non so nulla ma ha scritto un brano di elettronica ambient che si chiama Antonio Gramsci e un motivo ci sarà. Ci sarebbe anche un certo Paul McLaney, cantante, compositore, produttore stabilitosi in Nuova Zelanda ma originario del Regno Unito: è membro di un gruppo che si chiama Gramsci con cui ha pubblicato quattro album. Pop rock acustico di buon livello e niente più ma rimane il mistero del nome.

 

Testimone di passaggio

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di Francesca Matteoni

Come suona il presente? Forse come uno spettro, che mentre lo guardiamo è già altrove, una fotografia dai contorni in dissolvenza, sfumata in colori troppo vividi per sembrarci reali. Catturano questo suono le dieci tracce di Testimone di passaggio, ultimo disco di Flavio Ferri ( Delta V), che si tessono potenti intorno ai versi del poeta Luca Ragagnin. Un disco che si avvale della collaborazione di vari compagni d’avventura e musicisti importanti della scena indipendente italiana: Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI, PGR), Carlo Bertotti (Delta V), Marco Trentacoste (Deasonika), Livio Magnini (Bluevertigo), Olden, Paolo Gozzetti, Fabrizio Rossetti, Valerio Michetti, Ulrich Sandner, Marco Olivotto, Mia Ferri, Elle, Codice Ego.

Il senso della fugacità del presente tuttavia non può essere ridotto a un rapido consumo, come detta l’abitudine più diffusa: per testimoniare bisogna saper durare, resistere alle mode e infiltrarsi ostinatamente nel mondo al contrario, facendosi negli spigoli ferita/ a prova di universo, come dicono due versi di “Beckett”, canzone d’apertura. Anche per questo il disco non è disponibile, salvo per tre tracce, in formato digitale, ma solo in CD e vinile, nella forma fisica che richiede contatto e cura. E in questa forma me lo sono riascoltata una domenica mattina, ricevendo la stessa sensazione dei vecchi dischi: una misura personale del tempo, in cui la voce evocativa di Ferri esalta la profondità delle parole in una poetica elettronica lucidamente spaesata e liberatoria. Si parte da una solida base letteraria – i testi di Ragagnin infatti precedono la produzione musicale, evocando numi tutelari nelle persone di Beckett, Houdini e Ligeti, ovvero il grande drammaturgo del Novecento, secolo che questi anni zero si portano addosso senza digerirlo; il grande illusionista e il grande compositore moderno, la cui fama è legata ai capolavori cinematografici di Kubrick. Per un significativo paradosso tuttavia la grandezza dei tre è direttamente proporzionale alle loro sparizioni: il non detto, il silenzio che supera il linguaggio per il poeta; le fughe straordinarie del mago, la cui illusione è una maschera del fallimento e diviene suggello di estinzione, nella chiusa memorabile del testo a lui dedicato; gli universi crollati negli occhi del compositore che ha scritto la colonna sonora dell’inizio della civiltà e dunque anche della sua inevitabile dissoluzione.

Dalle figure profetiche si passa a quelle fiabesche, ma andate a male, come accade in “Bambina da canzone” e “Moderna”, le cui protagoniste scambiano il bosco per un mondo di opportunismi e veleno o si risvegliano disincantate, private di ogni scenario di salvezza classica: Ma non è una fiaba da villaggio incantato/E non sei la regina di un regno ghiacciato/Non porti il diadema d’un amore a riscatto/Sei soltanto la figlia d’ignoranza e misfatto. Sulla vanità della cronaca, ovvero la brutta copia della realtà, si rovescia il paesaggio intimo e dissonante di Ferri-Ragagnin, in un esercito deposto di libri alle pareti in “Testimone di passaggio”, nell’inevitabile assenza che è l’altra faccia del desiderio di permanere da qualche parte in “Le verità roventi”. Ma è in “Odio” e “Scoppio di dio” che il disco raggiunge il suo apice: fiaba, profezia, cupa densità trascinano l’ascoltatore in un crescendo della trama sonora. A volte la lingua fa questo, corre più veloce del pensiero e quasi raggiunge il rumore da cui viene la musica. Così ascoltiamo il suono rabbioso della gioia e della pace come un delirio di consapevolezza: Ti avevo abbandonato dentro un bosco/Nel tempo che defoglia gli alfabeti/Ma sei tornato senza sassolini/E mi hai legato al collo con un cappio./Il ghigno storto della gioia,/della pace, della pace. O ci ritroviamo dentro una litania che insegue dio in una variazione versificatoria senza tregua: che mangia il tempo e che si chiama…/che porta il tempo e che si chiama…/che parla il tempo e che si chiama…/che tace il tempo e che si chiama…/e che diventa dio dopo il tramonto/e che diventa dio dopo il trapianto/e mente un pianto per andare/e mette un panno per restare/un lino bianco steso sul millennio/un velo bianco teso sul millennio/un vero falso illuso sul millennio/ dna d’amore sul millennio. Dna d’amore sul millennio, ovvero un sangue antico e furibondo, parafrasando ancora la canzone, che infine si prende la sua rivincita come un canto di battaglia. E dunque, d’amore.

Radiodays: intervista a Gianni Maroccolo

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Photo © Marco Olivotto

Suoni di frontiera scorrono lungo antichi canali

in conversazione con Gianni Maroccolo

di Mirco Salvadori

 

Il temibile grand tour nel passato: quando “l’eroe della nuova onda” tutt’ora combattente, viene a contatto con il microfono del giornalista di turno che inizia a vagare all’infinito nel suo trascorso artistico, quasi a dover ancora e nuovamente sottolineare una tenacia che, nel caso di Marok, non ha più bisogno di essere documentata.

 

Esistono decine di anni a dimostrarlo, testimonianze fissate sul vinile, fiumi di parole scritte sulle pagine di un’epoca che solo uno stolto può cancellare. Gli anni ’80, quella piccola rivoluzione musicale italiana si è rivelata un importante fenomeno culturale raccontato nelle mille lingue di chi lo ha vissuto ma, come nel resoconto di una narrazione orale, la realtà ha iniziato a perdere i contorni della storicità ben definita, perdendosi nelle varianti del ricordo diffuso. Ecco quindi che le domande poste devono cambiare pelle, trasformarsi in indagine meno sentimentale e più introspettiva. Credo si debba chiedere il permesso di entrare nell’intimo del testimone di quei tempi per capire cosa realmente sia successo e lo si debba fare nel presente, parlando degli accadimenti dell’animo e cosa hanno fatto scaturire artisticamente ora, a distanza di quarant’anni.

Con Gianni Maroccolo lo si può fare, si può chiedere permesso e quella porta verrà aperta permettendo di scoprire il vissuto reale di un musicista e produttore che ha fondato i Litfiba si, ma soprattutto ha creato e sa creare musica capace di basare le sue radici nella cultura non solo musicale odierna, ben lontana dai sempre comunque amati vagiti imprigionati nelle trincee create dalla nostalgia, caliginosa sostanza che invade come gas tossico ogni terra di nessuno.

 

Photo © Marco Olivotto

Com’è Gianni, come hai affrontato e stai affrontando questa lunga maledetta e invisibile tempesta.

 Più che affrontarla la sto attraversando come tutte le altre tempeste che la vita ci impone di vivere. Passo dallo sconforto alla voglia di non mollare; insomma procede a corrente alternata pur ritenendomi comunque un privilegiato. La mia vita, ad eccezione del contingente e dell’ impossibilità di poter suonare dal vivo, procede più o meno come sempre. Mi manca la frequentazioni dei miei cari, degli amici, ma non soffro le restrizioni né le vivo come una privazione delle mie libertà personali. Cerco di non lamentarmi troppo e continuo a non aspettarmi niente da nessuno né tanto meno dai governi e dai politici. Da sempre abituato a contare solo su me stesso procedo in attesa che il peggio passi. Ognuno di noi ha perso qualcosa o qualcuno in questo periodo, io compreso, ma fa parte della vita e credo sia inutile ricercare ora cause, nemici e/o colpevoli.

Secondo il tuo sentire, questa esperienza andrà a cambiare i rapporti interpersonali, stravolgerà le abitudini del confronto interpersonale?

 Non credo. Ma penso che in futuro riusciremo perlomeno a rivalutare e a dare importanza a certe piccole cose che davamo per scontate o che ritenevamo non essenziali. Spero anche che questo periodo di ristrettezze economiche ci faccia comprendere quanto sia inutile sprecare energie e soldi per il superfluo, il non necessario.

Ora è impossibile agire come verrebbe naturale fare. Vige il divieto di riunione e risulta impossibile creare e distribuire immaginazione, dopo che si è fatto a pezzi il tempo per raggiungere quel sogno. In questo malnato periodo il ricordo rimane uno dei pochi rifugi confortevoli nei quali raggomitolare la propria anima comunque ferita. Mentre ti scrivo sta girando sul piatto la versione rimasterizzata di vdb23, un vero album di ricordi e forti emozioni per chi ora lo sta riascoltando e presumo anche per chi lo ha composto. Tu e Claudio Rocchi, la tua musica i suoi testi. Partiamo da qui Gianni, dal ricordo e dall’importanza che riveste nel tuo andare.

 Il ricordo è parte del mio presente. E’ dentro di me e condiziona benevolmente ogni mia scelta, ogni mio gesto. Così come Claudio di cui non riesco a parlare declinando ciò che ci unisce al passato. E’ vivo nel mio vivere “qui e ora”. Ogni ferita è destinata a rimarginarsi così come un’ Anima che è stata dilaniata dal dolore. Magari rimane qualche cicatrice visibile, ma le ferite si chiudono sempre. Una delle ragioni che ti portano a procedere senza paura né rimpianti (come diceva Claudio) è la grande possibilità di abbandonare il noto per l’ ignoto. Vdb23 è stata l’ evoluzione in musica di un rapporto umano quasi miracoloso e di un viaggio (ancora in corso) verso la Conoscenza. Questo riguarda, credo, più il legame tra me e Claudio, ma mi piace credere che Vdb sia un’ esperienza che trascende da tutto: dal tempo, da ogni credenza, da ogni moda, da ogni stile. Una vera e propria esperienza di ricerca e di conoscenza interiore e umana. Claudio attraverso Vdb, ci ha lasciato parole e pensieri di una densità e di una profondità Altissima. Sono e rimarranno a disposzione di chiunque abbia il desiderio di abbandonare appunto il noto facendosi trasportare verso l’ ignoto dove spesso ci attendono sorprese inimmaginabili.

 

Un altro passaggio fondamentale incontrato nelle curve delle strade a sorpresa è il tuo bisogno di ritrovarti solo, di sentire attorno a te questo alone di ritiro dentro il quale poter fare e disfare senza mediare con chi solitamente ti è a fianco nella composizione. In realtà, durante tutto l’arco dei quattro capitoli del progetto Alone, di artisti ne hai avuti molti a farti compagnia anche se l’aria che si respira ascoltando il lavoro, ha decisamente il tuo volto e il tuo pensiero. Ti chiedo di fare un ulteriore salto passando dal ricordo alla solitudine o al bisogno di distacco. Da cosa é scaturito e quali i benefici che ti ha donato.

 

C’è da dire che sono sempre stato un po’ orso. Non temo la solitudine e mi emoziona la malinconia che niente ha a che fare con la tristezza. Stare a lungo da soli amplifica la bellezza dell’ incontro e del ritrovarsi. Credo possa valere anche per la musica. Affrontare un viaggio in solitaria non significa (almeno per me) necessariamente farlo da solo ma condividere esperienze e incontri speciali… per un attimo ci si ritrova a viaggiare insieme per poi salutarsi e proseguire ognuno verso la propria destinazione. Senza la necessità di organizzarsi, senza il bisogno di decidere e/o pianificare, senza aspettative. Scambi creativi ed energetici magari brevi, ma quasi sempre intensi. Alone è il mio viaggio in solitaria certo, e desideravo da tempo “partire”, ma non ho pensato che sarebbe diventato una classica esperienza “solista” ortodossa. Mi piace troppo la musica di insieme così come condividere e confrontarmi con altri esseri umani, altra musica, note e suoni. Alone non nasce dal desiderio di distacco né dalla scelta di arroccarsi, ma dalla curiosità di sperimentare in primis me stesso in una dimensione fino ad ora mai vissuta per paura o forse per pudore. Forse l’ unico beneficio tratto sin qui da questa esperienza è avere compreso che tutto sommato sono ancora in grado di fare musica e di comporre qualcosa che abbia un senso anche nella dimensione temporale attuale. Così è tornata ispirazione e voglia di produrre ancora, e una maggior sicurezza in me stesso. Come dire… beh, tra tanta musica o pseudo tale, possiamo continuare ad esistere sia io che la mia, di musica. Così anche per me continua ad avere senso proseguire e ricercare un piccolo spazio vitale.

Da solitudine a indipendenza il passo è breve. Indubbiamente tu sei uno dei rari e veri artisti indipendenti ancora in circolazione. Giungi da epoche lontane, nelle quali questo termine aveva un senso reale, un significato che si è perso nel corso del tempo. Sai bene come la penso a tal proposito. Quale, se puoi esprimerlo, il tuo parere a tal riguardo. In questa Italia musicalmente allo sbando, in balia di Talent Show che massacrano la creatività, preda dell’ignoranza musicale che tutto fagocita e rigetta. In questo palcoscenico sul quale continuano ad esibirsi e vengono scambiati per vivi, i resti dell’Indie morto da decenni, o dell’autentica canzone popolare. Nel belpaese tutto finti premi e cotillons, che senso può avere ancora il termine indipendente e quale la difficoltà nel continuare a indossarlo.

Non ci avevo mai pensato ma in effetti, perlomeno nel mio caso, una certa tendenza alla solitudine può avere alimentato non poco il mio desiderio di indipendenza. Nel momento stesso in cui veniamo al mondo ci ritroviamo di fronte ad una serie di convenzioni, regole, usanze che nei primi anni della nostra vita accettiamo come dati di fatto. Poi con il tempo inizi a porti delle domande, a dubitare e a cercare di comprendere se ciò che si era ritenuto scontato e giusto lo fosse realmente. Nel momento in cui ho iniziato a mettere in discussione queste “certezze” ho avuto il desiderio di conoscerle seriamente così da arrivare a poter fare delle scelte per poi ricercare e/o creare alternative congeniali ai miei desideri e alla mia vita. La non accettazione a priori di qualsiasi tipo di “status” ti costringe ad approfondire ma al tempo stesso ti da la possibilità di scegliere. E credo che ogni scelta ponderata ci renda liberi di mente e indipendenti da tutto e da tutti. Comprendere il contesto temporale in cui viviamo (e quello da cui veniamo) aiuta a trovare mezzi, soluzioni, e opportunità per provare a concretizzare i propri desideri. Utilizzare il “contesto” quindi per costruire la propria vita nel modo più indipendente possibile da esso. Fosse per me abolirei il tempo convenzionato e costretto in 24 ore, mesi, anni o tornerei a quando gli intervalli musicali non erano “temperati” etc…. ma tutto non si può avere. Il ritagliarsi la propria indipendenza non è necessariamente, almeno non per me, una questione ideologica. E’, e dovrebbe essere, una necessità vitale.

Photo © Monia Pavoni

Applicata alla musica la sostanza non cambia: il talento e la creatività si sono sempre scontrati con il pensiero comune e con le convenzioni sociali di ogni epoca, ma credo sia troppo semplice limitarsi a pensare che si “stava meglio prima” anche perché “prima” magari eravamo diversi anche noi e perché le mutazioni sono inevitabili. Portano con se il marcio e i limiti degli esseri umani ma al tempo stesso sono portatori anche di bellezza e innovazioni che rendono migliore la vita delle persone. Spesso mi sento come una saponetta che fa di tutto per essere inafferrabile sfuggendo più che può da regole, leggi, usi e costumi, ideologie. Così come da etichette, categorie, settori… in musica poi non ne parliamo. Mai sopportato l’ idea che qualcuno possa dirmi che musica faccio, a quale genere appartengo etc…. Tutto odora di ghetto e/o di autocompiacimento referenziale. Non so quale differenza sostanziale possa esserci tra il Festival di Castrocaro e un talent odierno. Dalla hit parade di Lelio Luttazzi a quella odierna di una qualsiasi radio. Non dovrebbe essere un problema capire di che si tratta e scartare o farne a meno per ricercare altre strade. D’ altronde, nonostante i cambiamenti, la musica circola come sempre e come sempre il “mercato” ti propone si e no il 10% della musica che viene suonata e prodotta ogni giorno nel mondo. Vale per chi suona così come per chi è appassionato di musica, scegliere di confrontarsi col restante 90%. E non credo, a differenza di altri, che sia stato il web né le radio né i talent a rovinare la musica perché, ripeto, la musica continua a circolare e ciò che veicola è ciò che componiamo e suoniamo noi musicisti. Quindi: non è che anche da parte dei musicisti vi sia un’ incapacità di leggere il presente che li porta ad avere paura? Ad avere perso il coraggio di sperimentare e di mettersi in gioco? Non è certo figlio di questi tempi la ricerca del successo, del consenso, del profitto, della popolarità. Dell’ Indie poi beh, preferisco non parlare. Un’ enorme lista d’attesa per coloro che desiderano confrontarsi con quel famoso 10%. Ben conscio del mio passato, vivo il presente senza rimpianti e senza lamentarmi anzi, spesso meravigliandomi di quanto le avanguardie siano vive, creative e pulsanti. Proprio in questi giorni ho ascoltato circa 200 pezzi di altrettanti artisti giovani per l’ abituale contest di “Musiche contro le mafie”. Ho scoperto almeno una trentina di giovani artisti a dir poco pazzeschi e comunque, un livello medio davvero molto alto. Guarda caso… li ho scovati in quel famoso 90% !   Ferretti cantava: le insegne luminose attirano gli allocchi e/o, se si preferisce… è una questione di qualità. Continuo a suonare e a produrre perché stimolato da ciò che mi circonda e non da ciò che è stato.

A questo punto si esige il parere di chi da oltre cinquant’anni si nutre di musica. Cosa ne pensa Marok del panorama musicale italiano e di chi lo frequenta. In quale contesto lo abita e come riesce a viverlo.

 Credo di essermi già dilungato a riguardo. Credo si sia abbassato molto il livello di quella che viene definita “musica leggera e/o mainstream” che dir si voglia, ma che vi sia invece un universo giovanile assai variegato che gode di ottima salute e che mi fa ben stare e sperare.

Esiste una nuova generazione di musicisti e sound artist italiani che decide di stampare il proprio lavoro solo con etichette discografiche estere. Una nutrita e silenziosa rappresentanza artistica per nulla valutata nel proprio paese dove non ha mai trovato serie opportunità. Sto parlando ovviamente del mondo elettroacustico, della sperimentazione elettronica che conta un numero considerevole di esecutori. Tu hai rapporti con questa realtà tutta italiana che si esprime con linguaggio internazionale? E parlando di estero, come viene accolto il tuo suono oltre confine?

Paradossalmente è un bene che certe realtà non vengano considerate nel nostro paese. Uno stimolo in più per pensare la musica e il nostro mestiere in termini universali. Ovviamente dispiace constatare il disinteresse nostrano su certa “musica altra” di indiscusso spessore e valore, e capita spesso che da noi si scopra un artista italiano solo dopo che diventa noto all’estero. Purtroppo non ho rapporti diretti con questi musicisti e un po’ mi duole, ma cerco di seguirli come ascoltatore. Per quanto riguarda me, con la Contempo stiamo facendo i primi tentativi e pare che i feedback siano buoni. Spero di poter tornare a suonare all’ estero; mi manca e tra l’altro, l’ italia mi è sempre stata un po’ stretta. Con i Litfiba ho avuto la grande fortuna negli anni ’80 di suonare tantissimo all’estero; un’ esperienza unica. Forse l’ unico rimpianto che ho se penso al mio passato… ma mai dire mai!

 Affermi di essere un ‘vecchio rockettaro’, termine che personalmente fatico a comprendere nel senso che tutti noi, anziani fruitori sonori alla fin fine lo siamo. Questo però non va a inficiare la nostra voglia di scoprire nuove esperienze di ascolto. Cosa comporta questa definizione ai fini di una costante ricerca in campo sonoro, forse le due cose non possono convivere? Lo sto chiedendo tra l’altro, ad un musicista e produttore che ha frequentato il conservatorio con i suoi corsi di fonologia e musica elettronica.

Lo sono di fatto vecchio e rockettaro. La musica e le canzoni con cui sono cresciuto mi hanno segnato e formato. Il senso di condivisione e di fratellanza, lo spirito di cooperazione, il desiderio di un’ umanità migliore e non ripiegata solo sulle logiche del profitto e su un dualismo estremo. L’ utopia di un mondo senza diseguglianze e confini, il sogno di poter vivere in sintonia con la natura, in libertà. Come quello di poter fare delle rivoluzioni dal basso non violente, creative. La cultura al posto delle armi, la spiritualità da contrapporre alle ideologie. Una parte della mia esistenza è mossa e condizionata da questo approccio alla vita ed è in questo senso che mi sento ancora un rockettaro. Vivo la musica come un bambino curioso che ha voglia di imparare, scoprire, meravigliarsi, confrontarsi. Grazie alla musica riesco ad ampliare la mia conoscenza ed anche per questo mi sono ritrovato coinvolto in vari aspetti ad essa connessi come ad esempio il “suono”, la psicoacustica, lo studio della fonologia e della musica elettronica del 900 così come a studiare basso e altri strumenti moderni da autodidatta o a frequentare dei corsi di armonia o di percussioni. Ho passato mesi in studio ad imparare ogni tecnica di registrazione, come si posizionavano i microfoni, come interagire con l’ ambiente, con le armoniche, la riverberazione naturale, echi a nastro per creare loop ed echi, i synth modulari, e poi i nastri analogici multitraccia, l’editing, la tecnica di missaggio, l’ uso dei mixer e degli effetti etc…. fino ad arrivare al moderno uso del computer divenuto ormai strumento musicale oltre che un comodo registratore. Ognuno di questi e di altri passaggi ha contribuito ad aprire la mia mente e a mantenere costantemente vive le mie percezioni e il mio desiderio di sperimentare. Parallelamente ho ascoltato (e ascolto) di tutto, assistito a concerti di ogni genere e tipo senza mai affezionarmi particolarmente ad un linguaggio in particolare. Studiavo e ascoltavo Varese, Berio, Pousser o Luigi Nono… poi smanettavo filtri e oscillatori e, una volta finita la lezione, a casa mi sparavo un disco di Frank Zappa per poi dopo cena ritrovarmi in cantina con i Litfiba a suonare e a registrare i nostri provini con un Teac a nastro o un Fostex 4 tracce a cassetta. Il desiderio non è mai stato quello di diventare qualcosa o qualcuno, ma di imparare per poter riuscire a fare/produrre qualcosa. E qui, mi ripeto: “passavo dal noto all’ ignoto”, con gli occhi di un bambino e l’ attitudine del rockettaro.

 

Photo © Francesco Balestrazzi

 Uso il rock come fil rouge che ci riporta indietro nel tempo, negli anni ’80 dei quali dovremmo conoscere tutto avendoli vissuti in prima persona, tu più di qualunque altro. L’altro giorno se ne parlava con Paolo Cesaretti (etichetta discografica Lacerba – n.d.r.) e con Arlo Bigazzi (etichetta discografica Materiali Sonori – n.d.r.) e si raggiungeva la conclusione che gran parte di quanto detto e pubblicato è celebrazione o ricordo personale edulcorato di un’epoca che avrebbe bisogno di essere raccontata più ampiamente e collettivamente prima che la memoria vacilli, citando le parole di Cesaretti che faccio mie. Tu che ne pensi.

 

Ho vissuto e attraversato gli anni 80 in un attimo; a velocità supersonica. E’ accaduto tutto in un clima di esaltazione creativa collettiva dove, almeno nel mio caso, vivevi intensamente l’ attimo per poi ritrovarti subito dopo a viverne un altro. E un altro ancora. Posso dire che quel decennio per me ha rappresentato una sorta di università della vita. Ci sono entrato che ero un pischellino e ne sono uscito (nel bene e nel male) uomo. Ancora oggi i ricordi sono vaghi perché tutto era eccessivo e tutto accadeva dall’ oggi al domani. Se io per primo non ho messo ancora a fuoco ciò che “ci è accaduto”, immagino come possa risultare confusa per chi non ha vissuto quegli anni. La memoria è fondamentale per ogni aspetto della vita. Andrebbe raccontata e divulgata e non semplicemente celebrata. E credo che spetterebbe a noi per primi che l’abbiamo generata e vissuta in tempo reale, farlo.

 Continuiamo questo vagabondare sui bordi di un’intervista che probabilmente non ha nulla di classico ma cerca di entrare nel mondo reale dell’artista a cui si rivolge. L’immagine che trasmetti è quella di una persona estremamente disponibile, capace di incassare senza comunque rispondere alle provocazioni, continuando a dare senza ricevere. In una realtà nella quale il rispetto per l’altro ormai passa in secondo piano, viene messo a tacere dall’ego o dall’ignoranza, come riesci comunque a perseverare sulla via della calma e del confronto.

Credo in realtà di avere ricevuto tanto dalla vita. Certo, non è stato e non è facile, ma sacrifici e rinunce fanno parte della nostra esistenza. Continuo a credere che si debba dare senza necessariamente attendersi qualcosa in cambio. Un po’ come per l’amore; si ama non perché qualcuno ci ama. Non credo di essere un masochista né tantomeno un bischero (come diciamo dalle nostre parti), ma non sopporto di pormi sullo stesso piano di chi non mi rispetta e/o cerca di fregarmi. Lascio fare e cerco di farmi capire e se poi non si arriva a nulla volto le spalle e saluto. Senza astio né malesseri duraturi. Mi piace, quando e se posso, rendermi disponibile verso gli altri. Lo faccio in modo naturale e senza nutrire delle aspettative. Per troppo tempo ho sofferto sia per il male che mi facevano che per quello vissuto intorno a me, con il tempo ho capito che la colpa era soprattutto mia. Ho incontrato persone che oltre ad aprire la mia mente hanno aperto anche il mio cuore. Grazie alla musica: Ferretti, Battiato e Claudio Rocchi su tutti. Ma anche persone estranee al mio mestiere che mi hanno aiutato a crescere. Forse l’ho già detto, ho ricevuto tanto e non posso che ritenermi fortunato.

 In un periodo che ci permette di vivere solo l’istante, quale è l’unico desiderio che Gianni Maroccolo vorrebbe potesse avverarsi.

 Difficile risponderti Mirco. Da tempo ho smesso di desiderare. Il desiderio ti pone in uno stato di attesa. Un’ apnea immobile e infinita. Ti proietta nel futuro e non ti fa vivere il presente. Forse mi sto rincoglionendo, ma da quando vivo con intensità il “qui e ora” sto decisamente meglio e, pare, stiano meglio anche le persone che hanno a che fare con me. Non ho alcun desiderio e nessuna aspettativa.

 

Ultima domanda prima di abbracciarti come si fa con un vero amico, anche se mai fisicamente frequentato e con il quale si sono trascorsi momenti di   reale comunanza e ore travagliate: Gianni Maroccolo, tu conosci l’inquietudine?

L’ho conosciuta e praticata per anni. Una sorta di “acne giovanile” a cui ho concesso troppe energie e troppo tempo. La Paura genera inquietudine. Ci si ritrova inquieti e titubanti nel procedere. Tutto ci accade intorno ma non ci prevede. E la paura spesso è a sua volta generata dalla “non conoscenza” o, se preferisci, dall’ ignoranza. Ed è la paura che ci rende intolleranti, presuntuosi, cinici, o disincantati e nichilisti. Il terrore di perdere qualcosa ci fa perdere di vista il nostro potenziale umano. La diversità che dovrebbe/potrebbe arricchirci e farci evolvere come specie, viene vissuta invece in modo dualistico e come costante contrapposizione. Lo spirito di cooperazione che dovrebbe migliorarci e migliorare questa terra lascia sempre più spazio all’ egoismo e all’ individualità fine a se stessa. Perché mai devo avere paura, perché darla vinta all’ inquietudine ? Per difendere il mio frigorifero? O per difendere i miei confini? La realtà credo, è che siamo la specie più giovane di questo pianeta. In quanto tale, ben lontani ancora dalla reale emancipazione e evoluzione. Ma impareremo, stiamo imparando. Ma siamo un po’ duri di comprendonio… ci vorrà ancora un po’ di tempo.

 

 

 

 

 

 

Su Venti di Giorgio Canali&Rossofuoco

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di Francesca Matteoni

Mi preparo per una camminata invernale nel quartiere, il modo migliore per ascoltare Venti, ultimo disco di Giorgio Canali, le cui tracce sono state scritte durante i mesi del lockdown e registrate con i Rossofuoco in smartworking. Venti (La Tempesta Dischi) nasce dalla situazione eccezionale, disgraziata e demenziale in cui ci siamo ritrovati grazie a noi stessi, ma non  è certo un disco sulla pandemia. La società con la sua malattia emerge ovunque in un’opera onesta, densissima di accuse, autoaccuse, fulmini, dove chi canta si riconosce come una scomoda distopia in un mondo fintamente utopico e ottusamente autoassolutorio. Ma niente di questo è riducibile a slogan, mentre nel quotidiano anche l’agire controcorrente diventa apparenza, schieramento qualsiasi in nome di un fittizio bene comune.

E l’ultimo alito di disobbedienza civile
Sepolto con le museruole in un unico grande funerale

(“Nell’Aria”)

Le canzoni di Venti sono le Cartoline nere” di tutti i viaggi nella notte più buia, finalmente inviate, attraverso il mare e nello spazio, verso chiunque sappia raccoglierle, perché Meglio i mostri dello spazio che queste facce tutte uguali. È un disco rock che scaglia pietre e non risparmia nessuno; un disco che omaggia la canzone d’autore degli anni Settanta (vari i riferimenti nei testi), senza ripiegamenti nostalgici; che pesca nella musica ascoltata e assimilata, per rifonderla in un proiettile a ogni traccia e spararlo fuori. Un proiettile come quello usato per i lupi mannari (“Proiettili d’argento”), che ci trapassi, colpendo al centro il presente, dove ogni guizzo artistico disorganico e autentico, viene ridotto a roba buona per i perdigiorno dei sogni andati. Il proiettile va a segno, per tutti gli inutili che al sol dell’obbedire che splende sulla terra (“Inutile e Irrilevante”) preferiscono il buio, irriducibili come i gatti neri

Che si portano sfortuna
E attraversano la strada distratti dalla luna

(“Requiem per i gatti neri”)

“Eravamo noi”, canzone di apertura, ci mette a  confronto con le identità trascorse, senza prenderne congedo. Siamo ancora noi, anche se tutto è andato nel peggiore dei modi possibili.  “Morire perché”, primo singolo del disco, mescola lo spagnolo all’italiano, andando verso un crescendo strumentale finale,come una liberazione per chi non vuole affatto morire, ma essere nel pieno di sé, riconoscendo l’impulso vitale che ci tiene qui, contro ogni ragione.

Morire com’è? Morire come muore il giorno
Meravigliosamente in un tramonto rosso inferno
E tutt’intorno luci che si accendono
Gatti che scopano, fari che abbagliano

La rabbia del disco è la forza di chi si innamora, anche se nel disincanto, anche se l’amore vince tutto e tu perdi sempre  (“Acomepidì”, l’allusione è limpida);  e nel cielo in rovina sopra di noi chiede: abbracciami ancora, come quando questa pioggia non c’era (“Meteo in Cinque Quarti”). O ancora C’è qualcuno che crede alle favole come me?/ e non a come le racconta quel figlio di cane del re  (“Vodka per lo spirito santo”).  Rabbia-cerimonia funebre per la nostre specie, in dialogo con “Fiume Sand Creek” di De André in “Wounded Knee”:

Ti porto a vedere danzare le ombre
Dall’ultima volta hanno imparato a ballare senza fare rumore
Se non ci arrestano prima
E per il nostro bene
Benzodiazepina

Rabbia-anatema in “Canzone sdrucciola”

Chissà perché gli idioti sono spesso in preda a crisi mistiche
Chissà perché ci sono tanti fasci fra gli ex tossici
Se non ci arrivi da solo, fottiti

O moto incalzante, provocatorio e feroce, che denuda chi si rivolta senza perché in “Vieni avanti fischiando”, fotografia in negativo de “La locomotiva” gucciniana.

Vengono avanti fischiando
Secondo me dovresti aver paura
Esplosioni di rabbia cieca
Come la tua fortuna
E niente può fermare questa furia distruttrice
Trattenuta dentro per troppo tempo
Ha la forza della dinamite
La stessa forza della dinamite

Ecco, è il momento del ritorno. Lascio partire l’ultima traccia, la toccante “Rotolacampo” dalle armoniche dylaniane, che scorre nelle amarezze,  tra gli schiaffi in faccia del genere umano, dell’amore, dell’addio e perfino della pietà.

Dici che faccio del male senza nemmeno sapere perché
È che quando tocco il fondo, invece di risalire
Ho un doppiofondo segreto tutto per me

E si fa leggera come un cumulo di foglie e sterpaglia nel vento.

È il vento che porta le nuvole e propaga il fuoco
E qualche volta lascia danni dietro di sé
E io, come un rotolacampo, viaggio con il vento

Con tutte le canzoni ascoltate a ripetizione quando ci credevamo immortali, con l’ansia di ribellarci e la facilità con cui poi ci siamo piegati, con il rancore che sale quando ci svegliamo e non vorremmo più tradire noi stessi o almeno l’idea che di noi stessi ci era così cara. Con la malinconia, la tenerezza, la frustrazione, l’ironia per non impazzire del tutto. Il disco è finito, riprendo a camminare verso un luogo o qualcuno che mi accolga. Vivi e basta, ripete la musica, e diventa tutto.

Quando cambia la luna, c’è un treno per Yuma

Penso di esserci già salita, di volerci salire ancora. Chiunque sia Yuma e dovunque sia.

I Rossofuoco sono Marco Greco, Stewie Dal Col, Luca Martelli. Ospite: Andrea Ruggiero al violino. Copertina  di Martina Moretti.

Colonna (sonora) 2021

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di

Claudio Loi

Playlist 2020 (ai tempi del virus) ovvero 10 album per non dimenticare (o forse sì).

Le note vicende sanitarie del 2020 hanno condizionato in modo drammatico una realtà di solito più dinamica e vivace. I musicisti hanno perso la possibilità di esibirsi in pubblico, di rapportarsi con la realtà e hanno dovuto rinunciare all’unica fonte di reddito rimasta dopo la dissoluzione dell’industria discografica. Ma, da questo punto di vista non sono mancate le proposte interessanti anzi il lockdown è stato per molti artisti uno stimolo alla scrittura e alla composizione oppure a riprendere in mano progetti rimasti in sospeso e idee in divenire.

In questo volubile magma sensoriale è stato difficile riuscire a definire il campo e trovare le cose più interessati e quindi ve ne propongo una manciata che in qualche modo mi hanno emozionato. Non i dischi più belli (e chi può dirlo) ma semplicemente quelli che mi hanno lasciato qualche traccia e mi danno la spinta per continuare e, come si potrà notare, tutti segnati in qualche modo dalle vicende pandemiche e in rigoroso ordine alfabetico.

 

 

Massimo Barbiero. Foglie d’erba (MB)

10 nuove composizioni per Marimba, Vibrafono, Glockenspiel, Timpani, Gongs e Percussions. Recita così il bugiardino di Massimo Barbiero, irriducibile musicista che rinnova la sua voglia di ballare da solo dopo essersi messo a disposizione di altre utopie musicali, dagli Enten Eller a multiformi variabili cangianti formazioni di varia umanità (la sua discografia è sterminata e frastagliata in modo imbarazzante). Foglie d’erba richiama chiaramente l’epica narrativa di Walt Whitman ma forse solo come suggestione romantica o semplice metafora di una tenace resistenza umana e artistica. Massimo Barbiero chiarisce (sempre nel bugiardino) che questa non è una dimostrazione di tecnica o un’esposizione di curiosità timbriche. È qualcosa che va oltre la narrazione, il testo, la storia. È il primordiale richiamo del “rito”, il ritrovare bisogni primari e ancestrali nelle dinamiche del suono oppure semplicemente creare degli stati d’animo che trascendano la scienza e il sapere. Quindi metafisica, introspezione, sofferenza ma anche gioia di creare, di sentirsi utile ma non utilitario. Sono sensazioni difficili da razionalizzare e descrivere con gli strumenti che di solito usiamo per essere umani. Non bastano le parole, le scritture, i codici per capire cosa siamo: abbiamo bisogno di qualcosa che ci aiuti a fermarci e riflettere e forse ripartire con maggior consapevolezza. Queste musiche servono proprio a questo ma necessitano di impegno e devozione, vanno assunte pur sapendo che non è detto che andrà tutto bene. Sono i rischi del mestiere di vivere.

 

Matt Berninger. Serpentine Prison (Concord Records)

Nel bel mezzo del suo cammino terreno Matt Berninger pubblica il suo primo album solista dopo una vita spesa insieme ai National una delle più interessanti band che l’America ci ha regalato in questo secolo. Indie rock di estrema eleganza, malinconico e introspettivo con la voce profonda di Berninger a caratterizzare un suono ormai consolidato e riconoscibile. Dopo vent’anni arriva quindi il momento di esporsi da solo e spezzare una routine che in qualche modo limita e opprime. Senza strappi o diaspore ma con la semplice volontà di essere finalmente se stessi, di aprirsi al mondo senza protezioni con la semplice forza delle proprie idee. Il blocco sanitario ha certamente spinto in questa direzione e in questo tormentato autunno Berninger ci regala dieci canzoni scritte con arguta intelligenza, sincere, coese e suonate in modo divino grazie all’apporto di una compagnia di musicisti dal grande cuore (tra cui la splendida Gail Ann Dorsey). È un disco che cresce dopo ogni ascolto, commuove e stordisce, si sente quanto Berninger abbia creduto in queste canzoni e abbia dato tutto quello che poteva. Talvolta la vita è una prigione da cui è possibile evadere con facilità e per i National ci sarà il tempo di ritrovarsi.

 

Deftones. Ohms (Reprise)

Sono in pista dal 1988 e Ohms è il nono album della loro carriera uscito nell’autunno di quest’anno. I Deftones hanno sempre navigato in acque turbolente come uomini e come musicisti, messo in continua discussione la loro proposta musicale e cercato di trovare sempre nuove soluzioni al loro selvaggio metal dal carattere ossessivo e dilaniante. Questo lavoro appare meno urlato del solito e affiora tra i solchi malinconia e sofferenza e le vicende umane della band vengono allo scoperto in modo palese. È un disco che va assimilato con pazienza e che lentamente lascia trasparire la sua complessità. Dietro al muro di chitarre si nasconde sempre qualche particolare e ogni volta l’ascolto è una sorpresa. Se il metal è destinato a mutare ed evolversi trova nei Deftones la giusta sponda merito anche della consapevolezza accumulata in tanti anni. Ma non c’è stanchezza o resa semplicemente presa di coscienza, rabbia e anche tanta amarezza. Ma la realtà questo regala e i Deftones sono perfetti nel cercare di non nasconderla o edulcorarla. “Siamo circondati dai detriti del passato / Ed è troppo tardi per provocare un cambiamento nelle maree  / Così scivoliamo in un mare senza speranza di rimpianti mentre guardo / Attraverso il labirinto infestato nei tuoi occhi…”.

 

Fontaines D.C. A Hero’s Death (Partisan Records)

Sono il gruppo del momento e tutti (quasi tutti in verità) ne parlano bene e li trovate in quasi tutte le classifiche di questo mefitico 2020. Giovani e irlandesi e tanto presi dai suoni postpunknewwave da avere qualche dubbio sulla loro età e sul fatto che il disco sia uscito adesso. Al punto che qualcuno li marchia come derivativi o cloni dei propri padri o furbi manipolatori di emozioni d’epoca (persino la grafica di copertina a un che di retrò pre-digitale). Ma il disco è bellissimo e allora dove sta il problema? L’avessero inciso il secolo scorso sarebbe una pietra miliare e il fatto che sia uscito oggi nulla toglie al piacere dell’ascolto. Retromania? Certo! ma al di fuori del tempo e delle etichette e dall’obbligo di dover essere sempre in tiro e con lo sguardo rivolto al nulla.

 

Gorillaz. Gorillaz Present Song Machine / Season One (Parlophone)

La loro storia è nota: band virtuale creata dalla mente vulcanica di Damon Albarn e dalle matite di Jamie Hewlett oltre a uno stuolo di musicisti che variano in continuazione. Non esistono allo stato fisico ma appaiono sotto forma di fumetti creati appunto dalla magia di Hewlett e messi in scena dalla poliforme fantasia di Albarn. Zero concerti (anche se nel secondo lockdown è stato possibile assistere a uno spettacolo in streaming), nessuna apparizione fisica ma molta musica tanto che siamo arrivati all’ottavo album oltre a una miriade di remix, bsides, outtakes e altre diavolerie della civiltà digitale. Song Machine non aggiunge nulla al loro percorso ma è sempre affascinante percepire la pulsione nel creare qualcosa di inconcepibile e inaudito e che potrebbe anche essere il futuro della musica: un universo virtuale senza confini e senza materia. Fa un po’ paura è vero ma ci dobbiamo abituare. Per la cronaca nell’album troviamo la presenza di Beck, Sir Elton John (sic), Fatoumata Diawara, Georgia, Kano, Robert Smith (dopo la cura), St. Vincent e tanti altri in un variegato universo tanto umano quanto di indecifrabile collocazione.

 

Idles. Ultra Mono. Momentary Acceptance of the Self (Partisan Records)

Accettazione momentanea del sé come atto di resistenza all’omologazione e alla globale conformazione dell’essere. Un urlo primordiale violento, diretto, elettrico, punk, micidiale nella sua sfacciata sincerità. Esistono da pochi anni ma è come se fossero sempre stati tra di noi. È la voce della coscienza che si ribella al mondo e cerca spazio e legittimazione e lo fa cercando unità di intenti, collaborazione, complicità con chi aderisce al loro manifesto ideologico. Ultra Mono è il carburante del proprio io, della contingenza, della rabbia, della ferocia che sfocia in un suono organizzato ma non prevedibile, rabbioso fino all’estenuazione. Fiducia massima nei propri mezzi e nessuna maschera per nascondere i propri incubi come se il tempo stesse per scadere, come una realtà ai tempi supplementari. In questo loro straziante messaggio trovano spazio alcune prestigiose collaborazioni come Jehnny Beth, Warren Ellis, David Yow, Colin Webster e persino Jamie Cullum oltre a un sempre più crescente numero di fedelissimi alla linea.

 

Samora. Quasar (Rizosfera/NUKFM)

Siamo in territori ambient per un progetto fortemente voluto da Enrico Marani, veterano della scena elettronica nazionale da tempi lontani (la sua bio parte dai primi TAC e prosegue in modo indefesso fino ai giorni nostri) e l’aiuto di altri sperimentatori e visionari nazionali: Eraldo Bernocchi che fornisce il suo apporto con l’aiuto di chitarre destabilizzate e tanta esperienza e il pianoforte di Silvia Corda sospeso tra arte contemporanea e improvvisazione materica. Il risultato finale è stupefacente per la qualità dei suoni, hi-end ad altissima definizione, musica emotiva e stratificata e una continua esperienza sensoriale sempre nuova ad ogni ascolto. Quest’opera funziona anche per il riuscito assemblaggio di esperienze estetiche differenti, lontane nel tempo e nello spazio ma rese coerenti e omogenee dalla direzione di Marani. E se questo non vi basta ecco che il tutto è fornito in una confezione che comprende un booklet in formato long playing di 28 pagine stampato su carta di gran pregio e al cui interno troviamo le riflessioni filosofiche vergate da Davide Bertolini e i disegni di Stefano Ricci. Da non lasciarselo scappare.

 

Saffronkeira with Paolo Fresu. In Origine: The Field Of Repentance (Denovali)

Gli attori di questo progetto estemporaneo sono tre. Eugenio Caria (Saffronkeira) producer e sperimentatore elettronico con alle spalle un discreto numero di opere che lo stanno imponendo come uno dei più interessanti sperimentatori contemporanei. La Denovali Records, label tedesca specializzata nella ricerca elettronica con un catalogo impressionante e che ancora una volta ha creduto nelle potenzialità di Caria. E infine Paolo Fresu che ha accettato di buon grado di collaborare a queste tracce e che, col passare del tempo, è diventato più che un semplice ospite ma parte integrante di queste musiche. È come se due mondi trovandosi in rotta di collisione abbiano trovato la giusta combinazione per coesistere. È la ricerca elettronica sospesa tra ambient, techno e dream wave che si apre alla tromba di Paolo Fresu così mediterranea e allo stesso tempo universale ed ecumenica. Due universi che si completano, si assemblano con scioltezza e offrono uno scenario sonoro di grande respiro, ricco di minime mutazioni di colore, ma complesso e meditato. Sono profonde riflessioni sull’origine della natura umana e sullo stare al mondo, sulla possibilità di un dovuto pentimento e nelle press notes le parole di Nietzsche sono perfette per accompagnare questi stati d’animo.

È tempo che l’uomo si ponga un obiettivo. È tempo che l’uomo pianti il ​​seme della sua più alta speranza. Il suo terreno è ancora abbastanza ricco per farlo. Ma quel terreno un giorno sarà povero ed esausto, e non elevato l’albero non potrà più crescere su di esso. Ahimè. Verrà un tempo in cui l’uomo non lancerà più la freccia del suo desiderio al di là dell’uomo – e la corda del suo arco avrà disimparato a ronzare! deve ancora avere il caos in se stessi per far nascere una stella danzante. Io ti dico: hai ancora il caos in te stesso. Ahimè. Verrà un tempo in cui l’uomo non potrà più far nascere nessuna stella. Ahimè. tempo dell’uomo più spregevole, che non può più disprezzare se stesso“.

 

Travis. 10 Songs (BMG)

Provate a chiedere a Fran Healy come si scrive una canzone pop perfetta, elegante piena di fascino ma non banale e che ti rimanga attaccata addosso. Lui lo sa fare, lo fa da sempre ma difficilmente riuscirà a spiegarlo. Forse la ricetta non esiste, sono cose che vengono fuori se ce le hai dentro e quando questo succede sembra tutto così semplice e scontato. Prendiamo ad esempio questo nuovo album dei Travis: 10 canzoni nuove che sembrano uscite dal manuale del perfetto pop singer fresche e deliziose come se si trattasse un disco d’esordio e non l’ultimo di una lunga trafila artistica. È pura magia dopo decenni di onesto mestiere riuscire a mantenere un livello così alto. Sarà la Scozia che fornisce il giusto amalgama di malinconia, paesaggi bucolici e una tradizione da cui pescare a piene mani oppure avere nel sangue i geni dei Beatles? Potrebbe essere un qualcosa di innato che troviamo nelle melodie gioiose dei Belle and Sebastian o in tutte quelle canzoni che venivano fuori da quella fucina di talenti chiamata Creation Records? Chi lo sa? Chi lo può dire? Tutto questo ha a che fare con qualcosa di mistico e misterioso e difficilmente si potrà razionalizzarlo o farlo diventare una formula perfetta da replicare. Per fortuna ci sono i Travis a regalarci queste semplici, perfette, emozionanti melodie pop.

 

Lucinda Williams. Good Souls Better Angels (Highway 20 Records)

Confesso che ho iniziato ad ascoltare Lucinda Williams da pochi anni nonostante la sua sia una carriera che inizia nei lontani anni Settanta del secolo scorso. Una vita passata a convivere con la tradizione musicale americana, a rimestare suoni e colori provenienti dal folk, dal blues, dal rock e dalle mille derive umane degli States più oscuri e dimenticati. Ma si può sempre recuperare e comunque gli ultimi album sono di una bellezza che scuote nel profondo, che spezzano il cuore. La sua visione del mondo è cruda e disincantata, aspra e sofferente, totalmente al di fuori degli stereotipi del mainstream contemporaneo. Sono storie di vita vissuta, di delusioni, abbandoni e fallimenti e una sorta di religiosità laica che serve giusto a non sprofondare. La sua voce, che sembra cedere da un momento all’altro, ha il timbro di chi ha visto troppe cose, frutto di una profonda disillusione e allo stesso tempo così testarda nel trovare la forza di continuare con ostinata partecipazione. È la voce dell’America di Faulkner, di Steinbeck, dell’ineffabile John Fante, di quel mondo fatto di autostrade infinite, di motel di terza mano, di disperati in cerca di redenzione. “Ben oltre il fondo, cadendo più forte di una pietra / Non riesco a ricordare i bei momenti che ho conosciuto / Sto affondando sempre più in basso / Giù oltre il fondo dove il diavolo non andrà”. Se volete delle risposte ai vostri dubbi chiedete alla polvere o chiedete a Lucinda Williams.

 

 

 

 

 

 

Vennero in sella due gendarmi

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di Marco Pandin

Il 23 maggio 2019 più di mille persone si sono raccolte a Genova in piazza Corvetto per contrastare un comizio elettorale di casapound.

Della reazione brutale della polizia avrete potuto leggere diffusamente sulla stampa nazionale, che si è mossa in solidarietà del giornalista Stefano Origone di Repubblica – vittima e testimone delle violenze.
Minore circolazione ha avuto, invece, la notizia delle cinquantasei denunce e dei circa 60.000 euro di multe affibbiate a persone che la questura ha potuto identificare grazie alle numerose telecamere collocate intorno alla piazza. Persone che saranno a breve trascinate in tribunale per difendersi dall’accusa di antifascismo.

E’ stato messo in piedi un fondo di difesa e per sostenerlo Marco Sommariva (scrittore) e Marco Pandin (vecchio collaboratore di A/Rivista Anarchica) hanno avuto l’idea di chiedere aiuto ad amici e compagni impegnati nel mondo dell’arte: musicisti, disegnatori, pittori, scrittori e performer. La voce è girata tramite passaparola, scavalcando le distanze geografiche e le differenze di stile espressivo; ognuno ha contribuito come poteva e sapeva fare, in maniera volontaria e del tutto gratuita.
Ne viene fuori una raccolta composita, che proprio dalla diversità delle voci e dei segni, delle parole e dei suoni trae linfa vitale. Un libretto e due CD dove ci sono dentro Genova e Napoli e il Veneto e Roma e Catania e il Cilento. Ci sono dentro Fabrizio de André e una “Genova per noi” rifatta in un modo che lascia senza fiato. Scritti bolognesi e milanesi, canzoni in occitano e in friulano, nomi con un certo peso e una certa storia ed altri poco noti, gente abituata ai palasport e altri ai piccoli spazi dei centri sociali, voci che si sentono spesso alla radio e altre che alla radio non passano, parecchie adesioni che hanno sorpreso e reso felici i promotori.

C’è da imparare parecchio da questa solidarietà giunta senza chiedere nulla in cambio, da questa vicinanza nonostante tutto – difficoltà tecniche, lungaggini burocratiche e vincoli contrattuali, nonché l’impossibilità di spostarsi causa covid. E’ stato uno stringersi forte che ci ha insegnato a non temere né pandemie né processi né rappresaglie.

Il disegno in copertina l’ha fatto Zerocalcare e non serve raccontarlo, ma è bene ricordare che il prossimo luglio saranno trascorsi vent’anni da quel tragico G8 che vide sempre Genova come palcoscenico.

Il titolo dell’iniziativa – “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”. Fabrizio De André ogni tanto si divertiva a modificare i testi delle sue canzoni: ha inventato degli svizzeri nel bosco e una meravigliosa signorina Anarchia che s’è vista assai spesso accanto a lui fino all’ultimo. Nel nostro sogno genovese, al pescatore i due gendarmi chiesero se lì vicino fosse passato un ragazzino; lui non rispose, e a quelli venuti con le armi offrì solo una specie di sorriso.

I due CD non sono distribuiti commercialmente nei negozi. Vengono diffusi per le strade di Genova, in maniera militante. Un riferimento può essere Marco Sommariva – il suo sito/blog è raggiungibile a questo link.

Hanno partecipato, con contributi sonori, scritti e grafici:

Giorgio Canali, Andrea Sigona, Yo Yo Mundi con Marco Rovelli, Ascanio Celestini, Mars on Pluto, L’Estorio Drolo, Alessio Lega, Banda POPolare dell’Emilia Rossa, Modena City Ramblers, Nuovo Canzoniere Partigiano, Bandabardò, Lo Zoo di Berlino con Franco Fabbri, Gang, Luca Bassanese, Loris Vescovo, Simona Boo, Paolo Capodacqua, Od Fulmine con Davide Toffolo. Dany Franchi, Franti, Massimo Zamboni, Umberto Maria Giardini, Subsonica, Kina, Wu Ming Contigent, Daniele Sepe e i Fratelli della Costa, Caparezza, Luca ‘O Zulù Persico, Mauràs, Signor K, Assalti Frontali, Putan Club, Cesare Basile, Lalli e Stefano Risso.

Erri de Luca, Giansandro Merli, Franco Arminio, Maurizio Maggiani, Fabio Geda, Paolo Cognetti, Haidi Gaggio Giuliani, Max Mauro, Marco Sommariva, Alessandro Spinazzi, Carmine Mangone, Stefano Giaccone.

Zerocalcare, Gaia Cocchi, Fabio Santin, Chiara Sestili, Elia Fortunato, Federico Zenoni, Stefano Sommariva, Shinbross [Giulio Sciaccaluga], NicoComix.


Radio days: Martina Bertoni

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Trasfigurazioni

in conversazione con Martina Bertoni

di Mirco Salvadori

Ricordo di aver chiuso gli occhi, forse per riposare o letteralmente sprofondare nel sonno da mesi rincorso, al pari di un veloce levriero che stremato si lancia comunque all’inseguimento di una finta lepre, troppo veloce per esser raggiunta. Ancora intontito dalla perdita di coscienza, il cuore che sfugge al proprio battito riapro gli occhi cercando di trovare l’equilibrio della memoria.

Dov’ero, cosa stavo cercando prima della perdita di coscienza. L’eco delle dimenticanze mi scivola addosso, fatico a focalizzare e solo il riverbero di un suono proveniente dalla finestra spalancata mi aiuta nel processo del ricordo.

Esco all’aria aperta e vengo travolto dal sordo rumore del sole accecante che penetra il viavai della vita, un’apparente semplice confusione dispersa tra le vie e trasformata dal calore della luce in sospeso istante di infinita attesa. Cammino instabile, seguo l’esile riverbero musicale che insiste e danza cercando la mia percezione e inizio a ricordare il nome di un locale. Ancora non so perchè lo ricordo e perché devo trovarlo.

Lo cerco mentre cammino lungo strade che non conosco, seguendo una linea immaginaria capace di unire tra loro distanze sconfinate. Potrei trovarmi a Pordenone come a Berlino, non ha importanza. Ciò che conta è il suono che ora inizio a udire chiaro, così come le altre informazioni che improvvise giungono a riconnetermi con il mondo che mi circonda. Sono preghiere quelle che sento, sono voci che parlano lingue straniere quelle che fluttuano nello spazio intriso di pesante e silente bisogno di una pausa liberatoria. Sono i versi di un poeta di strada che riesce a suonare dei nastri magnetici, testimoni di antiche registrazioni, il microfono ben inserito nel più recondito orifizio emotivo. E’ la voce di un antico strumento che sa adattare le sue corde vocali, comunicando nelle mille lingue che l’animo umano riesce a percepire.

Eccomi giunto, l’insegna di questo disadorno luogo risplende nella luce che via via va scemando, sono giunto fin qui per incontrare colei che forse potrà raccontarmi che significa inoltrarsi lungo la strada delle emozioni alla ricerca di una rinascita nella difficile e complicata ricerca di se stessi.

È da quando ti ascolto che sento il desiderio di farti una prima domanda. Con cosa entri in contatto quando le vibrazioni del tuo violoncello iniziano ad apparire danzando nelle tue visioni..

Domanda difficile, non lo so nemmeno io…di sicuro con le vibrazioni fisiche dello strumento. Una delle caratteristiche peculiari del violoncello è che viene suonato con tutto il corpo: le ossa, i muscoli, la cassa toracica entrano in risonanza. E’ un fatto fisico ed è una sensazione magnifica.

Come dialoga Martina Bertoni con il suo strumento, sei conscia della potenza che sa sviluppare e come la controlli, sempre tu voglia controllarla.

Sonare per me è un esercizio costante di controllo. Il violoncello richiama sempre ad una disciplina, la cui parte interessante sta nel forzare i propri limiti fisici e interpretativi verso l’espansione. C’è poi una particolare affinità mia personale con le frequenze più basse. Lo strumento con cui suono ora non è più un violoncello nel senso classico, si tratta di un pre-prototipo, su ispirazione dei violoncelli antichi a 5 corde, ma in carbonio e la corda in più è in basso.

Io credo sia importante per meglio conoscerti, ascoltare un riassunto del tuo percorso formativo ma anche geografico. Martina Bertoni può considerarsi un’anima errante, colei che viaggia ma non vaga. E’ questo forse il termine più appropriato, se rapportato alla tua storia?

Sempre stata in viaggio, fin da piccolissima. Mio padre era ferroviere e sono cresciuta trascorrendo molta della mia infanzia in treno. Viaggiare per molti anni è stata una necessità logistica, fino a che è diventata una costante nella mia vita. Sia come musicista che come individuo. Mi piaceva e mi piace tuttora stare in viaggio ed imparare a vivere in luoghi diversi. Ringrazio gli anni trascorsi da studente universitaria in perenne borsa di studio in Europa dell’Est, come ringrazio gli anni passati in tour in giro per il mondo. Sono cresciuta in provincia a Nord Est, un posto morbosamente morbido, in cui tutto è comodo ma non c’è quasi nulla da fare. Stare in giro mi ha sempre fatto stare meglio. Fino ad ora ho avuto un’esistenza fortunata e ricca di storie. Ora sono ferma qui in Germania.

Durante il cammino hai incontrato molti musicisti, alcuni di questi sono stati fondamentali per la tua crescita. Come hanno contribuito alla tua formazione.

Ho incontrato ed ho avuto a volte la fortuna di lavorare con un numero incredibile di musicisti ed artisti. Tutto sommato la mia storia musicale è facilmente visibile e rintracciabile per tutti. Sono incredibilmente grata per tutti gli incontri che hanno costellato il mio passato. Alcune di queste collaborazioni sono state lunghe e prolifiche, ed ovviamente hanno lasciato insegnamenti ed esperienze, com’è normale che sia.

La mia formazione è stata lunga, sparsa e diversificata ed è un processo ancora in corso.

Paradossalmente l’accademia è stata fondamentale nell’insegnarmi la disciplina, quanto sia determinante volere infrangere i propri limiti, ed il puro valore dello studio. I lavori più sperimentali mi hanno dimostrato quanto sia importante cercare ridisegnare le mappe.

La cosa curiosa è che tutte le mie collaborazioni ed incontri del passato sono legati al periodo in cui da violoncellista, suonavo con e per altri artisti, la musica era sempre di qualcun altro. Per me è un periodo concluso, quello che faccio ora non ha punti di contatto col passato. Quando ho cominciato a scrivere per me ho deciso che non avrei più suonato il violoncello con o per altri, almeno per un bel po’.

Che umanità incontri quando decidi di partire alla ricerca di te stessa, quale il salto che devi prepararti a fare per iniziare a capire che la strada è quella giusta.

Sono a mio agio quando sono presente nel presente, e per me è imperativo cercare di imparare quello che non so e non crogiolarmi troppo nel passato, nel comfort di ciò che so già fare. Ad esempio, mi piace l’idea di sedermi davanti ad un pezzo di hardware o un software e non avere la più pallida idea di come funzioni. Poi la parte per me più seducente è capire come mettere tutto in comunicazione con il mio strumento. Se c’è questo senso di sfida costante allora credo di essere sulla strada giusta, sperando poi che possa arrivare un risultato interessante. Non sempre succede. In questa fase ho davvero poca umanità intorno, tendo ad essere schiva.

Il musicista, al pari dello scrittore, riempie le sue pagine con una stesura capace di esprimere diversi stati d’animo che amplificano il loro messaggio anche grazie alla profondità espressa dal suo strumento. Partiamo dal primo capitolo: All Ghosts Are Gone uscito nel Gennaio dello scorso anno per l’etichetta islandese FALK, acronimo del provocatorio Fuck Art Let’s Kill. Prova sublime che rivolge lo sguardo dietro di sé, fissando le ombre che pian piano svaniscono. Parlacene.

All the ghosts are gone è stato il primo album. E’ stata una scrittura terapeutica, il culmine di un periodo di cambiamento, fatica e di transizione personale. Dovevo recuperare molte energie. Per la prima volta ho avuto del tempo a disposizione per prendermi cura di me e per scrivere musica in totale indipendenza ed isolamento. E’ stato laborioso capire dove volessi andare, stilisticamente parlando. Ho provato a trovare un modo per scrivere qualcosa che mi piacesse e mi convincesse. Il risultato è All the Ghosts Are Gone…sono stupita e felice per quanto bene sia stato accolto.

Esiste una componente letteraria ispirativa nel tuo lavoro di costruzione musicale, testi o autori che riescono in qualche modo a influenzare le tue composizioni?

In generale non direi. Alcuni dei lavori recenti hanno riferimenti testuali letterari (Edda, Kurt Vonnegut, Stanislaw Lem), nati per il desiderio di lavorare assieme a mio marito che viene dal teatro e possiede una visione per il perfomativo assolutamente fantastica. Se devo citare uno scrittore preferito dico David Foster Wallace sopra ogni cosa. Ciò che però mi ispira musicalmente parlando è più legato al senso della vista, alle immagini, reali o no che siano

Le tracce dei tuoi lavori trovo siano tossiche, quell’idea di tossicità legata a una cultura romantica, un fluire di sostanze che ti trascinano lentamente altrove, nella beatitudine o nella mestizia di luoghi altrimenti non raggiungibili. In questo album il mio sentire ha individuato due brani in particolare che contengono una dose maggiore di oppiacei: Blu, quasi un canto alla luna e Notes At The End Of The World, con il suo lento e costante progredire verso una rinascita che sola può giungere dopo una fine. Ti teniamo per mano Martina, accompagnaci dentro il tuo suono.

Sono gli unici due brani dove ho deciso di cominciare a scrivere dai beats. Ho provato a partire dalla parte opposta al mio strumento. In quel periodo ascoltavo Punctum, Vatican Shadow, Kangding Ray, Varg 2TM…diciamo che questi due brani in particolare sono i frutto distonico dei miei ascolti del periodo.

Per Blu avevo a disposizione delle tracce di violoncello molto liriche – l’elemento lirico del violoncello è la parte per me più controversa del mio strumento – e la direzione è stata quella di provare a farle marciare dentro una griglia ritmica per smorzare i tutto questo pathos. Notes at the End…è il primo esperimento non strumentale, nato in maniera quasi casuale con mio marito, Hinrik Thor. Abbiamo appoggiato il testo al primo tentativo, la prima take è risultata perfetta e senza troppo pensare è saltato fuori un perfetto ultimo brano per il disco, una specie di commiato asciutto.

Ciò che la tua musica esprime è anche il risultato di una ragionata e studiata commistione di pensiero musicale classico e moderno. Il suono del violoncello, espressione prettamente legata alla risonanza acustica, viene ‘contaminata’ dall’immissione di materia digitale e analogica sintetizzata, che ne aumenta particolarmente la capacità di penetrazione. Una scelta non scontata, anche se assai diffusa, per chi si è formato in conservatorio. Spiegaci.

ll violoncello è uno strumento antico il cui repertorio è legato al passato. Più ci si avvicina all’oggi è più diventa difficile rappresentare il presente con uno strumento così costretto e determinato da codici precisi. La mia scelta è frutto della necessità di potermi riconoscere nel mio presente, con gli strumenti e le conoscenze che ho e che posso potenzialmente implementare. Il conservatorio è un istituto museale, che si occupa di preservare una tradizione. Il presente va nella direzione del digitale, è sintesi, è realtà aumentata, dialogo con AI. La velocità è esponenziale e questi sono tutti aspetti per me molto affascinanti.

Nel Dicembre dello scorso anno ti ritrovi a Reykjavìk, ti capita di andare ad abitare in un appartamento completamente vuoto nei sobborghi della città. Nella completa solitudine di un Natale vissuto al Nord, chiusa in un appartamento del tutto disadorno, componi le tracce del tuo ultimo disco. Nasce così Music For Empty Flats uscito a Gennaio per la berlinese Karl Records. Cosa sei riuscita a scorgere in quelle stanze vuote, cosa ti ha suggerito il silenzio nordico, quale racconto scaturisce da questa, immagino profonda esperienza.

Il silenzio e un po’ di isolamento sono spesso per me necessari per produrre musica e per stare bene. Durante il Natale 2019 mentre ero a Reykjavik ho iniziato ad abbozzare quello che poi sarebbe diventato Music for Empty Flats. Avere tempo e spazio a disposizione è stata una grossa fortuna. Ho poi completato il disco qui a Berlino, durante i primi mesi della pandemia. Ancora, tempo e spazio a disposizione. Ho potuto concentrarmi su un processo di asciugatura del modo in cui scrivo musica. Meno tracce e molto più spazio acustico da sfruttare. Sono riuscita a trovare un modo diverso di scrivere e a liberarmi ancora di più dalla necessità melodica e armonica a cui il violoncello normalmente confina. Ora lo posso considerare al pari di tutti gli altri intetizzatori, come un semplice generatore di suono. Nel mentre è arrivata Karlrecords e tra pochissimo il disco esce.

Dal Nord Europa all’Italia, un paese nel quale conti di tornare?

Sono felice di tornare per vedere la mia famiglia, sarebbe bellissimo poter tornare anche per delle date ma i tempi al momento sono ancora confusi e molto incerti per tutti. Per il resto ora la mia vita è radicata qui.

 

All the ghosts are gone Martina, grazie.

Grazie a te Mirco!

Link utili:
 VIDEO TRACCIA ULTIMO LAVORO: https://www.youtube.com/watch?v=cDmYSZ00m2Q
 

Un selvaggio che sa diventare uomo

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di Domenico Talia

Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia i rapporti di tre generazioni di meridionali, di italiani, nel Novecento. Il nonno, il padre e il figlio, tutti uomini di un Sud che cambia in tanti aspetti e in tanti altri resta uguale. Il protagonista principale è Leo, un ragazzo che subisce lo scherno dei suoi coetanei, è vittima dell’incapacità educativa del suo maestro e finisce per passare le sue giornate nella campagna di Santa Venere, lontano dal paese. Separato dalla vita civile diventa un ‘selvaggio’ e cade nella trappola della ‘ndrangheta e delle sue leggi spietate. Intorno alla figura di Leo si sviluppa Il selvaggio di Santa Venere, un romanzo nel quale Saverio Strati ha innestato tratti antropologici e storici che abbracciano un intero secolo. Il romanzo pubblicato nel 1977 da Mondadori vinse il Premio Campiello. Adesso lo ha ristampato l’editore Rubbettino con una illuminante prefazione di Walter Pedullà, un grande vecchio della critica letteraria italiana che di Strati è stato giovane compagno di università a Messina e poi amico per tutta la vita.

Il romanzo è costruito intorno alla formazione civile di un giovane contadino calabrese che conosce a sue spese il mondo arcaico e violento della ‘ndrangheta e fa di tutto per allontanarsene. È uno tra i primi romanzi a narrare la vita dei malandrini, il loro linguaggio, le loro ritualità, l’equivoco senso dell’onore. Come purtroppo accade anche ancora oggi, per dirla con le parole di Pedullà, Leo diventa ‘ndranghetista anche «per desiderio di stima e di rispetto … [perché] soffre di essere trascurato e isolato, umiliato e offeso dall’indifferenza altrui.» Per l’insieme dei temi affrontati siamo di fronte a uno tra i più forti e profondi romanzi di Strati, che di fatto è anche uno strumento di interpretazione storica della realtà meridionale tramite le voci dei suoi tre personaggi. Protagonisti legati tra loro come raccontano bene le parole di Dominic quando si riferisce a suo padre Leo: «Lui aveva succhiato il sapere che sapeva da suo padre, mi spiegava,  e io succhiavo il sapere che era sapere di suo padre e suo insieme. Sotto sotto, a rifletterci bene, io non ero uno, ma tre: nonno, padre e figlio, ero.»

Il selvaggio di Santa Venere ha avuto una gestazione durata più di due decenni. Il romanzo è la rielaborazione, scritta in due anni e passata attraverso sei versioni, di un breve racconto di quindici pagine che Strati aveva scritto negli anni Cinquanta e a cui aveva dato il titolo Leo. In una intervista, rilasciata in occasione della prima pubblicazione del libro, Strati ha dichiarato: «La prima idea risale al 1952: ero studente a Messina, e buttavo già ogni mio spunto narrativo su di un quaderno, alla rinfusa. In quelle pagine ho riscoperto la prima stesura di La Marchesina (del 1956) e l’abbozzo del Selvaggio.» Dal breve racconto del 1952 al romanzo vincitore del Super Campiello nel 1977 e adesso, dopo quarant’anni, alla nuova uscita con Rubbettino che sta ripubblicando i libri di Strati per offrirli ai suoi estimatori e a nuovi lettori. Una nuova edizione che rimette in circolo un romanzo che scava nella realtà della Calabria e del Sud attraverso le vicende di tre generazioni di meridionali. Per farlo, il romanzo percorre l’evoluzione del mondo del Novecento e della cultura del Meridione descrivendo le logiche e i meccanismi di adesione alla ‘ndrangheta, le sue lusinghe e le sue atrocità, i suoi riti e i delitti.

La terra nel racconto di Strati è quasi una maledizione che lega i contadini a una realtà dura e violenta. Lavorare la terra sembra l’unica possibilità per sopravvivere in un mondo antico e arretrato che l’autore de “Il Selvaggio” contrappone alla modernità e alla vita civile sperimentata da chi ha viaggiato e ha visto il mondo. Il cambiamento generazionale e di coscienza civile descritta tramite i principali protagonisti è emblematica della natura profonda della narrazione dello scrittore di Sant’Agata del Bianco. Il figlio di contadini Dominic diventa insieme operaio e intellettuale critico sia del mondo primitivo e selvaggio di suo nonno Don Mico e di suo padre Leo, sia della nuova società industriale a cui lui fornisce mente e braccia. Ma Dominic sa anche che quella società gli ha permesso di costruirsi una coscienza sociale e politica che lo spinge a intravvedere come un nuovo Sud basato su una agricoltura moderna e industriale possa rappresentare l’alternativa al potere politico mafioso costruito sull’arretratezza e sul clientelismo.

La struttura temporale del racconto si fonda su elementi ciclici ma è soprattutto strutturata su un tempo stratificato con andate e ritorni. Sovrapposizione di epoche, fatti, consapevolezze e paralleli tra padri e figli nel racconto di Strati si susseguono con salti narrativi che costringono chi legge a fare i confronti tra le diverse generazioni, tra i loro modi di pensare, tra genitori e figli che nel romanzo di Strati sono in perenne contrasto. Sostenuti da radici millenarie ma proiettati sempre verso il nuovo. Anche il linguaggio usato sembra riflettere queste visioni: a volte duro e crudo quello usato dall’autore. L’uso dei termini dialettali, quelli che vengono dalla lingua di Omero, serve all’autore per descrivere in maniera più efficace e profonda la realtà che narra, in particolare quando racconta il sapere contadino o i rituali della ‘ndrangheta. Allo stesso tempo, come spiega Pedullà nella prefazione, Strati per poter farsi capire da tutti si era impossessato del migliore italiano per raccontare un mondo difficile usando con padronanza la lingua nazionale «in un romanzo che non ha peli sulla lingua e che si è fornito un lingua capace di dire tutto, il reale, l’immaginario, e l’auspicabile.»

L’importanza dell’uso del linguaggio è ribadita non soltanto nella forma narrativa di Strati, ma anche nei contenuti stessi del romanzo. Leo è costretto a lasciare la scuola e viene avviato dal padre al duro lavoro di contadino anche per le sue difficoltà di maneggiare le parole. Leo diventa il “selvaggio di Santa Venere” perché nessuno sostiene le sue debolezze. «Perché s’era lasciato affibbiare e incantare dall’ndrina?», gli chiede il figlio Dominic e lui risponde «Mah, così! Per la solitudine, per l’ignoranza e anche per le circostanze del destino.» Quando Leo viaggia e conosce altre realtà, consuetudini e luoghi differenti, riesce ad allontanarsi dal crimine anche perché acquista esperienze, nuove conoscenze, un nuovo linguaggio. Questa sua nuova coscienza contribuisce a rendere migliore anche suo figlio. Le generazioni degli Arcàdi narrate da Strati sono fatte da uomini che lasciano il loro Sud spinti dal bisogno. Uomini che vivono la necessità di cercare luoghi nuovi dove avere vite dignitose ma dove non riescono a liberarsi dalla pena dello sradicamento. Persone che vivono con la ragione i mondi che li ospitano, ma che il cuore tiene fortemente legati ai loro luoghi originari.

La coscienza del danno e dell’impatto pernicioso della criminalità è cambiata molto rispetto agli anni in cui Strati ha scritto il romanzo. Tuttavia, anche in un periodo in cui sono molti i libri che parlano di ‘ndrangheta, rileggendo il libro di Strati si avverte una narrazione in cui la presenza della criminalità è evidente e condizionante, ma la sua descrizione non è mai strumentale. La ‘ndrangheta è narrata come un elemento negativo e opprimente, ma non come unico stereotipato male. È incarnazione di violenza e potere in uomini che cercano con mezzi brutali di conquistare denaro e comando anche legandosi alla borghesia famelica e alla politica corrotta. Queste ultime incarnano forme moderne di corruttori delle coscienze e di profittatori dei beni pubblici alimentati anche da collusioni opache che, in forma non molto diversa, anche Dominic nel ‘Selvaggio’ di Strati aveva avvertito e rifiutato in quanto nemici della sua terra e del suo progresso, anche nel senso ideale che a quest’ultimo termine aveva dato Pier Paolo Pasolini.

È meglio bruciarsi subito che spegnersi lentamente

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 di Alberto Tonti

Appena varcata la soglia dell’Exodus Recovery Center si rende conto che non sarebbe servito a nulla. Non è la prima volta che si ritrova in quella situazione: colloqui con psicologi, visite mediche, tante pillole colorate, dieci venti trenta gocce, tutto bianco, asettico. Perché è finito ancora lì? Glielo ha chiesto Courtney? Pat, Dylan, John e Chris lo hanno messo con le spalle al muro? Per il bene della piccola Frances Bean? Stronzate. E’ lì perché, dopo due anni, qualcosa può essere cambiato. Ma tutto è come prima: la clinica, le cure e lui, che non riesce a sostituire neppure una rondella del suo ingranaggio complicato. Troppo silenzio per urlare, troppo ordine per spaccare, troppa pulizia per sporcare, troppo lusso per restare.

Su questo mondo non c’era venuto di sua spontanea volontà: era stato invitato e, dunque, stava ancora aspettando di divertirsi. Dopo i primi sette anni con sua madre Wendy, suo padre Don e sua sorella Kimberley, aveva sempre convissuto col dolore e anche i momenti felici erano stati solo brevi permessi: troppo poco.

Il giorno di Natale del ‘74 era sceso per ricevere il suo regalo. Il pacco sotto l’albero sembrava troppo grosso rispetto alla scatola lunga con dentro il fucile e le foto di Starsky&Hutch che desiderava tenere fra le mani. Lo aveva aperto con un brutto presentimento e dentro ci aveva trovato solo carbone. Era scappato in camera da letto e sul muro aveva scritto: “odio la mamma odio il papà, il papà odia la mamma, la mamma odia il papà e questo ti fa venir voglia di sentirti tanto triste”. Aveva quasi otto anni e suo padre se ne stava andando, definitivamente. Il senso di colpa si mescolò alla rabbia, la rabbia superò l’amore, lo strappo rimase lì profondo e ben presto si trasformò in trasgressione.

Kurt non capì mai fino in fondo dove preferisse vivere. Un continuo andare e venire con la sensazione che da un’altra parte sarebbe andata meglio. La valigia era sempre a portata di mano, bastava riempirla con i soliti quattro stracci e cambiare aria. A casa di sua madre. Nella roulotte del padre. Dagli zii. Sul divano degli amici. Sotto il ponte di North Aberdeen. Niente e nessuno riusciva a dargli ciò di cui aveva bisogno.

Ci mise due anni a ricucire il rapporto con suo padre. Tutti e due si erano impegnati con grande determinazione, Don gli aveva giurato che dopo Wendy non avrebbe avuto mai più un’altra moglie e, comunque, aveva deciso di vivere solo con lui: allenarlo al baseball, alla lotta, ascoltare musica, andare a caccia. Era un buon patto, ci poteva stare. Don tradì presto quella promessa e non servirono a nulla le buone maniere della nuova moglie. Il microbo mondo di Kurt andò in pezzi per la seconda volta.

Piccolo, biondo, arruffato, fragile, duro, angelo, diavolo, appassionato, scostante, beffardo, cinico, onesto, testardo, invincibile.

Il taglialegna era veramente furibondo, non poteva permettere di farsi prendere in giro da un ragazzino sporco e indisponente e allora gli mollò un ceffone. Il sangue uscì dal naso, lo pulì con la manica della maglietta, si rimise in piedi, sorrise e mostrò il dito medio dritto e tremante. Quella bestia di cento chili lo colpì di nuovo. Kurt sorrise e il dito scattò ancora, piccolo ma non meno indisponente. Un cazzotto lo fece volare per terra, si rialzò a fatica, mostrò il dito e sorrise. Piuttosto che cedere si sarebbe fatto uccidere e allora il taglialegna si arrese, se ne andò, lasciandolo lì col maledetto dito teso e la smorfia di sfida sulla faccetta tumefatta, impavido fino alla morte.

Per il suo compleanno lo zio Chuck fu il primo a dargli la possibilità di scegliere, prima non lo aveva fatto nessuno. Una chitarra elettrica o una bicicletta? Non gli sembrava vero: poteva decidere.

Una vecchia Sears e un amplificatore da 10 watt mezzo scassato divennero la sua passione. Si chiudeva in camera, regolava il volume al massimo e ci dava dentro per delle ore. Non suonava, faceva più rumore possibile, aveva imparato pochi accordi e con quelli strangolava il manico della chitarra, schiaffeggiava le corde con il plettro, urlava fino a diventare rauco. Tirava fuori tutta la rabbia che aveva in corpo e alla fine era esausto. Si sentiva punk e decise di diventare una rockstar ma prima provò ad essere uno stuntman. Lo aveva visto fare in TV: un tizio sulla moto prendeva la rincorsa, sfrecciava su una lunga pedana, volava sopra i tetti di una decina di auto, planava su un’altra pedana come se niente fosse. Era facile ed eccitante. Si inventò una serie di prove alla sua portata ma non per questo meno pericolose. Per provare la sensazione di volare arrivò a buttarsi dalla finestra del primo piano atterrando su un materasso e qualche coperta. Per provare la sensazione di scoppiare attaccò parecchi petardi a una lastra di ferro, se la legò addosso e poi diede fuoco: rimase sordo per un bel pezzo. Tutto sommato era meglio il rock. Il rock divenne la sua ragione di vita. Si concentrò su quello, anche perché l’ambiente in cui stava crescendo e la gente che ci viveva non gli davano alternative.

Aberdeen è una cittadina dello Stato di Washington, nascosta al fondo del porto di Gray. Scoscese colline incombono a nord e a est, la nebbia spesso copre e avvolge case e paesaggio, in alto vivono i proprietari delle segherie in basso i proletari: i Cobain vivevano in basso. L’oceano senza fine è a due passi, ma il paese è intrappolato in una morsa di cupezza. Una incombente angoscia aleggia fra le case fatiscenti che rispecchiano l’indigenza di chi ci vive, l’oscurità domina il paesaggio e il paesaggio è un nulla malsano. L’alcolismo e la violenza domestica sono all’ordine del giorno.

Kurt ha dodici anni quando suo prozio, Burle Cobain, si spara un colpo di fucile in pancia e diciassette quando il fratello di Burle decide di farla finita sparandosi alla testa.

I primi idoli, Beatles, Rolling, Queen presto diventarono solo un ricordo, roba da ragazzini, meglio Johnny Rotten, Sid Vicious, Iggy Pop, Richard Hell, Ramones e Clash, meglio ancora i Melvins che suonavano proprio a Montesano, dove Kurt ogni tanto viveva con suo padre. Loro erano davvero bravi. Gli sarebbe piaciuto far parte della band. Ma gli bastava andare ad ascoltare le prove, aiutarli a caricare e scaricare le attrezzature da palco, applaudirli durante i concerti, dimostrare tutta la sua grande ammirazione.

Nella fase dell’infatuazione, non aveva nessuna cognizione della sua personalità, era ancora alla ricerca di se stesso. Per un lungo periodo fece intendere ai suoi compagni in classe di essere omosessuale. Frequentò a lungo un ragazzo gay, col quale andava perfettamente d’accordo, e quando cominciarono a prenderlo in giro, dandogli della checca, si rese conto che quella condizione lo rendeva visibile, diverso: lui agli occhi degli altri era finalmente qualcuno. Un enorme passo avanti rispetto all’anonimato.

Riuscì ad avere finalmente un audizione con i Melvins ma fu un disastro, per timidezza o paura non espresse nulla rispetto alla musica che aveva in corpo e che stava covando.

Si richiuse in se stesso, era alla ricerca di un cambiamento, gli serviva qualcosa per andare avanti. L’occasione giunse quando sua madre Wendy, in preda a un attacco di gelosia tentò di prendere a fucilate il suo terzo marito, un omone fedifrago e spesso ubriaco ma, non riuscendo neppure a caricare il fucile, raccolse tutte le armi che trovò in casa e le gettò nel fiume. Il giorno dopo, aiutato da alcuni amici, Kurt organizzò la pesca, riuscì a recuperare quasi tutto e lo andò a vendere. Spese i soldi del ricavato per un nuovo amplificatore. Un gioiello, rispetto a quello regalatogli dallo zio Chuck, con quello sì che avrebbe potuto far crollare la casa, quella della madre o quella del padre, l’importante era avere lo strumento giusto per arrivare al massimo frastuono possibile. Ci riuscì, naturalmente. Ma il prezzo per i suoi sfoghi fu troppo alto da pagare: suo padre, al culmine dell’esasperazione, salì in camera, staccò la spina, gli strappò la chitarra dalle mani e la fece a pezzi. “Sarebbe bastato chiedermi di abbassare il volume… lo avrei fatto!”, confessò al bibliotecario della scuola, uno dei pochi col quale aveva instaurato un rapporto. Non era vero: Kurt non sarebbe mai stato un ragazzo obbediente o, perlomeno, propenso ad accogliere le richieste degli altri per ragionevoli che potessero essere. Nulla e nessuno avrebbe potuto condizionarlo, teneva troppo alla sua primitiva libertà, per quanto indisponente apparisse agli occhi di chiunque, così come credeva fermamente che tutti avessero il diritto di esprimere la propria, per quanto dolorosa potesse risultare ai suoi occhi.

La biblioteca gli serviva per trarre ispirazione dai libri, prendere appunti per le sue elucubrazioni in forma di canzone, spunti per pensieri sparsi scritti un po’ dappertutto, in forma di graffiti o altro. Cose come “Nixon ha ucciso Hendrix”, “Abortite Cristo”, “E’ il momento che lo stupido se ne vada”, “Potere omosessuale”. Ma anche per approfondire qualcosa che, d’un tratto, lo colpiva profondamente: la tragica vita di Frances Farmer, Arancia Meccanica di Anthony Burgess, di cui lesse poi l’opera completa, o tutti gli scrittori che iniziavano per b: Beckett, Bukovsky… una paranoia che durò qualche mese.

Quando, come e perché arrivò il giorno della droga non è dato sapere. L’unica certezza è che Kurt non amava la cocaina perché lo avrebbe reso ben disposto verso gli altri, troppo propenso a socializzare, ad aprirsi, a mostrare quella parte di se stesso che voleva fortemente restasse solo sua. Col tempo la testa aveva cominciato a dettare legge al corpo. Nel giro di qualche anno la bronchite divenne cronica, gli spasmi gastrici si trasformarono in continui conati con tracce di sangue, la schiena iniziò a procurargli dolori lancinanti, la sofferenza fisica, lentamente, divenne una costante di vita. E’ probabile che l’eroina servisse per calmargli i dolori o forse divenne semplicemente una delle tante componenti capitate o cercate per bruciare prima possibile.

In effetti solo la musica riusciva a farlo sentire bene e quando incontrò Chris Novoselic, uno spilungone di origine serba che sapeva suonare il basso e che adorava gli stessi suoi idoli, la voglia di mettere in piedi una band prese il sopravvento sul resto. Tutto successe in fretta. Il gruppo assunse diverse denominazioni: Sell-outs, Skid Row, Ted Ed Fred, Throat Oyster, Pen Cap Chew, Windowframe, Bliss, poi, finalmente Nirvana. In soli due anni, dall’89 al ’91, i ragazzi “sporchi e cattivi” divennero gli eroi della musica grunge. Cobain non fece in tempo a rendersi conto di essere diventato un idolo che, quando successe, tutto divenne ancor più complicato. Chiunque avrebbe vissuto l’improvvisa notorietà come una benedizione, non lui. A lui sarebbe bastato dimostrare di essere diventato qualcuno nei luoghi che lo avevano visto crescere scontroso e ribelle, suonare negli stessi club dove restava a bocca aperta a godersi gli adorati Melvins, essere semplicemente apprezzato in un ristretto ambito underground o poco più.

Verso la fine del ’91, il secondo album, Nevermind, con uno sforzo promozionale pari a zero, divenne un best-seller a livello planetario, riconosciuto dalla critica e dal popolo come un vero e proprio capolavoro degli anni 90: un disco perfetto, interamente partorito da una mente apparentemente imperfetta.

In concerto i Nirvana alternavano esibizioni memorabili a completi disastri. Molto dipendeva dall’umore di Kurt, ma spesso dal comportamento del pubblico. Il classico rituale degli strumenti sfasciati a fine concerto rimase sempre e comunque una dello loro caratteristiche. Non era certo una novità, Pete Townshend degli Who aveva cominciato a spaccare la chitarra già negli anni 60, Kurt e Chris lo facevano perché quella era l’unica chiusura all’altezza dei testi e della musica delle loro canzoni, il solo possibile finale. Gli attriti all’interno del gruppo nacquero per questioni di royalties. Kurt a tutti gli effetti era i Nirvana e gli sembrò logico ottenere più soldi degli altri, alla fine gli altri dovettero accettare, non avrebbero avuto altra scelta. Ma il vero motivo delle incomprensioni fra Novoselic e Cobain fu la droga. Chris non sopportava di vedere il vecchio amico buttare via la sua vita giorno dopo giorno, soprattutto adesso che erano diventati della rockstar. Le promesse di smettere, i brevi periodi di disintossicazione, le ricadute di Kurt esasperarono i loro rapporti, tanto che sul palco e in sala di registrazione erano insieme, per il resto ciascuno faceva vita a sé.

Poi arrivò Courtney Love.

Un anno prima del loro incontro lei aveva fondato un gruppo, gli Hole, tutte donne tranne il chitarrista, ottenendo un buon successo. Lui restò affascinato dagli occhi enormi, esageratamente bistrati di nero, dai capelli biondi sconvolti ma, soprattutto, dal suo esprimersi senza reticenze, dai movimenti imprevedibili, dal fatto che con lei sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa in qualunque momento. Il loro divenne un amore appassionato e conflittuale, fisicamente tenero e psicologicamente violento, scandito da una sorta di metronomo impazzito, condizionato dai rispettivi umori e, soprattutto, sfibrato dall’eroina e dalle continue crisi di Kurt.

Si sposarono il 24 febbraio del ’92. Courtney aspettava un bambino. L’opinione pubblica, informata dalla stampa in cerca di scandali, inorridì quando venne a sapere che, nonostante la maternità, lei aveva continuato a far uso di droghe e che lui ne era completamente succube. Le cose, verosimilmente, non stavano in quei termini ma quando la macchina delle accuse si mise in moto per la coppia fu davvero impossibile riuscire a fermarla. Per la gente erano diventati i nuovi amanti maledetti (come anni prima lo erano stati Sid Vicious dei Sex Pistols e Nancy Spungen).

Il 18 agosto del ’92 nacque Frances Bean Cobain. La continua ridda di voci riportate dai media costrinse il Tribunale di Los Angeles a interessarsi del caso e a imporre l’affidamento a una sorella di Courtney, considerato che la coppia non era in grado di dare garanzie sufficienti alla normale crescita della bambina.

Non credo che Courtney e io siamo così stronzi. Nelle nostre vite ci è mancato l’amore e ne abbiamo così tanto bisogno che l’unico obiettivo è quello di dare a Frances quanto più amore possiamo, quanto più aiuto possiamo. Sono certo che è l’unica cosa che non cambierà mai.”

La battaglia per riavere la piccola Frances fu dura e difficile, l’angoscia e il dolore che ne derivarono non fecero altro che scuotere l’equilibrio psichico già instabile di entrambi. Più di una volta pensarono al suicidio, ci rinunciarono solo perché prima o poi erano sicuri di poter vivere con la bambina. Dal momento in cui accadde Kurt volle avere Courtney e Frances sempre accanto, in tour e in studio: “…ho avuto una figlia e sono innamorato: questa è l’unica benedizione che penso di aver ricevuto, questa è la vita che voglio”.

Ma le ombre nella sua mente troppo spesso oscuravano i momenti di apparente felicità. Chi gli stava accanto sopportava con rassegnazione i continui cambiamenti di umore, i momenti di normalità e i lunghissimi mutismi, i sorrisi benevoli e gli scatti d’ira. Nonostante il travolgente successo, l’improvvisa ricchezza, l’innegabile soddisfazione di essere riuscito a tanto, Kurt proprio non ce la faceva a venirne fuori.

Il quarto album fu un calvario. Tutti si aspettavano un altro capolavoro. La casa discografica mise a disposizione un budget da capogiro, Cobain decise di cambiare produttore, scelse il migliore sulla piazza, Steve Albini. Le cose andarono a meraviglia per un po’, poi, per colpa di nessuno in particolare, cominciò a serpeggiare una generale insoddisfazione. Alcuni brani vennero scartati, altri interamente rifatti, Kurt chiese il supporto di un altro produttore. Alla fine In Utero vide la luce ma non brillava certo come Nevermind. I fans gridarono comunque al miracolo, Kurt no. Odiava e rispettava la gente con la stessa forza, era convinto di dover trovare altre strade per non prendere in giro se stesso e gli altri, il punto era da che parte? Provò con un disco senza spina, un classico concerto “unplugged” inventato e sponsorizzato ormai da anni da MTV. Per la casa discografica si trattava di una ghiotta operazione commerciale adatta a un circuito collaudato, una maniera di allargare gli orizzonti dei Nirvana. Per lui, invece, fu il tentativo di sperimentare la sua musica in un contesto “tradizionale” e vedere che effetto potesse avere più su se stesso che su gli altri. Molti critici lo ritennero un piccolo capolavoro, i fans si divisero: alcuni si domandarono allibiti dove fosse finito il loro eroe, altri si sentirono traditi, altri ancora accettarono la svolta anche perché, a onor del vero, Cobain aveva fatto un altro bellissimo disco.

Il primo marzo del ’94 al Terminal Einz di Monaco i Nirvana tennero un concerto. Tutti i presenti si resero conto che Kurt era lì in carne e ossa ma che in effetti sembrava una sorta di zombie, un giocattolo a cui qualcuno aveva dato un tanto di carica per farlo muovere, suonare, cantare per quella notte e basta. Aveva bisogno di riposo e a Roma lo aspettava Courtney per passare qualche giorno di vacanza assieme, ma quel soggiorno all’hotel Excelsior si sarebbe rivelato una vera sciagura. Cinquanta pillole di Rohypnol avrebbero stroncato chiunque eppure, ricoverato d’urgenza al Policlinico in stato comatoso, lui sopravvisse. Ci aveva provato? Forse. Sta di fatto che all’ospedale Americano, dove venne trasferito per la convalescenza, appena riuscì ad aprire gli occhi chiese carta e penna e scrisse: “toglietemi questi fottuti tubicini dal naso”. Dopo tre giorni era già sull’aereo che lo riportava a Seattle. Messo alle strette da Courtney e da un pugno di amici finalmente decise di farsi disintossicare all’Exodus Recovery Center.

Lì dentro proprio non riesce a starci, scavalca il muro di cinta e torna a Seattle. Ancora una volta da solo in giro senza una meta: nel parco vicino a casa vestito da barbone, con un gruppo di tossici a drogarsi fino al limite dell’overdose, nel secondo appartamento di Carnation a dormire per terra col sacco a pelo, in taxi a comprare proiettili per il fucile. Poi finalmente a casa, nella stanza sopra il garage, in compagnia del suo peggior nemico: se stesso. Blocca la porta con uno sgabello, si toglie il cappello, butta per terra il portafogli, si fa una dose di eroina, scrive una lunga lettera con l’inchiostro rosso: “ Parlerò con la lingua di un vero sempliciotto che ovviamente preferirebbe essere piuttosto un lagnoso e infantile privo di mascolinità.

Questa nota dovrebbe essere piuttosto facile da comprendere.

Tutti i suggerimenti delle 101 correnti punk rock attraverso degli anni, sin dalla mia prima introduzione alle, per così dire, etiche coinvolte con l’indipendenza e il coinvolgimento della vostra comunità si sono rivelate verissime. Non ho provato l’eccitazione di ascoltare e di creare musica assieme alla lettura e alla scrittura da troppi anni ormai. Mi sento colpevole oltre ogni dire rispetto a queste cose.

Per esempio quando siamo nel back stage e le luci calano e il pazzo ruggito della folla ha inizio non mi influenza nel modo in cui influenzava Freddy Mercury, che sembrava amare, godere dell’amore e dell’adorazione della folla, qualcosa che ammiro e invidio totalmente. Il fatto è che non vi posso fregare, nessuno di voi. E’ semplicemente ingiusto per me e per voi.

Il peggior crimine che mi venga in mente sarebbe di derubare la gente fingendo e comportandomi come se mi stessi divertendo al 100%.

A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino prima di salire sul palcoscenico. Ho tentato tutto ciò che era in mio potere per apprezzarlo (e lo apprezzo, Dio, credetemi è così, ma non è abbastanza). Apprezzo il fatto che io e noi abbiamo influenzato e divertito un sacco di gente. Forse sono uno di quei narcisisti che stimano le cose soltanto quando non ci sono più.

Sono troppo sensibile. Dovrei essere lievemente stordito per riguadagnare quell’entusiasmo che una volta avevo da bambino.

Nei nostri ultimi tre tour ho avuto modo di apprezzare meglio tutta la gente e tutti i fans che ho conosciuto personalmente, ma ancora non riesco a superare la frustrazione, la colpa e l’empatia che ho per tutti. C’è del buono in ognuno di noi e credo di amare la gente semplicemente troppo, così tanto che mi fa sentire maledettamente triste. Il triste piccolo, sensibile, incapace di apprezzare, Pesci, uomo-Gesù!

Perché non te la godi e basta? Non lo so! Ho una dea di moglie che trasuda ambizione ed empatia e una figlia che mi ricorda tanto quello che ero una volta, piena d’amore e gioia, bacia ogni persona che incontra perché tutti sono buoni e non le faranno del male. E questo mi terrorizza a tal punto che a malapena riesco a ragionare. Non posso sopportare il pensiero che Frances diventi la miserabile e autodistruttiva star del death rocker che sono diventato io.

Mi è andata bene, molto bene, e ne sono grato, ma dall’età di sette anni, mi sono riempito di odio verso tutti gli umani in generale. Solamente perché sembra così facile per la gente andare d’accordo e avere empatia. Solamente perché amo e mi dispiaccio troppo per la gente, credo.

Grazie a voi tutti dal profondo del mio stomaco bruciante e nauseato per le vostre lettere e la vostra attenzione durante gli anni passati. Sono un bambino troppo incostante e lunatico! Non ho più la passione, e quindi ricordate, è meglio bruciarsi subito che spegnersi lentamente.

Pace, amore, empatia.

Kurt Cobain

Frances e Courtney, sarò al vostro altare.

Ti prego vai avanti Courtney per Frances.

Per la sua vita, che sarà così più felice senza di me.

VI AMO, VI AMO.”

L’8 aprile 1994, attorno alle nove di mattina, la polizia trovò il corpo di Kurt Cobain. Le scarpe nere di gomma con le stringhe luride, le calze bianche di spugna arrotolate, il jeans sdrucito, la maglietta incolore, una macchia scura sul pavimento partiva dalla testa, la faccia era sfigurata dal colpo di un Remington calibro 20. Se n’era andato a 27 anni, come Janis Joplin e Jimi Hendrix.

 

Radio days: Mirco Salvadori & Arlo Bigazzi

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Ding Dong You’re Dead

di musica, perduta indipendenza, tenebra e rivoluzione

Mirco Salvadori in conversazione con Arlo Bigazzi

 

Il battello sul quale stiamo viaggiando arranca a fatica affrontando le forti correnti avverse. Ci sta trascinando nei territori della penombra, lì dove le note suonano in modo diverso, capaci di trasformarsi in feroci sirene, abili nell’ammaliare e irrimediabilmente ingoiare chi si pone impreparato al loro ascolto. Siamo in due, sul ponte di questa piccola e malandata imbarcazione. A discutere, replicare e obiettare ciò che sostengo, un capitano di lungo corso che ha deciso di condividere la mia stessa sorte. Fossi cresciuto a manga e cartoni animati negli anni ’80 lo chiamerei Capitan Harlock ma la mia età mi obbliga a pensare ad altre assonanze come quelle legate al nome di Capitan Marlow. Forse è per questo che ci ritroviamo a galleggiare su queste scure e torbide acque alla ricerca di una risposta complicata da ottenere, cercando di capire cosa nasconde la fitta foresta che circonda la nostra barca. Ci confronteremo affrontando un invisibile Kurtz che su questa verde e umida penombra impera.

Il cappello da capitano di Marina a coprire il bianco dei capelli raccolti in un codino, la perenne sigaretta accesa e il marcato accento che contraddistingue la sua provenienza, Capitan Arlo Bigazzi se ne sta seduto sul ponte di questo trabiccolo a vapore sorseggiando il suo chinotto. Lo guardo e penso che ho di fronte a me una parte consistente del suono indipendente italiano, colui che assieme al fratello Giampiero ha fondato la Materiali Sonori, un’etichetta discografica nata nel 1977 e cresciuta nel credo dell’indipendenza artistica e nell’internazionalità dell’offerta culturale. È assieme a questo novello Capitan Marlow, musicista e produttore toscano, che attraverserò la tenebra, in uno scambio di idee e pareri rigardanti la feroce decadenza musicale in un paese che a sua volta si rintana sempre più nell’intrico della jungla profonda, lì dove si annida l’orrido.

 

Arlo Bigazzi e Chiara Cappelli – L’infanzia da “Majakovskij!”

 

Mirco Salvadori: Non è semplice affrontare una discussione del genere, vista l’ampiezza degli argomenti che si dovrebbero trattare. Non solo musica ma anche il contesto nel quale viene prodotta e diffusa e la sua qualità in funzione del destinatario finale. Come prima cosa però vorrei cercare di capire se il mio sentire è anche il tuo, se ti senti sempre più estraneo a un mondo che un tempo ti apparteneva e ti rappresentava. Una realtà che aveva dei principi di massima che man mano sono scomparsi nell’appiattimento generale di un’offerta che mira sempre più alla semplificazione basica inducendoti a rifugiarti nell’unico angolo di mondo dove ancora ti riconosci.

 

Arlo Bigazzi: Fisicamente, sì. Ma per il resto non mi rifugio molto. Mi sento parte del mondo, mi piace starci, anche se poi rimango abbastanza ai suoi margini. Non sono attratto dall’idea di vivere in isole protettive, di appartenenza. Riserve indiane dove ce le cantiamo e suoniamo persuadendoci di essere “i migliori”. Ma non mi piace neppure essere in mano alla “Grande Industria”. Allineato al Sistema. E poi non sono mai stato affascinato dai lustrini, sono d’indole francescana. Come diceva un mio amico, “noi abbiamo molte cose in comune con loro, sono loro che non hanno niente in comune con noi”.

 

Sinceramente ti invidio, ti invidio perché riesci a bere il chinotto che da sempre detesto ma ti invidio soprattutto per la tua capacità nel mediare.

 

Mediativo penso di esserlo poco, in verità. Mi guardo intorno, rifletto, a volte mi viene di farmi un’opinione. Non è detto che sia giusta ma prendo comunque la mia strada. In fin dei conti non credo di avere grandi convinzioni da far valere o da proteggere, però ho l’urgenza, la necessità quasi fisica di inseguire un’ Utopia, pertanto cerco di abbandonare cinismi e diffidenze e vado da quella parte. Magari non prendo neppure la strada giusta e provo a cambiarla se me ne rendo conto, ma vado comunque da quella parte.

 

Ti passo un altro chinotto che dici? Ok, siamo forse simili e giungiamo comunque dallo stesso passato ma ovviamente apparteniamo a due realtà diverse. Tu suoni e produci, sei un musicista ed io tento di de-scrivere ciò che tu e molti altri tuoi simili cercate di dire con il vostro lavoro. Al tuo pari lo faccio da una postazione che mi permette l’assoluta indipendenza espressiva, una riserva come tu la chiami, nata spontaneamente, per sottrazione.

 

Aspetta. Capiamoci: per “riserva” intendo quando evitiamo un confronto concreto con il mondo, quando ci rifugiamo tra animali della stessa specie. A me piace il confronto ma pure io, in fin dei conti, vado per sottrazione: raramente ascolto e guardo cose che so già che poco m’interesseranno. Mi sembra tempo sprecato.

 

Sai che penso? Penso che quella porzione di mondo sarà pure una riserva, ma è attiva. È poco conosciuta e zero valutata ma, diosanto, se è viva! Lo è perché chi vi suona lo fa usando ancora la curiosità della ricerca e i mezzi che essa ha avuto modo di mettere al nostro servizio, le macchine che possono interagire con il suono degli strumenti, dar loro una voce altra, innovativa. Lo è perché le musiciste e musicisti, le sound artist e i soundartist, video artist, sound designer, multimedia artist che tentano di descriverla lo fanno con la passione dimenticata dei vecchi barricaderi, protetti dallo sbarramento che solo la reale indipendenza può fornire. Guarda caso la maggioranza di loro agisce diffondendo il proprio lavoro su etichette discografiche estere perché da noi ben poche sono le label che si preoccupano di indagare e pubblicizzare realtà che non siano di facile fruizione, pronte per il possibile utilizzo per la massa.

 

 

                         Enrico Coniglio e Giulio Aldinucci – Stalkin the Elusive

 

Fermiamoci Arlo, proviamo ad analizzare questo termine: indipendenza e la valenza che ancora può avere nella realtà musicale italiana. Ovunque ti giri vedi gran sventolii libertari sempre abbinati a termini quali rock o indie. Da anni ripeto una frase che ormai si è trasformata in un mantra, sono le stesse parole usate da Simon Frith per il titolo del suo libro uscito, bada bene, nel 1988. Music for pleasure, tradotto in un definitivo Il Rock E’ Finito e con il rock anche il fenomeno indie, aggiungo.

 

Dipende da cosa vogliamo intendere per indie. Adesso sono tutti indie. L’industria discografica, le Major, che io sappia, hanno ormai pochissimi artisti direttamente sotto contratto. L’industria discografica fa parte del sistema consumistico ed ha la necessità di trarre profitto in breve tempo, quindi tende a esaurire velocemente la merce ed è per sua natura poco interessata a prodotti utili culturamente e socialmente e che necessitano d’investimenti diversi. In ogni modo, la crescita culturale del pubblico non è certo il suo obiettivo. Ha pure imparato a vendere l’ideologia, il costume. Il marketing, poi, uniforma il prodotto e il metodo di consumo. Anche se poi il rock – nato comunque come prodotto per i consumatori giovani – non è finito. Il rock è un’attitudine, ce ne vorrà di tempo perché si esaurisca…

 

La mia è ovviamente una provocazione, il rock fischia ancora ma bisogna saper cercare per trovare la vera bufera. Ciò che mi crea ansia è che in questo nostro piccolo angolo di mondo tutto italiano si insiste a voler vedere e vendere la musica per quello che non è. Ricordo bene i primissimi festival delle vere etichette indipendenti degli anni ’80. Il confronto con quelli organizzati per esempio dal MEI, che continua imperterrita a vivere fuori dal tempo pubblicizzando le sue manifestazioni come somma espressione dell’ormai defunto popolo indie-rock, è impietoso. I’acronimo stesso lo indica senza remora alcuna: MEI con la I di indipendenti.

 

Sai, io ho fatto le prime esperienze in quel periodo dove “indipendenti” significava essere antagonisti al Sistema. Provare a cambiarlo se non abbatterlo. Per me indipendenti erano Ivan Della Mea e Giovanna Marini con I Dischi del Sole, oppure Rough Trade, la Factory e Recommended Records in Inghilterra. La Schneball degli Embryo in Germania e la Ralph Records negli Stati Uniti. Il contenuto musicale, quello estetico, erano anche contenuto politico. “Rock In Oppositions”, per capirsi. Quel movimento, avviato da Chris Cutler degli Henry Cow nel finire degli Anni Settanta, in opposizione, appunto, all’industria discografica che aveva come unico scopo il profitto. Di conseguenza anche il “contenuto economico” era politico: non venivano realizzati album avendo alle spalle i finanziamenti delle Major. Non distribuivamo volantini ma provavamo a distribuire musica. Era fare attività politica in modo diverso. Pensa anche al punk: stilisticamente mi ha poco attratto ma è stata una bella lezione d’indipendenza. Adesso si è persa quella connotazione ma “indipendente”, pur sapendo che società e costumi sono cambiati molto, dovrebbe mantenere quel significato. L’uso del termine indie, com’è usato oggi, non so cosa possa significare, se non “aziende che non fanno direttamente parte di una multinazionale”. De Gregori è indie? Ha una sua etichetta, la Caravan. Oltre ai suoi dischi ne ha prodotti anche per il fratello. Non vorrei sbagliare, ma credo che anche Gigi D’Alessio sia un indipendente. Ha la GGD, specializzata in musica napoletana. Però, come per la Caravan, è distribuito Sony Music. Sono quindi indipendenti? Per me, non molto. Come non lo è qualunque musicista che abbia avuto finanziamenti da una Major. Per il MEI si vede che lo sono. Che ti devo dire… Forse pensano più a far conoscere il mercato musicale in genere che a promuovere un prodotto che abbia una valenza culturale e una scelta di campo. In quella logica sono indipendenti anche il Clan Celentano e la Sugar di Caterina Caselli. Ma quasi tutte seguono una logica squisitamente commerciale. Non hanno come obiettivo un progetto politico culturale. E neppure hanno alle spalle un movimento culturale com’era invece negli Anni ’70 e ’80. Infatti l’Independent Music Meeting che si teneva a Firenze a metà degli anni ’80, tendeva a sostenere un movimento culturale. Cercava di creare un confronto tra le realtà culturali di quegli anni. Poi è andata com’è andata, ma adesso si punta quasi esclusivamente alla quantita, accantonando la qualità. Oggi, vedi, si cunsuma “cultura di sinistra” e non si prova a creare ed evolvere una cultura come invece cercavano di fare i citati Della Mea, Chris Cutler o le Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. E questa nuova cultura di sinistra, edulcorata, appiattita, omologata, la consumiamo pressappoco con gli stessi riti e nello stesso modo piuttosto acritico con cui consumiamo la cultura dei talent o dei Sanremo, per capirsi. Che hanno pure una loro logica e se fosse costruita con intelligenza, buon gusto e cultura meriterebbero rispetto, ma sono proprio un’altra storia: sono dentro il Sistema. Lì non sei indipendente, per niente antagonista e penso che sei persino poco utile socialmente e culturalmente…     

                                                  

Luigi Grechi De Gregori e Francesco De Gregori – Senza Regole

 

Con un nodo alla gola ti quoto Arlo: dove stiamo andando, cosa è realmente rimasto della realtà indipendente un tempo sovrana e ora usata come desueto marchio di fabbrica. Cosa fare per distinguersi da questa bolgia di nomi e musica indefinita se non sparare a raffica dalla propria barricata quella che un tempo era definita controinformazione. A volte ho come l’impressione che la cultura underground si stia rivalutando e coloro che si muovono come noi, alla luce del sole, ne siano i sognanti e folli portatori.

 

Cosa è rimasto… Di realtà che fanno musica alternativa ci sono – o che parola bella sarà “alternativa”? Peccato non si usi più. Pensa alle label di musica tradizionale, elettronica, world, jazz. Sono ai margini, non riescono ad avere una loro visibilità. Neppure un riconoscimento culturale, se non di vendite, come potevano averlo la Cramps, L’ultima Spiaggia o L’Orchestra degli Stormy Six. Forse bisognerebbe tornare a parlare di “cultura underground”. Di controcultura. È un po’ difficle farlo, sembreremo dinosauri in estinzione, ma erano belle parole, bei concetti e belle intenzioni. Probabilmente dovremmo chiamarla in un altro modo, ma dovremmo trovare quell’orgoglio che avevamo quando pensavamo di essere utili: costruire cultura e non solo intrattenimento.

 

Il punto è questo! Se escludi il circuito musicale contemporaneo che vive in un suo mondo a parte per altro decisamente impenetrabile e permettimelo supponente, la stragrande maggioranza della massa musicale prodotta sembra seguire dei dettami inventati di sana pianta da chi si spaccia per navigato esperto e l’unica cosa che insegue è l’apparizione a qualche talent o festival sanremese.

 

Sì, penso che una colpa del circuito contemporaneo e anche di quello classico, sia di essere poco inclusivi. O hai gli strumenti per comprendere – almeno atteggiarsi – o ne sei escluso. Io sono un “naturale”, ho una cultura disordinata e provo ammirazione e invidia per chi ha una cultura approfondita e organizzata, però non apprezzo molto quel modo di sentirsi un territorio a sé, esclusivo. Di non volersi sporcare le mani per divulgare le loro conoscenze. Di non usare linguaggi comunicativi utili a raggiungere e condividerle con più persone possibili. Il risultato, se la cultura non è diffusa, è che ne faranno da padrone i talent e la melma sanremese, più attenta ai dress code che alle note e alle parole usate. Se consideri che oggi non abbiamo molti luoghi dove potersi provare, sperimentare, fare gavetta, la scelta non rimane che i talent, i rock contest. Le gare, insomma. La musica colta ha il suo circuito esclusivo, mentre per la musica extra-colta o di confine, com’era chiamata una volta mantenendo una sua dignità, non ci sono gli spazi per crescere e farsi conoscere, come accadeva invece in passato.

 

È un comportamento che si è diffuso in modo malsano, coinvolgendo non solo la realtà canzonettistica italiana, come è giusto e logico, ma anche e purtroppo quel mondo impegnato nel produrre reali contenuti culturali su disco. Tutto questo sostenuto da frotte di giornalisti anch’essi un tempo schierati su barricate dedite alla controinformazione. Senza nascondere una punta di voluta durezza mi chiedo perché affermati cronisti che nei ’70 lavoravano nelle redazioni di giornali da trincea come Muzak, ora gridano al miracolo del ritrovato rock che nuovamente rivoluziona la scena musicale e lo fanno riferendosi a una boyband che è l’esatta risultanza di una coltivazione in vitro, o personaggi che saccheggiano la stanca iconografia rock sapendo che nessuno metterà mai in dubbio la loro baracconata in stile Goldifinger o se preferisci Sette Uomini d’Oro, che lì almeno c’era una immensamente bella Rossana Podestà che si specchiava nuda nella musica di Armando Trovajoli.

 

È curioso, in effetti. Mi è capitato di pensarci. È vero che invecchiando diventiamo più reazionari – diciamo più riflessivi… – ma ancora non capisco come sia possibile dimenticare completamente quello cui avevamo creduto e sperato negli anni dell’incoscienza e dell’entusiasmo. Posso capire che uno stipendio sicuro – magari neppure tanto basso – una posizione sociale di buon livello, ti facciano rielaborare certe convinzioni, ma come si possa aver scritto «Il pop, inteso come fenomeno totalizzante e complessivo, dopo la “grande illusione” degli anni ’60, stenta a farsi voce portante dei nuovi bisogni culturali» per poi arrivare a tessere anni dopo, su uno dei maggiori quotidiani italiani, un elogio all’ultimo album di Paola & Chiara non riesco a capirlo molto. Va bene, erano epoche diverse, il mondo cambia, ma è proprio come l’inutile discernere oggi sul ritrovato rock in contesti dove il rock ha poco a che vedere e per forza di cose. A volte mi chiedo come sia possibile. A proposito, per caso sai che fine hanno fatto Paola & Chiara? Le ho viste una volta per uno showcase al defunto Salone della Musica di Torino, e devo ammettere che la biondina, con quell’aria da diva imbronciata, era proprio caruccia. In ogni modo, tornando a quella generazione in cerca di nuove speranze e nuovi confini, è come se a un certo momento si fosse accorta che non sarebbe riuscita a cambiare il mondo e allora, forse per rabbia o per vendetta, abbiano deciso di peggiorarlo. Comunque, su Muzak, divoravo gli articoli di Giame Pintor e Sandro Portelli.

 

Appunto, perché lo fanno, visto che senz’altro non possono essere convinti di ciò che scrivono. Come dicevo la regressione e il decadimento che sta coinvolgendo la società italiana non risparmia neanche il mondo della musica e a farne le spese sono coloro che ancora credono nella capacità del suono di produrre arte, arte vera. Da poco la norvegese Rune Grammofon ha rilasciato il nuovo disco della chitarrista, cantante e compositrice Hedvig Mollestad con il suo trio, un vinile contenente vere esplosioni elettriche che bada bene, non sono semplicemente jazz virato rock ma rappresentano una vera ricerca sul campo. Dovessi tornare sulle barricate della controinformazione militante, credo sventolerei una bandiera con su scritto il titolo di questo lavoro: Din Don You’re Dead.

 

Hedvig Mollestad Trio – Live at Jazzahead! (2019)

 

Sì, ok, you’re dead… però ti voglio svelare un mio piccolo segreto per non morire troppo. Sul Note del cellulare, perché non ho una gran memoria e non me la voglio scordare, mi sono scritto una frase di Bruno Misefari, misconosciuto poeta e attivista anarchico vissuto tanti anni fa. L’ho scoperto per caso: è nato il mio stesso giorno. Dal poco che sono riuscito a leggere delle sue poesie, a dire il vero, non mi è sembrato un gran poeta ma una bella cosa l’ha scritta di certo. Te la leggo: «Un poeta o uno scrittore – ed io direi che in questo caso ci possiamo prendere la licenza di aggiungiungerci anche “un attore e un musicista” – che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in prosa. L’arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria». Bello eminentemente, non trovi? Senti che bel suono che ha. Senza parlare poi di quanto sia bella ri-vo-lu-zio-na-ria.

 

Caro il mio Capitano, per onorare il ricordo non posso non quotare il tuo apprezzamento per il leggero duo femminile, Amoremidai è stata una traccia che ho profondamente accarezzato nelle mie notti da scapestrato fuori tempo massimo. Vedi però, in questo caso siamo in pieno – e piacevole – mainstream canzonettistico che non si nasconde dietro falsi costumi di indipendenza come succede ed è successo anche a grosse formazioni della nuova onda nostrana che la sventolavano dipendendo comunque da major con i loro dirigenti in capo.

Tu parli di rivoluzione, certo che ci vorrebbe una rivoluzione ma la dovrebbero iniziare coloro che ora sono portatori di restaurazione come i vari festival dei tanti Primo Maggio, le molte etichette discografiche che rincorrono l’incubo sanremese scambiandolo per un sogno, i meeting delle etichette ancora indipendenti, i giovani stessi in quanto consumatori finali ormai avvolti nei fumi dei mille talent che hanno loro tolto il desiderio di bellezza. A tal proposito mi torna in mente una poesia di Hezy Leskly, si chiama La Ventiquattresima Danza:

 

La farfalla ingoia le lacrime della tartaruga

e mangia la carcassa della scimmia

caduta dall’albero.

Il lettore frettoloso potrebbe

concludere da quanto è qui riportato

che

in Patagonia

la bellezza

si nutre di disperazione e di nulla.

Errore. In Patagonia come a Tel-Aviv

la bellezza

si nutre del dibattito sulla bellezza.

 

Ciò che manca in questo mondo nel quale ci sentiamo per certi versi estranei, mio amato amico e Capitano, non è la bellezza ma il dibattito di cui si nutre.

 

Sono d’accordo con te ma hai usato un termine che personalmente non trovo esatto. Non penso debba essere chi gestisce certi spazi a dover “iniziare” una nuova rivoluzione – forse sarebbe pretendere troppo – semmai dovrebbero “sostenerla” creandone le basi, le strutture che magari già gestiscono, perché ciò possa accadere. Questo compito appartiene più alle giovani generazioni. A noi dovrebbe stare il compito di affiancarli, memori di quanto si è fatto e prodotto in epoche che ora sembrano remote. E magari anche memori dei nostri errori. Vedi, invece di puntare come dicevamo, alla quantità, dovremmo avere la fortuna di ritrovare quell’incoscienza che ci permeava mille anni fa. Quando ci inventavamo performance assurde con la speranza di far pensare. Come quella volta, agli albori di Materiali Sonori, che invademmo un paesello vestiti praticamente da marziani e diffondendo con degli orrendi altoparlanti una musica che all’epoca era sicuramente assurda: tentavamo, con tanta inesperienza e ingenuità, di far riflettere sul disastro di Seveso. Non vendevamo intrattenimento.

 

Gli albori della Materiali Sonori – performance “Ossido” a Incisa Valdarno (1977)

 

La ruota del nostro malridotto battello a vapore ci sta spingendo lontano dalla tenebra. Sullo scrostato tavolino, testimone di ben altri incontri, una selva di bottigliette di chinotto e vuoti calici di Hirundo. Dalla radio di bordo esce una canzone che giunge a infrangere il silenzio creatosi lungo la parte finale di questa lunga attraversata. Al pari di due vecchi compagni di antiche e inutili battaglie ci guardiamo sorridendo, forse iniziare a cantare quella canzone servirà come base per la costruzione di una nuova e solida barricata risplendente bellezza.

 

Out of the dark into the light

Looking for a way around it

When it calls we wan’t hear

We will shout and we’ll drown it out

(Comsat Angels – 1981)

 

Overbooking: A tempo perso suonavo ogni giorno

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di

Franco Bergoglio

Magazzino Jazz

Campagnaaaaa…quant’è bella campagna! Il brano Campagna a distanza di decenni fa ancora l’effetto di uno shock emotivo-energetico su chi non l’ha mai ascoltato. L’ho verificato prima del lockdown, in occasione di un tour dell’instancabile folletto James Senese alle prese con l’ennesima incarnazione del suo gruppo, i Napoli Centrale: un treno musicale con destinazione ignota (ma si sa da quale stazione è partito). Dietro la batteria del nucleo originario dei Napoli Centrale e insieme artefice dei testi di molti brani, tra i quali proprio Campagna, stava Franco Del Prete. Questo libro rapsodico, che si muove per flash (come stacchi di batteria?), racconta la sua vita, al centro della prima ondata di quel sound napoletano che poi avrebbe fatto faville. Anche Franco Del Prete stava in quell’onda lunga che lo avrebbe portato a suonare e registrare con tanti da Peppino Di Capri a Enzo Gragnaniello. Si parte dall’infanzia a Frattamaggiore: provincia campana profonda, condizioni difficili e personaggi caratteristici. Le parti più belle del libro sono quelle che raccontano la filosofia dietro la vita del musicista. Lo immaginiamo tra un tiro e l’altro di sigaretta raccontarsi allo scrittore Mario Schiavone: “Lavorare: perdere il tempo, accumulare soldi. Suonare: afferrare il tempo, cercare un ritmo. Raccogliere sogni”.

Tante le comparse che fanno capolino: Tony Esposito con la sua worldmusic, l’esplosivo Tullio De Piscopo, un Alan Sorrenti prima maniera, Mario Musella ed Elio D’Anna, alfieri del pop anni Sessanta con gli Showmen, e ancora gli Osanna, Pino Daniele, Enzo Avitabile, Rino Zurzolo, Joe Amoruso. Un’esplosione di talenti creativi dell’hinterland napoletano che con ondate successive arriva fino ai Centri Sociali anni Novanta con 99 Posse, Bisca, Almamegretta e le cui schegge tardive brillano ancora oggi (i Nu Guinea). E, rimanendo alla metafora bellica: il primo botto lo fece proprio Campagna dei Napoli Centrale.

Un mix inedito di musica e parole che danno voce “alle grida di dolore provenienti dai braccianti delle campagne e dal sottoproletariato urbano”. I Napoli Centrale come i Weather Report italiani: spesso l’accostamento è quello, ma così si resta in superficie. Il background è diverso: negli italiani l’impasto fame/rabbia produce un cazzotto sonoro che trascende gli stili: “E James Senese che cantando gridava “Campagnaaaaaa” non era altro che un pupo fatto ad arte da quella mano invisibile e agitato dal vento della vita che reggeva le braccia in grado di dare anima a ogni componente della band”.

Il calendario è quello degli anni Settanta, però qui c’è uno scarto tra l’immaginario rock mondiale e la provincia dell’impero. Franco Del Prete sintetizza questa sfasatura: “I nostri anni Settanta, in cui non eravamo i Pink Floyd con il loro enorme maiale di gomma che svettava sulle teste della gente. I nostri maiali erano veri, di sangue e carne e ossa e pelle bianca e pelosa. Teste di maiali di campagna comprate per quattro soldi dai capifamiglia contadini, con cui potevano sfamare i loro figli. Mentre noi, per alimentare i nostri piccoli immensi sogni, desideravamo lo spazio sulla scena napoletana per una musica tutta da rifare. Il nostro treno partiva proprio da Napoli Centrale”. Un treno musicale che ha imbarcato viaggiatori diversi, ciascuno con il proprio bagaglio: la spiritualità di Senese, la parabola tragica di Larry Nocella, indimenticato eroe del jazz che “Mangiava alcol, beveva alcol, vomitava alcol”.

Del Prete riflette sull’esistenza in pagine intense dove la penna dell’autore, Mario Schiavone, si mimetizza, lasciando emergere la voce del protagonista, nuda, in alcuni passaggi toccanti, come questo: “Poteva essere una vita a perdere, la mia. Avrei dovuto fare ben altro. Avevo tutte le carte in regola, fin dalla nascita, per essere un perdente. Il mio sogno era andare via, lasciare la mia terra, partire in ogni modo. A 16 anni si andava in marina, così mi ritrovai a fare i miei tre giorni di marina militare a Taranto. Odiai subito quel mondo e me ne tornai a casa”. Altro tempo, altra Italia, altra vita, altra musica.

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