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L’importanza di essere piccoli. Poesia e musica dei borghi dell’appennino

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Tutti i giorni esco e cerco l’Altro sempre.
F. Hölderlin

cartolina importanza fb (1)

 

L’importanza di essere piccoli
poesia e musica nei borghi dell’appennino
VI edizione dal 2 al 6 agosto
un progetto associazione arci  “SassiScritti”

riabitare il luoghi marginali con la poesia e la musica

LA POESIA  CERCA L’ALTRO

con

GNUT, NADIA AUGUSTONI,  GIUSI QUARENGHI, IACAMPO,  MOTTA,  MATTEO PELLITI, TÊTES DE BOIS,  GIOVANNI NADIANI, ALESSANDRA RACCA, ERICA MOU, TIMISOARA PINTO,  LUCIA MAZZONCINI

“Tutti i giorni esco e cerco l’Altro sempre” è l’incipit scelto per la VI edizione del festival l’Importanza di essere piccoli, verso enigmatico e profetico del poeta Holderlin che connota la poetica e il senso di un progetto culturale nato nel 2011 da un’idea di Azzurra D’Agostino e Daria Balducelli dell’associazione SassiScritti e sostenuto da Regione Emilia-Romagna, nell’ambito del progetto Polimero di Arci Emilia-Romagna, Distretti Culturali, Città metropolitana di Bologna e i Comuni di Alto Reno Terme, Castel di Casio, Grizzana Morandi, Pistoia e Sambuca Pistoiese, Arci Bologna e il contributo di Coop Reno, Banca di Credito Cooperativo Alto Reno, Helvetia Thermal SPA Hotel. Non solo quindi un festival ma il coronamento estivo di una serie di attività che l’associazione, affiliata Arci, intesse durante l’anno: da InRitiro, un calendario di laboratori in residenza con scrittori, attori, illustratori e musicisti, collaborazioni con enti locali quali la Fondazione Santa Clelia Barbieri di Vidiciatico, l’Associazione Porretta Cinema e recenti sinergie con il festival pistoiese Leggere la città e il Progetto T della compagnia teatrale Gli Omini. Non da ultimo lo scambio di energie e di  pensiero avvenuto lo scorso inverno al presidio dei lavoratori Philips-Saeco, mobilitati contro un previsto licenziamento di quasi metà degli operai. SassiScritti ha affiancato a questa manifestazione un presidio culturale che ha portato davanti alla fabbrica decine di artisti in un programma dal titolo Poesie per farsi coraggio. Gli operai, a conclusione della lunga contrattazione, hanno devoluto a SassiScritti un contributo derivante dai fondi raccolti a sostegno delle famiglie dei lavoratori.

Il filo rosso che lega queste proposte è l’attenzione e cura dei luoghi “marginali” intesi non solo come periferie, ma come condizioni esistenziali fragili e minoritarie, quindi potenzialmente cariche di una bellezza eversiva e innovatrice.

Poesia e musica in luoghi ancora da scoprire, riluttanti alla fama ma generosi nell’accogliere, poesia come l’Altro che è in noi ma anche come l’altro che arriva da fuori e che l’arte continua a cercare con lo slancio del bambino che esplora il mondo. L’immagine scelta, quella di una cavalletta che si rispecchia in una figura aliena, ci rinnova l’antica promessa con il nostro essere più autentico, verso un’alterità fertile che fa accadere gli incontri e salda l’amicizia, qualcosa che oggi forse più che mai si rende urgente.

Ancora una volta SassiScritti sarà felice di accogliere dal 2 al 6 agosto gli ospiti nei luoghi del Festival, in una terra di mezzo fatta di castelli, pievi, boschi e borghi semi-abbandonati dell’Appennino. Mediatori tra il mondo e quei pianeti marziani evocati dalla poesia saranno come sempre i luoghi che permettono l’incontro tra artisti e pubblico, resi ancora più belli dalla cura e dalla dedizione degli abitanti, delle proloco, delle associazioni locali, che da settimane si preparano a questo appuntamento.

I cantautori Gnut,  Iacampo, Motta, têtes de bois, Erica Mou  si incontreranno per la prima volta  con i poeti Nadia Augustoni, Giusi Quarenghi, Matteo Pelliti, Giovanni Nadiani, Alessandra Racca. Poesia e Musica arriveranno e si intrecceranno a Tresana, Castelluccio di Porretta Terme (BO), tra le sue case costruite con le pietre locali che sbucano dal bosco di castagni; tra le romantiche rovine del Castello di Sambuca Pistoiese (PT) o nel festoso borgo di Castagno di Piteccio (Pistoia) che incontra la linea transappenninca della Porrettana; presso l’antico e bellissimo borgo La Scola a Grizzana Morandi (BO) e infine approdare sui prati del circolo culturale ippico Scaialbengo a Castel di Casio (BO).

Gli eventi sono a ingresso libero in caso di pioggia si svolgeranno ugualmente nei luoghi indicati.

PROGRAMMA

Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si terranno anche in caso di pioggia nei luoghi indicati

Martedì 2 agosto inizia il viaggio dentro la natura, la poesia e la musica in uno dei borghi più segreti e più suggestivi dell’Appennino: Tresana, non lontano da Castelluccio di Porretta Terme, piccolo agglomerato di case immerse in un castagneto secolare tra grandi fioriture di ortensie e case in sasso dai tetti in arenaria. L’appuntamento è per le 18:30 quando Lucia Mazzoncini, aiutata dalle riprese video di Eleonora Chiti, accompagnerà il pubblico nelle stanze di una antica casa contadina regalando con l’ installazione audio-visiva CREATURE CUSTODI DI STORIE momenti di sosta e ascolto attraverso le voci di poeti e le storie di infanzia degli abitanti del borgo e dei viandanti che lo hanno attraversato…

A seguire si terrà la presentazione del libro UN PONTE GETTATO SUL MARE, realizzato dal festival di poesia sardo Cabudanne de sos poetas di Seneghe con cui l’importanza di essere piccoli  è gemellata  si rinnova in questo modo la vicinanza a festival di là dal mare attraverso questo volume antologico che raccoglie le poesie create durante un laboratorio di scrittura poetica nei centri psichiatrici dell’oristanese a cura di Francesca Matteoni e Azzurra D’Agostino. Dopo una cena a buffet (su prenotazione) dalle 21:00 si entrerà nel vivo della relazione tra parola e musica con l’inedito incontro tra Nadia Alba Augustoni e GNUT. Poetessa dal percorso certamente non accademico, Nadia Augustoni vive una vita da operaia: da sempre per necessità a contatto con lavori manuali e fuori dal mondo intellettuale, si forma da autodidatta studiando  di notte i grandi poeti e saggisti della nostra tradizione. Ne esce una produzione cospicua e variegata, arricchita da una lingua consapevole ma diretta, che si occupa delle questioni dell’umano nelle sue varie declinazioni: da temi più impegnati civilmente a quelli più strettamente intimi, quali quelli trattati nel recente Lettere della fine uscito per Vidya nel 2015. A duettare con lei GNUT, al secolo Claudio Domestico, delicatissimo cantautore napoletano che con il suo primo album “Prenditi quello che meriti” è stato acclamato come una delle migliori realtà cantautorali della sua generazione. Presenta al festival brani anche da Domestico, il suo ultimo album, caratterizzato sino dal titolo da una poetica intima, potremmo dire quasi ‘casalinga’, che perfettamente si ricollega all’atmosfera  della serata.

Altra caratteristica de l’importanza di essere piccoli è il piacere di scoprire e far scoprire nuovi borghi, così da quest’anno inizia la collaborazione con il borgo toscano di Sambuca Pistoiese, dove mercoledì 3 agosto pubblico e spettatori si ritroveranno ai piedi del ‘Castello di Selvaggia’. I ruderi sono su uno sperone di roccia che controlla le valli del Limentra, dove sorge una fortezza che un tempo fu l’ inespugnabile culla della storia e della tradizione poetica dell’Appennino. Qui, nel 1200, si combatterono le città di Pistoia e di Bologna e qui un secolo dopo si rifugiò, dove visse i suoi anni più felici, Selvaggia Vergiolesi, nobildonna di famiglia ghibellina cantata dal poeta Cino da Pistoia. E come le parole del poeta ci giungono attraverso i secoli, così la poetessa che ospitiamo ha parole ‘per tutti’: non è possibile infatti limitare l’opera di Giusi Quarenghi alla sola ‘poesia per ragazzi’. I suoi albi illustrati, le sue filastrocche, i suoi racconti, le sue poesie (come quelle raccolte in E sulle case il cielo ed. Topipittori, inserito nella IBBY International honour list) sono un mondo ricco dove è bello passeggiare insieme. Con lei, il cantautore IACAMPO, una voce delicata che accarezza temi e atmosfere di un immaginario composto di dediche e riflessioni, canzoni che a partire da racconti di esperienze personali diventano bacino di domande, attese, grandi dubbi e piccole certezze universali. Un cantautore dallo stile immediatamente decifrabile, che gira l’Italia commuovendo i pubblici più diversi attraverso una musica in qualche modo ‘poetica’ che, come una fioritura, il titolo del suo ultimo album Flores la richiama – si fa esplosione silenziosa.

Si resta in Toscana anche giovedì 4 agosto con l’ appuntamento nella stazione più piccola d’Europa, ovvero Castagno di Piteccio (Pistoia). Un solo binario, tra due gallerie, una casupola sotto l’ombra di una radura di castagni: ecco dove si potrà ascoltare la poesia di Matteo Pelliti e la musica di MOTTA. Laureato in filosofia e autore di varie raccolte in versi, Pelliti dal 2005 collabora stabilmente con il cantautore Simone Cristicchi, assieme al quale ha firmato spettacoli, musical, racconti. Una poesia che riesce a coniugare la leggerezza dell’ironia con i grandi temi della contemporaneità, una scrittura ricca e frizzante che coinvolge i pubblici più diversi. Gli stessi che stanno seguendo il fortunatissimo tour di MOTTA, ex Criminal Jokers, in cui presenta il suo album d’esordio come solista La fine dei vent’anni. Un disco prodotto da un “artista amico” del festival, Riccardo Sinigallia, indimenticato protagonista di una delle scorse edizioni. La scoperta dell’età adulta raccontata in dieci brani che verranno presentati al festival in una versione più intima rispetto alla formazione classica che comprende alcuni tra i più interessanti musicisti della scena indie-rock italiana. Sarà poi possibile condividere tutti insieme, a fine serata, alcune ottime specialità preparate in casa offerte dalla Pro Loco di Castagno, realizzate con tutta la sapienza e l’amore dei custodi delle tradizioni.

Si torna in Emilia venerdì 5 agosto, quando sarà l’incantevole e curatissimo borgo La Scola, nel comune di Grizzana Morandi (BO), ad accogliere gli ospiti già dalle 18:30. Anche in questa occasione, come per la serata di apertura del festival a Tresana, gli spettatori sono i benvenuti prima di cena  per seguire una visita guidata del borgo condotta da Pietro, attivissimo e informatissimo abitante del borgo e animatore dell’Associazione La Sculca artefice di tante attività come  mostre, feste, visite e concerti. Verrà poi presentato alle 19, sotto un pergolato di vite, il libro di Timisoara Pinto Lavorare con lentezza (Squilibri editore). Giornalista e conduttrice radiofonica esperta di musica, Timisoara accompagnerà gli ascoltatori in un viaggio incredibile che narra l’incontro con Enzo Del Re, l’interprete più autentico di una stagione di impegno civile nella quale le canzoni di lotta e di protesta animavano il sogno di una società diversa. Su prenotazione sarò poi possibile mangiare le piadine e le tigelle montanare preparate dalla Sculca, per condividere un po’ di tempo all’ombra del cipresso millenario del borgo prima dell’incontro tra poeta e musicisti. Giovanni Nadiani, poeta romagnolo, ha del resto molta dimestichezza con la musica: per anni ha infatti presentato le sue letture con i ‘Faxtet’, gruppo jazz divertente e poliedrico. Autore eclettico, Nadiani ha all’attivo oltre a svariate raccolte di poesie, testi teatrali e cabarettistici. Il suo ultimo libro aNmarcurd (‘Non mi ricordo’), mantiene il dialetto romagnolo tipico della sua scrittura, ma si vela di un’ombra approfondendo il lato più riflessivo e volgendo lo sguardo alla memoria e alla morte.  Freschi di premio sono i musicisti che si avvicenderanno sul palco con il poeta, ovvero i TÊTES DE BOIS – targa Tenco come migliori interpreti nel 2015. I Têtes  de Bois hanno avuto questo riconoscimento per l’album realizzato  su Léo  Ferré,  dodici anni dopo  il fortunatissimo Ferré l’amore e la rivolta. Due anni trascorsi a pensare e a lavorare per le vie dei poeti, sui passi di Léo Ferré, uno dei grandi geni del  Novecento  che  i  Têtes  de  Bois  non  riescono  a  smettere  di  amare,  hanno  generato  un nuovo disco e una nuova avventura ‘Extra’ che molto ha a che fare con la poesia. Baudelaire, Verlaine, Rimbaud  musicati da  Ferré,  Ferré musicato  da  Ferré  e  Ferré  musicato e  ri-arrangiato dai Têtes de Bois.

Sabato 6 agosto, l’ultima serata del festival, sarà un ritorno in un luogo caro ai piccoli: il Centro Culturale Ippico di Scaialbengo nel Comune di Castel di Casio (BO). Qui, tra cavalli cresciuti e educati secondo uno stile rispettoso della loro natura e della necessità di libertà in spazi aperti, si incontreranno due donne brillanti e potenti. La poesia sarà affidata alla voce di Alessandra Racca, anche detta ‘la signora dei calzini’ – come recita il titolo del suo primo libro e quello del popolare blog da lei curato. Appassionata di poesia “ad alta voce”, fermamente decisa a dimostrare che la poesia non è una noia, è autrice di reading nei quali mescola poesia e teatralità a una dose massiccia di ironia e musica. La musica, in questa serata, sarà invece quella di Erica Mou, già acclamata con la sua Nella vasca da bagno del tempo presentata a San Remo qualche anno fa. A causa di un incidente fortuito subito lo scorso aprile, Erica ha avuto una lunga pausa che si è interrotta in luglio per riprendere l’incontro con il suo pubblico, un incontro rimodulato su nuove esigenze e nuova poetica. L’impossibilità di imbracciare la chitarra ha potenziato il suo rapporto con la voce e ha alimentato l’energia creativa e altre qualità musicali di Erica. Emerge la voglia di lavorare sulla voce, e di mettersi in accordo con altri strumenti, come le corde del violoncello. Come è nella  filosofia del festival, anche in questo caso è il limite  ad amplificare le potenzialità, è il confine che si fa soglia affacciata su una più ampia visione – di necessità virtù è proprio il titolo del tour estivo della cantautrice pugliese.

Anche quest’anno il festival presenterà una serie di creazioni originali e uniche da parte di vari artisti e artigiani che hanno realizzato opere specifiche per l’evento. Borse in lino e cotone cucite a mano, abbinate a portachiavi, astucci e papillon di stoffa imbottita che riprendono i colori dell’immagine di questa VI edizione sono la proposta di Carohandmade, una creativa della provincia di Livorno che ha preparato una serie ridottissima di questi oggetti unici il cui acquisto darà una parte dei proventi a sostegno del festival. Saranno presenti poi i taccuini cuciti a mano delle sarte di MaVà di Padova, che pensa, disegna, stampa e rilega  quaderni realizzati interamente con stoffe di recupero, che per il festival riportano i versi scelti come epigrafe-amuleto del festival e il logo dell’associazione SassiScritti. Altri quaderni, di altro materiale – ovvero carta e cartone assemblati in creativi collage  riportanti immagini, poesie, ritagli di giornale – saranno rilegati interamente a mano e presentati dalle ‘sarte utopiche’ e poetesse Manuela Dago e Francesca Genti di Sartoria Utopia di Milano. Per gli impervi campi è bene avere sempre l’occasione di trovare stuoini dove sedersi con più agio e ve li proponiamo nella veste cucita e realizzata da Integra, cooperativa sociale di Quarrata (PT), che ha realizzato per noi alcuni capi cuciti a mano, stuoini da pic nic che potrete usare per tutte le vostre gite in campagna. Candele colorate e originalissime realizzate a mano dalla poetessa Francesca Matteoni, oltre a acquerelli (cartoline e quadretti raffiguranti gli animali della foresta) dell’artista e sostenitrice del festival Margherita Cambi.

Ritroveremo poi i ‘miniquadri’ di Cifone, al secolo Simone De Berardinis, di cui il fumettista Maicol Rocchetti (il noto autore degli ‘Scarabocchi animati’ di maicol&mirko) ha detto “Cifone è uno dei più grandi artisti che mi è capitato di conoscere. La potenza dei suoi disegni, dei suoi modellini di cartone e delle sue foto ricordo è devastante. Cifone riesce a stupirmi da ormai trent’anni. Le sue cose sono sempre vere, giuste, entusiasmanti, commoventi. Soprattutto non sono mai una truffa”.  Ci saranno poi  alcuni esemplari di poster d’arte numerati, pezzi unici realizzati appositamente secondo le antiche modalità di lavoro tipografico dalla tipografia d’arte bolognese Anonima Impressori. Tutti questi specialissimi piccoli grandi oggetti verranno proposti al pubblico in una raccolta fondi a sostegno delle attività del festival.

Ad arricchire la rassegna sarà presente il bookshop de “LO SPAZIO di via dell’ospizio” di Pistoia e “L’ARCOBALENO” di Porretta Terme, oltre allo stand della straordinaria BIRRA DEL RENO, un prodotto artigianale, sano, gustoso, realizzato con i cereali delle aziende agricole della montagna e spinata fresca sul momento.

INFO

www.sassiscritti.wordpress.com

sassiscritti@gmail.com

fb: L’importanzaDiEsserePiccoli

mob:  349 5311807 | 333 5837354

 

ufficio stampa SassiScritti: Azzurra D’Agostino/Daria Balducelli mob. 349 5311807; azzurradagostino@gmail.com

L’importanza di essere piccoli. Poesia e musica dei borghi dell’appennino è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.


Cose turche

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L’ultima epidemia di vaiolo in Europa fu nel marzo 1972. Nei trent’anni precedenti si credeva che la malattia fosse stata sradicata, ma riapparve a Belgrado, allora capitale della Jugoslavia. Un trentacinquenne kosovaro era tornato dal suo pellegrinaggio alla Mecca e aveva portato il virus. 175 persone si ammalarono e 35 morirono.

L’ospedale dove furono sistemati i primi ammalati fu letteralmente sigillato. Le porte, le finestre e la fognatura, tutto venne sbarrato e intorno fu messo un cordone di poliziotti con l’ordine di sparare se qualcuno avesse provato a scappare.

In tutto il paese fu dichiarato lo stato di emergenza, fu introdotta la quarantena statale obbligatoria, limitato rigorosamente il movimento di tutti i suoi abitanti.

In un mese e mezzo furono vaccinati diciotto milioni di jugoslavi su una popolazione di ventun milioni di abitanti. L’epidemia finì dopo due mesi. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità lodò le autorità jugoslave per come avevano soppresso l’infezione.

Dopo giorni di agitazione tutto si calmò, e presto l’evento non fece più notizia, fu rimosso dalla nostra attenzione.

Si va in Turchia

Mi preparavo per un’estate al mare, dopo aver finito il primo anno di università. Ma all’inizio di luglio arrivò il “contrordine del compagno papà”: si va in Turchia.

Con nostro papà si facevano escursioni lavorative e viaggi educativi, per vedere e imparare, mai per divertimento. Tutti in famiglia trovarono qualche scusa per non andarci. Mi opposi anch’io, tirai fuori varie scuse, addirittura il fatto che c’era stata l’epidemia e che poteva essere pericoloso andare in Turchia.

La Jugoslavia era l’unico paese in cui il vaiolo era comparso, ma noi avevamo ugualmente la strana idea che era tutta colpa degli altri e che il focolaio dell’epidemia fosse altrove, “nel sud” o in Oriente.

L’epidemia era sconfitta, il pericolo non c’era più. Mi toccava proprio andare a Istanbul. La partenza fu fissata per metà luglio. Era il 1972.

Eravamo un gruppo strampalato con interessi diversi: papà, io, e una coppia di coniugi suoi amici. La donna ci andava perché voleva comprarsi dei gioielli, o meglio, qualche oggetto d’oro e una collana di perle, il marito l’accompagnava, mio papà voleva vedere un po’ di mondo, ed io mi trovavo lì per forza.

Jugoslavia-viaggio-in-TurchiaPiuttosto che andare a Istanbul, avrei preferito ascoltare “The Beatles” a Londra, passare insieme alle dive cinematografiche per via Veneto a Roma, passeggiare in minigonna per gli Champs Elysées a Parigi. L’Occidente piuttosto che l’Oriente era la meta preferita dei giovani di allora.

La macchina la guidava papà, l’unico in possesso della patente. Era una “Moskvich 408”, un’auto russa, orgoglio famigliare, la più grande in tutto vicinato. Gli altri, all’epoca, possedevano una Fiat “Cinquecento”, almeno due volte più piccola della nostra.

Papà non era un autista appassionato. La macchina la portava in giro, ogni tanto, “perché non si scaricasse la batteria”, diceva. Nel garage la copriva “per non farle prendere freddo”, scherzavamo in famiglia.

Prima di partire mi dettò i compiti: dovevo occuparmi delle gomme, controllare se erano abbastanza gonfie, tenere i vetri puliti, e fare attenzione alla segnaletica stradale. Quest’ultimo incarico mi lasciò un po’ perplessa. Non avevo la patente, non guidavo, non conoscevo il significato dei segnali stradali. Ma se lo diceva papà!

Il viaggio

Dalla Bosnia Erzegovina a Istanbul ci sono circa 1.200 chilometri. La strada passa per la Serbia, attraversa la Bulgaria ed entra in Turchia dalla città di Edirne. Oggi, un autista esperto la può fare, volendo, anche in un’unica tappa. Noi ci impiegammo due giorni e mezzo.

Lasciammo Sarajevo alle quattro del mattino. “Ci è andata bene”, dichiarò papà verso le nove, quando eravamo già vicino a Belgrado percorrendo strade quasi vuote.

Da Sarajevo ci sono due vie principali verso la Serbia. Una che attraversa la Bosnia orientale e va verso il fiume Drina, e l’altra che va in direzione nord, verso il fiume Sava. Noi andavamo verso nord, in direzione di Belgrado. Nella città di Orasje, attraversammo il ponte sul fiume Sava e poi prendemmo l’autostrada detta “Bratstvo i Jedinstvo” (della Fratellanza e Unità) (B&J).

All’epoca l’autostrada B&J era l’unica via moderna della Jugoslavia, anche se aveva solo due corsie, una per ogni direzione. Fu costruita tra gli anni Cinquanta e Sessanta e collegava la Jugoslavia da nord a sud, dal confine con l’Austria al confine con la Grecia.

La costruzione dell’autostrada B&J fu un’opera epica. Vi parteciparono più di trecentomila giovani volontari da tutte le parti del paese e tanti stranieri. Per molti fu anche una sorta di scuola di vita o per la vita. Dopo otto ore di lavoro venivano organizzati vari corsi, anche per analfabeti, e molti ottennero il diploma che cambiò loro la vita.

L’autostrada della Fratellanza e Unità è la via più breve che collega l’Europa occidentale e il Medio Oriente. Negli anni Sessanta ebbe inizio il grande spostamento stagionale dei gastarbeiter, che in tedesco vuol dire “lavoratori ospiti”. All’epoca i più numerosi gastarbeiter in Europa erano turchi, italiani, spagnoli e jugoslavi.

Durante i mesi estivi, per l’autostrada “Bratstvo i Jedinstvo” passavano migliaia di macchine, in entrambe le direzioni. I gastarbeiter turchi avevano pochi giorni di vacanza, tanta strada da percorrere, guidavano senza sosta, giorno e notte, e molti trovavano anche la morte su quelle corsie. Su ambedue i lati della strada erano piantati dei platani, per rompere il paesaggio monotono della pianura pannonica, ma gli alberi erano causa anche di molti incidenti mortali.

Dovettero passare molti anni ed esserci decine di morti, prima che qualcuno si decidesse a tagliare gli alberi “mortali” che fiancheggiavano l’autostrada.

Dopo aver pernottato a Belgrado, il secondo giorno proseguimmo a sud, verso il confine con la Bulgaria. La strada segue il fiume Morava e passa per i distretti della Šumadija e di Pomoravlje. Un paesaggio bellissimo che ricorda la Toscana, tanto verde, con le colline basse, la terra fertile. Più a sud il panorama cambia, le morbide colline lasciano il posto alla Gola di Sićevo (Sićevačka Klisura).

Circa 250 chilometri più a sud c’è la città di Niš. Sotto l’impero ottomano il suo nome era Naissus (“Città delle ninfe”). Là nacque nel 271 a.C. l’imperatore romano Costantino I che costruì la nuova residenza imperiale di Bisanzio e la chiamò Nuova Roma. In suo onore i Romani chiamarono questa città Costantinopoli, l’odierna Istanbul, la nostra meta.

A Niš volevamo vedere un monumento unico nel suo design, la Torre dei Teschi (Ćele kula) che racchiude al suo interno dei teschi umani. Fu fatta nel periodo degli Ottomani, con 950 teschi dei serbi ribelli, come monito a tutti quelli che pensavano di opporsi all’occupazione. Oggi sono rimasti incastonati nella pietra solo una cinquantina di teschi, ma quel macabro monumento fa ugualmente impressione.

L’ultima città serba prima di passare in Bulgaria è Pirot. Da cinquecento anni è il centro della produzione di tappeti tradizionali. I kilim di Pirot, apprezzati per la loro bellezza, varietà dei colori e motivi, sono fatti di lana, sono molto leggeri e resistenti.

Noi andavano in Turchia per comprare gioielli e vestiti da pochi soldi, mentre gli antiquari turchi viaggiavano per la Jugoslavia e compravano, a buon prezzo, i tappeti antichi fatti a Pirot, che noi vendevamo volentieri perché ci piacevano di più le moquette moderne.

Tra Serbia e Bulgaria il confine non è solo amministrativo. Da una parte all’altra della frontiera il paesaggio cambia come se fosse tagliato con il coltello. In Serbia, prima del confine, la strada spacca le montagne, s’insinua con fatica per il terreno duro, avanza quasi a zig-zag, si perde in tante gallerie, è pericolosa, un attimo di distrazione e può essere fatale.

In Bulgaria la strada attraversa la pianura, va dritta e tranquilla. Su entrambi i lati è affiancata da alberi di mele, ordinati, con i tronchi imbiancati, che danno un senso di ordine e pulizia. Dietro gli alberi, si estendono a perdita d’occhio campi coltivati di grano e di mais. In uno di questi dormimmo la seconda notte del nostro viaggio.

Ci fermammo sul bordo della strada per mangiare. Papà dichiarò che era stanco e che non se la sentiva di proseguire. Non sapevamo quanto fossimo distanti dalla città più vicina. La signora brontolava sottovoce, suo marito stava zitto guardando davanti a sé, io fissavo una mela dell’albero e stavo per afferrarla.

Papà intuì le mie intenzioni e, senza guardarmi, mi intimò: “Non ti azzardare!”. Rispettava ancora gli ordini dei partigiani che, secondo i racconti, tenevano così tanto alla disciplina che addirittura fucilavano quelli che prendevano la frutta dagli alberi altrui.

La mattina seguente, il terzo giorno del viaggio, ci svegliammo presto, tutti con la schiena a pezzi, stanchi, arrabbiati, con i vestiti stropicciati. Nessuno guardava l’altro, né proferiva parola.

Gambe nude

Da lì in breve varcammo la frontiera tra la Bulgaria e la Turchia. A Edirne, la prima città turca dopo il confine, facemmo una sosta per bere un bel caffè. Nel centro trovammo un bar con la terrazza. Uscimmo dall’auto.

Esaminavo, come mi aveva detto papà, le gomme. Battevo il piede contro la gomma (come avevo visto fare da altri, anche se non sapevo perché e che cosa aspettarmi), e mi accorsi che qualcosa non andava. Alzai lo sguardo e vidi che tutti gli avventori del bar, i maschi, erano ammassati sulla ringhiera e ci guardavano.

Confusi, ci ispezionammo anche noi per un attimo. Fu la signora a capire per prima cosa c’era che non andava. Indossavo, secondo la moda, un paio di pantaloncini corti e attillati, gli “hot pants”, per cui i maschi, dal bar, erano tutti intenti a fissare le gambe di una ragazza poco vestita per le abitudini locali.

“Entra, si parte”, ordinò papà.

I turchi si meravigliavano delle gambe esibite, mentre io mi stupivo nel vedere i carri armati, all’entrata a Istanbul con i cannoni puntati verso la strada (un anno prima l’esercito turco aveva preso il potere con un putsch militare). Io mi stupivo nel vedere le donne paesane vestite in una sorta di doppia larga gonna nera che fungeva anche da copricapo ribaltando uno dei due strati di dietro, nel vedere i turchi bere il tè, piuttosto che il “caffè turco”, come noi bosniaci, dei numerosi monumenti, grandi e importanti che mi facevano capire quanto piccolo e insignificante fosse il mio Paese.

Arrivammo a Istanbul nel primo pomeriggio. Papà accostò la macchina sul bordo della strada per chiedere indicazioni sulla pensioncina che avevamo prenotato. Ferma il primo passante, gli parla in tedesco, quello non capisce, prova con il francese, niente. Frustrato, papà si gira verso di noi e dice in serbo-croato: “Questo qui non capisce nulla”. A quel punto il turco si mette a ridere e, nella nostra lingua, il serbo-croato, ci chiede se eravamo jugoslavi.

Era un discendente dei bosniaci emigrati in Turchia all’inizio del diciannovesimo secolo.

Oggi in Turchia ci sono almeno due milioni di persone di origine bosniaca. Dalla Bosnia Erzegovina i musulmani scapparono dopo la disfatta dell’impero ottomano quando la Bosnia Erzegovina passò sotto il protettorato dell’Impero Austro Ungarico.

I primi bosniaci scappavano perché non volevano stare sotto un governo non musulmano, altri perché temevano per la propria vita, oppure erano convinti che in Turchia avrebbero potuto preservare la propria ricchezza.

Dopo le guerre balcaniche emigrarono anche i musulmani da Sangiaccato, Kosovo e Macedonia. L’esodo continuò per cent’anni. Non tutti lasciavano la casa di propria volontà. La migrazione dei musulmani fu incoraggiata con la politica statale, con la forza, le minacce e le misure amministrative che, secondo i documenti ufficiali, dovevano rendere la vita dei musulmani impossibile, per cui l’emigrazione veniva vista come l’unica soluzione per loro.

In Turchia dovevano cambiare il cognome, ma molti avevano conservato anche il cognome bosniaco, la lingua e le abitudini. Ci sono alcuni villaggi, in Turchia, popolati prevalentemente dai discendenti dei bosniaci dove, dopo un secolo dal loro arrivo, ancora oggi si parla serbo-croato.

Un turco-bosniaco

Il nostro turco-bosniaco apparteneva alla terza generazione dei bosniaci espatriati dalla città della Bosnia del nord, Banja Luka. Nato a Istanbul parlava ottimamente la nostra lingua, con un accento forte e utilizzando alcune parole arcaiche. Era entusiasta dell’incontro casuale, era molto cordiale, gentilissimo, ci dava pacche sulle spalle e voleva invitarci a casa sua.

Papà, insospettito di questo entusiasmo secondo lui sproporzionato, s’irrigidì, diventò molto formale e pronunciò una serie di risoluti NO: “No, non se ne parla neanche”, “No, grazie”, “No, abbiamo già prenotato”, “No, vedremo”, “No, no, no, forse”.

Quel poveretto, deluso, ci guardava come un bambino che non capisce perché gli proibiscono di fare una cosa innocua. Ci accompagnò all’albergo, lasciò un pezzo di carta con l’indirizzo e il numero di telefono, rinnovò l’invito di andare a casa sua “almeno per una cena” e ci salutò.

Nella camera dell’albergo papà, come prima cosa, buttò nel cestino la carta con l’indirizzo del turco e si pulì le mani come se fossero contaminate, dicendo che “con gli stranieri non si sa mai… chissà chi era quello… meglio stare alla larga dagli sconosciuti… ci sono imbroglioni, ladri…” etc.

Papà mi portava in giro per i posti storici e i musei di Istanbul tenendomi per il braccio sopra il gomito come fanno i poliziotti quando accompagnano le persone arrestate. Di sera, in albergo, ci vedevamo con i compagni di viaggio, la signora mi mostrava le cose che aveva comprato, e io descrivevo le meraviglie che avevamo visto. Invano: a parte le compere, il resto l’annoiava.

Il terzo giorno a Istanbul, tornando in albergo, ci trovammo di fronte il “nostro turco”. Ero contenta di rivederlo, i coniugi pure. Papà, invece, “freddo come uno spritz”, aspettava zitto, presumo delle spiegazioni. Il “nostro turco” voleva invitarci a cena a casa sua. “Sì!”, rispondemmo noi tre all’unisono. A quel punto papà non poteva opporsi, ma era chiaro che l’idea non gli piacesse. Per tutta la serata ci fecero domande su come si vivesse in Jugoslavia, se fossimo liberi di viaggiare, se possedessimo macchine private, case, il telefono, qual fosse la situazione lavorativa, se il regime comunista fosse pericoloso, se si potesse visitare la Jugoslavia e poi poter tornare a casa propria. C’erano le moschee? La religione, era proibita?

Edhem, così si chiamava il “nostro turco”, viveva con i genitori e i fratelli in una bellissima casa affacciata sul Bosforo. Ci accolsero tutti affettuosamente. Si cenava nel giardino con una meravigliosa vista sul mare. Uomini e donne insieme. Si parlava nella nostra lingua.

Ci divertivano le loro domande. Sembravano quelle che fanno i bambini su cose e fatti ovvi. “Certo che si può visitare… è ovvio che abbiamo il telefono… naturalmente che nessuno vi ferma per forza… macché regime, da noi si vive, lavora e viaggia liberalmente”, rispondevamo noi.

Verso la fine della serata, Edhem timidamente chiese: “Posso venire con voi? Mi piacerebbe visitare la Jugoslavia, ne ho sentito tanto parlare ma non ci sono mai stato.”

Tutti noi, insieme ai padroni di casa, guardavamo mio papà aspettando il suo giudizio. Seguì un attimo di silenzio, troppo lungo, a mio avviso.

Mi piaceva il “nostro turco” e mi piaceva l’idea di portarlo in Jugoslavia con noi, di fargli vedere il nostro paese, le nostre città, il nostro modo di vivere.

Fissavo papà, anzi lo supplicavo con lo sguardo.

“Ma certo”, disse papà sorridendo, come se non avesse mai avuto alcun dubbio sul “nostro turco” fin dall’inizio.

Dopo cinque giorni a Istanbul eravamo sulla strada del ritorno. Il “nostro turco” stava seduto dietro tra i due coniugi. Contento, sorridente, disponibile, di buon umore. Canticchiava.

E canticchiò instancabilmente, per due giorni, quanto durò il nostro viaggio di ritorno. Da lui, sentii per la prima volta l’antica canzone popolare bosniaca “Put putuje Latif-aga”, che parla di un abitante di Banja Luka che sta per partire per un lungo viaggio, saluta tutti e non sa se potrà mai far ritorno.

Articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

Cose turche è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Radio Days

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Schermata 2017-05-06 alle 19.46.39Megahertz stralunati e frequenze postdigitali

di

Mirco Salvadori

Febbraio 1976 – Diretta per l’inaugurazione di Radio Alice

Buongiorno. Lunedì 26 gennaio. Ieri nevicava. Stanotte c’era la luna e il 31 sarà piena. Siamo sotto il segno dell’acquario e i nati in questo giorno sono tendenzialmente azzurri, spiccata tendenza agli scioperi felici…E qui siamo sempre a radio Alice, nella nostra tana piena di esseri strani. Un quantitativo di megaertz di tipo acquario. Occhi un po’ stralunati e i nostri impianti sono sperimentali quanto noi.

…a seguire White Rabbit dei Jefferson Airplaine

 

 

foto – archivio storico Radio Alice

foto – archivio storico Radio Alice

 

Aprile 2017 – Live streaming USMA Radio

Guardo nello schermo del portatile, oltre il logo dell’emittente dell’Università degli Studi di San Marino scorgo le immagini filmate da Man Ray mentre il live streaming mi propone David Sylvian che dialoga con la tromba di Arve Henriksen. Navigo in assenza di peso e agisco creando multimedialità. Clicco sul podcast e alle diverse voci che già riempiono il mio percorso radiofonico si unisce quella di Bruno Munari in podcast, durante una sua lezione di design. Al pari di un dj mixo ciò che la rete mi rimanda, rimescolo le carte creando nuove realtà d’ascolto, artistiche ed invisibili strutture sonore che riempiono lo spazio fisico della stanza e quello indefinito del mio pensiero.

 

foto – Wilson Santinelli

foto – Wilson Santinelli

 

1976 – 2017, come si è evoluta la radio nel corso di questo lungo periodo? Questa breve disamina tenterà di descrivere il lungo percorso che ha trasformato la rivoluzionaria spontaneità di alcuni sperimentatori underground in efficace ricerca di contemporaneità espressiva. Lo spunto giunge da un incontro svoltosi nelle colline marchigiane, all’interno della residenza artistica SPRING ideata e curata da House Creative Agency nella cornice di Villa Tereze Holiday House and Creative Hub. Una giornata nella quale il compositore e musicista, regista e autore Roberto Paci Dalò, ha presentato il progetto USMA Radio di cui è direttore.

 

foto – Wilson Santinelli

foto – Wilson Santinelli

 

Ho scelto di scrivere queste poche righe immergendomi nell’ascolto della musica, una materia plasmabile, in continuo cambiamento, da sempre anima portante del palinsesto radiofonico. Ho deciso di farmi accompagnare dal suono per il mio costante rapporto con un elemento che radiofonicamente mi ha accompagnato per più decenni e tuttora è parte integrante del mio percorso. Userò musica e suono come mezzi attraverso i quali tentare un breve viaggio dentro il mondo delle frequenze modulate e del segnale in streaming.

 

foto – Wilson Santinelli

foto – Wilson Santinelli

 

White Rabbit: al tempo stesso nulla di più lisergico e materiale, testimone di un periodo di eccezionale fermento creativo. Un’emittente in prima linea come Radio Alice non poteva non iniziare le sue trasmissioni, durate ahimè ben poco, con un brano che non avesse lo stesso tenore. Mettersi davanti al microfono di una radio libera negli anni ’70 significava provocare, smuovere l’apatia e il perbenismo diffusi. Erano periodi tragicamente semplici, bastava girare di domenica in eskimo, indossando i soliti jeans sdruciti per sentire di appartenere ad un’altra realtà, quella alternativa, la stessa che si collegava costantemente con la propria piccola emittente di riferimento per ascoltare musica impossibile da trovare altrove. Il rock come colonna sonora costante con la quale imbastire tavole rotonde e discussioni politiche, il rock alternativo come unico comune denominatore per riconoscersi ed accettarsi, fidandosi l’uno dell’altro. Forse una delle poche nobili usanze tramandate nel corso del tempo: dimmi che ascolti e saprò chi sei.

Per decenni il mezzo radiofonico è stato usato con queste modalità, ciò che cambiava era la musica. Con il tempo però il rock subisce un mutamento, si trasforma in classico intrattenimento omologato. La voce suprema dell’antagonismo culturale di matrice popolare viene abbandonata dai più attenti ricercatori radiofonici che abbracciano altre forme sonore, in grado di rappresentare in modo più contemporaneo la continua e diffusa volontà di appartenenza altra. Nascono nuove trasmissioni sempre più specializzate: punk, new-wave, post-punk, indie-rock, industrial, programmi dedicati al suono elettronico e al suono di ricerca. Decine di nuovi segnali musicali iniziarono a fluire dagli altoparlanti di emittenti seguite da un pubblico che richiede sempre maggiori informazioni, ascoltatori che hanno sete di novità. La spinta data dal bisogno di controcultura stava scemando, l’esperienza dell’improvvisazione radiofonica si era trasformata in altro, l’ascolto si faceva più esigente e la conoscenza della materia trasmessa diventava basilare per un’emissione che fosse realmente degna di questo nome. Questo uno dei motivi per cui gran parte dei critici, degli artisti o dei curatori che si occupano di musica sulle pagine dei giornali e in rete, hanno avuto o hanno tutt’ora esperienza radiofonica.


foto – Wilson Santinelli

foto – Wilson Santinelli

 

Viviamo in un’epoca che solo in rari casi permette alla creatività di svilupparsi dentro canali non massificati. Ogni nuova esperienza artistica appartenente a qualche genere di sottocultura musicale appetibile viene subito trasfigurata e diffusa in modo virale attraverso milioni di clic. Un fenomeno che mette non poco in crisi coloro che da sempre ricercano unicità e possibile innovazione nell’ascolto. Un problema che porta con sé mancanza di produzione musicale intelligente, che sappia sorprendere. Da par loro, gran parte delle emittenti ‘antagoniste’ ancora in vita non riescono a sciogliere questo nodo, seguono pedissequamente un modello tardo-indie d’antan non riuscendo ad attraversare quella soglia che conduce dalla musica al suono.

Esistono però delle realtà che hanno compreso l’importanza di questo passaggio, iniziando a sperimentare un uso radiofonico non convenzionale.

Mi viene da citare Radio Papesse di Firenze, patrocinata dall’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani, una web radio nella quale le emissioni si colorano di musica convenzionale ma anche e soprattutto di suono, quello dei talks e degli avvenimenti trasmessi in streaming o delle registrazioni dei soundscapers che collaborano con la webradio fiorentina. L’uso del mezzo radiofonico diventa ancor più ‘trasgressivo’ nel caso di USMA Radio, l’emittente dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino: “La radio non è solo la scatola dalla quale escono i suoni e le voci ma la radio è lo spazio, per questo abbiamo ideato un’emittente che è composta da una serie di cose non direttamente associabili all’idea che tutti abbiamo della radiofonia…”, così esordisce Paci Dalò nell’introduzione al talk marchigiano.

 

foto – Wilson Santinelli

foto – Wilson Santinelli

 

L’idea che sta alla base del progetto USMA Radio, così come di altre emittenti innovative sparse nel globo, si rifà al principio base della missione radiofonica, ovvero la trasmissione. Un’idea se vogliamo condivisa dal resto dell’antico mondo dei megahertz ma completamente mutata nella narrazione e nella messa in scena. Si parte dal concetto dell’universalità radiofonica: tutto può essere trasmesso, siamo tutti transmitters, la radio non è più un luogo preciso ma diventa il non luogo nel quale poter ascoltare suono e trasmetterlo. Con le e nuove tecnologie possiamo ‘fare radio’ da qualsiasi luogo attraverso l’uso di devices un tempo impensabili. Esistono applicazioni che permettono di creare e inviare trasmissioni attraverso un semplice smartphone, in questo modo si possono tessere reti di scambio a livello globale. Ecco quindi che la famosa barriera tra suono e musica viene abbattuta, oserei dire superata. Quel ‘transmission’ di curtisiana memoria che invitava a danzare con la radio, viene terribilmente ridimensionato dalle potenzialità sonore di un universo in pieno movimento, registrato magari a Mumbai e ascoltato in Groenlandia, in tempo reale. Il paesaggio sonoro, il soundscape stesso entra prepotentemente in gioco e ci aiuta a meglio comprendere i cambiamenti nello spazio che ci circonda.

In Italia esiste una rete di artisti che hanno deciso di mappare e campionare il territorio della penisola, questa associazione fa capo all’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori che si prefigge di promuovere la cultura del paesaggio sonoro usando i risultati ottenuti come base di scambio culturale tra varie realtà territoriali, compresa USMA Radio, attraverso la messa in onda delle performances sonore dei vari soundscapers.

“Accostarsi ad un territorio attraverso la pratica dell’ascolto implica una profonda immersione nelle situazioni, negli eventi, nelle storie, negli elementi che le raccontano. E’ un processo che richiama modalità di sentire che invitano ad espandere la ‘percezione del suono, includendo il suo continuum spazio-temporale e facendo esperienza della sua vastità e della sua complessità nella maniera più ampia possibile’…”. Così Pauline Oliveiros, teorica e storica ricercatrice musicale, fautrice del deep listening qui citata da Leandro Pisano nel suo testo dedicato agli spazi e ai territori nell’epoca postdigitale, quel Nuove Geografie del Suono – Meltemi Edizioni 2017, da molti adottato come testo guida per la comprensione del fenomeno culturale legato al mondo del field recording e alla sua conseguente elaborazione sonora.

Ecco quindi che la radio torna a svolgere il suo primario compito di informazione, aiuta a ‘sentire’ quanto ancora non è diffusamente conosciuto. Seleziona ascoltatori necessariamente e volutamente altri, quella minima parte di pubblico che inizia a percepire stanchezza nel consueto ascolto musicale, ma anche coloro che amano indagare nello spazio sconfinato che ancora si cela dietro i semplici circuiti di una radiolina a transistor.

 

Link Utili

http://radiopapesse.org

http://www.usmaradio.org/

http://www.archivioitalianopaesaggisonori.it/

http://giardini.sm/

http://www.leandropisano.it

http://www.terezehouse.com/

 

 

 

 

 

 

 

 

Radio Days è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Radio days

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London Still Calling

di

Mirco Salvadori

 

 

 

 

 

Lascio la Laguna, mi inoltro nella provincia vicentina e raggiungo Rosà, un piccolo paese alle porte di Bassano del Grappa.

Con un breve reading, immergendomi in un luogo un tempo famigliare, reso alieno dai tanti anni trascorsi lontano dalle strobo, dai banchi mixer e dal danzante sudore, aprirò la porta al passato. Sarò cerimoniere di un rito antico, nero come il vinile che dona il nome alla mia storica meta. Mentre viaggio seleziono i miei pensieri, apro i file dei ricordi ed estraggo un momento zippato e catalogato da decine di anni nel profondo dei miei scassati ingranaggi mnemònici.

Mi ritrovo a percorrere lo stesso tragitto in vaporetto: San Marcuola/Piazzale Roma, appostato nell’unico spazio vitale disponibile di fianco alla cabina di pilotaggio, lí dove nessuno puó travolgerti con l’insulto del braccio teso che sorregge una lancia munita di offensivo cellulare innestato sulla punta, a due centimetri dal tuo volto.

 

 

 

Delle rimembranze: inverno 1979. I file man mano si aprono e torno a quel giorno di 37 anni or sono. Ricordo bene cosa tenevo in mano durante quel tragitto in vaporetto. Lo tenevo bene in vista quel disco con la copertina che urlava London Calling! La usavo al pari di uno striscione durante una delle tante manifestazioni che normalmente frequentavo, ci credevo. Ostentavo la reliquia sfidando chiunque a guardarla, anche solo di sbieco. Chi osava soffermare lo sguardo sulla foto dell’incazzato Paul Simonon in azione riceveva il mio sguardo di disprezzo: che ti guardi, mezze maniche! Lo tenevo stretto sul petto, ero l’unico su quel mezzo pubblico che sapesse cos’era rivolta, rabbia, voglia di rock. Avevo 23 anni e mi sentivo fiero, giovane, sicuro. Quello dell’imberbe stupidità era un territorio a me sconosciuto.

 

 

Guido mentre l’insana e improbabile melodia degli Autechre mi aiuta a rafforzare con tagliente lucidità la visione che torna a quel giorno, suggerendomi sommessamente un pensiero: era tutta una finzione, per me allora era impossibile comprenderlo ma tutta quella boria nascondeva solo una veritá; ero già vecchio e in ritardo. In ritardo sul punk, sull’indie rock , sulla rivoluzione. Ero un vecchio ventitrenne inquieto che stringeva tra le mani un doppio lp per giovani incazzati la cui copertina rendeva omaggio ad un ancor più vecchio e morto eroe, sommerso di lustrini e frange nei suoi bianchi completi da bianco d’America. Nel 1979 la mia consapevolezza era decisamente basica.

 

 

 

Parcheggio ed entro, scendo quegli scalini un tempo superati con fatica cercando di trattenere un carro con sopra due pesantissime casse cariche di dischi. Penetro lungo la navata di questo vecchio tempio dove ben poco è cambiato o forse tutto, chissà. Dovrei chiederlo al buon Lallo, sempre seduto a guardia della sua creatura nel botteghino all’entrata ma lo trovo appoggiato al banco del bar che mi guarda curioso: quando ho sentito il tuo nome mi son chiesto se eri veramente tu quel Salvadori che avrebbe letto stasera, lo stesso della radio, quello delle feste dark, hai idea quanti anni sono trascorsi? Un sorriso gli circonda il viso, un sorriso nel quale mi perdo per qualche istante, avvolto nella densa nebbia della commozione.

 

 

 

La voglia di tornare nel buio quadrato, dietro al banco mixer mi assale, una voglia mista di curiosità malata e pesante consapevolezza del tempo trascorso. Seguo l’insostituibile guida nel limbo di una discoteca un tempo mio paradiso privato. Charlie Out Cazale, divino Virgilio che ancora vigila con aria disincantata sul giovane girone danzante, lo fa dall’alto del suo mai esausto antico elettrodomestico che usa la malìa del Tango come gas refrigerante. Tutto è scomparso, non esiste più la confusione d’un tempo: i dischi dimenticati dal resident dj di turno, il paio di cuffie rotte, i mille bicchieri di plastica testimoni dei mille drinks bevuti, il grande mixer e gli insostituibili giradischi. Tutto è volato via assieme alle stagioni che si sono ininterrottamente alternate per oltre trent’anni. Il furioso vento giunto da un futuro allora remoto ha portato con sé la fredda professionalità di due lettori cd, miseri immobili simulacri rilucenti spie che brillano intermittenti, come invisibili lucciole sospese nel calare della notte.

 

Lascio la postazione di mixaggio e torno al bar mentre i giovani volti d’un tempo, trasformati dallo scorrere degli anni incrociano il mio sguardo. Mi appoggio al bancone stringendo in mano un ritrovato Cuba libre, un tempo il primo di una lunga serie che al pari dei catarifrangenti lungo l’autostrada, segnavano il percorso da qui fino all’alba. Tra poco salirò sul piccolo palco di fronte alla pista da ballo, con il mio raffazzonato reading aprirò le porte al rock, quello da anni elegantemente indossato da Renato Abate in arte Garbo.

 

Ci siamo salutati poco fa al ristorante, ritrovati dopo un primo incontro veloce a Verona qualche anno addietro. Guardo il buon vecchio new waver cercando di immaginare cosa possono vedere i suoi occhi, dietro quelle ampie lenti. Non ci conosciamo affatto, se non per via di qualche recensione e intervista dedicate a lui e ai suoi dischi, i pochi ancora rimasti di un’era per me lontana, i pochi che ancora riesco ad ascoltare senza cambiare traccia dopo il primo riff. Non siamo in amicizia ma sento di condividere la stessa provenienza. Apparteniamo al medesimo mondo antico, un luogo che ho lasciato tempo fa, lo stesso che ancora lo accoglie e forse protegge.

 

Passo al secondo drink ed entro nel backstage scambiando qualche parola di rito; sono un ospite di passaggio, viandante senza amici nè legami giunto da un luogo lontano, anima in pena che si fermerà il tempo necessario a capire dove realmente si trova. Ora mi nutro di strane sillogi che odorano di silicio, penetro nei circuiti indefiniti dei numeri e galleggio in assenza di peso nello spazio che si crea tra il silenzio e il suono che produce. Al ritmo delle pelli preferisco quello dei tasti del laptop, allo scalmanato fragore elettrico abdico, nascondendo le tracce della mia fuga dentro scie di purezza elettronica. Sono un ascoltatore che corre costantemente avanti, felice di perdersi in luoghi nei quali sentirsi ancora capaci di attendere con stupore lo scorrere della puntina sul prossimo solco.

 

 

Alberto Milani, bravissimo chitarrista del gruppo di supporto inizia il suo improvvisato carpet sonoro sul quale tra poco inizierò a stendere la mia storia colorata di nero, nero fitto come il colore di quei capelli e di quelle unghie che ancora abitano il mio ricordo. Sarà un breve racconto per celebrare gli anni del fulgore oscuro, quel lasso di tempo racchiuso nel trattino che unisce il post al punk. Una recita più volte interpretata nella vita e sul foglio di carta:

 

Agli Amici che ci hanno lasciato.

Ai new wavers con i quali ho condiviso lunghi tratti di cammino.

Alle donne e agli uomini di oggi che, un disco nero corvino tra le mani, sorridono ancora inquieti ma colmi di esperienza e di Vita …

 

Leggo mentre la mano serra il microfono in una morsa dolorosa, leggo mentre la chitarra incalza il mio raccontare, leggo davanti ad un mare in tempesta che spuma e si infrange contro il banco del bar, un oceano di ondate che urlano e ridono, flutti incontrollabili di giovani vite distanti anni luce da quanto sto volontariamente disperdendo attraverso l’amplificazione del mio raccontare. Forse qualcuno anche mi percepisce, penso mentre leggo, qualcuno che rispetta le regole dell’ascolto, qualcuno che ha vissuto con me quel periodo, qualcuno che c’era e comprende la lingua con la quale mi esprimo. Il basso incalza la chitarra, la mia storia volge alla fine mente goffamente mi inchino davanti al lieve e sempre atteso applauso.

 

Serata di full immersion nel suono d’un tempo, questa. Eccolo lì, in pieno open act a precedere con la sua band il live di Garbo. Il ricordo del Valente amante dell’art decò mi coglie di sorpresa. Un altro superstite di ere remote trascorse seduti sugli scalini della Fenice. Punk, new wavers, new romantics, freaks e ragazzi comuni seduti tutti sugli scalini di un gran teatro delle arti nel quale solo pochi riusciranno in seguito ad entrare. Eccolo interpretare il ruolo del frontman suo malgrado intonso, candido nella sua assenza di alcol e droghe che lo trasformano in attore tenero ed elegantemente educato, dietro un microfono abituato all’urlo sporco di rabbia.

 

La sua intenzione di morir giovane è meravigliosamente fallita, è riuscito ad indispettire il tormento che forse ancora alberga lì dentro, nelle sue più intime fibre. Un fidato cubino pericolosamente appoggiato sul synth alla sua destra, il principe dell’avanguardia musicale italiana anni ’80, colorata di inconfondibile elettro-rock, si offre al suo pubblico. Lo fa naturalmente sapendo di avere alle spalle una band decisamente preparata e affiatata. Garbo distribuisce le sue ultime manciate di dolci rêveries e testi impossibili da scordare. Da abile frequentatore di palchi sa come ammaliare il suo pubblico giocando la carta del paternalismo da viveur sfoderato con furba ironia nelle lunghe pause tra una canzone e l’altra. Avvolge e affascina le ragazze degli anni ’80 che lo imitano cantando a squarciagola tutte le sue canzoni, scende dal palco e con timbro di voce inconfondibile coinvolge una platea con la quale interagisce e si diverte. Siamo ben lontani dall’icona androgina, lontani da Berlino e da quella classica domanda che tutti ora iniziano a porgli. Lontani dalla morte e dalla fredda determinazione romantica di un’epoca che si prendeva troppo sul serio. Assisto in disparte alla performance di un grande entertainer che non riesco più a collocare nel tempo, le immagini mi giungono al rallentatore. Dove siamo esattamente ora tu ed io Renato? Che ci facciamo in questo luogo che, diciamocelo, non ci appartiene più. Alza il volume, sintonizzati su Radioclima e aiutami a fermare questa noia che va, aiutami a capire una volta per tutte quanti anni ho, quanto pesa il tempo che ci portiamo appresso. Il rock preme, aumenta il suo battito e sfonda la barriera di contraddizioni che mi tiene in bilico tra i due mondi nei quali da sempre mi dibatto. Mi unisco al coro imprimendo al mio comportamento un’improvvisa e non prevista accelerazione mainstream. Ora canto, canto con te Renato e chi se ne fotte se qualcuno passando mi vedrà intonare “…e dentro a quel letto mi sento protetto dal tempo che esplode e chiede di me!”.

 

 

Mi avvio verso l’uscita girando le spalle a quell’attimo di tempo ancora sospeso sulle note di On The Radio, un omaggio al Bianco Duca. Una canzone nata nella Berlino…dove tutto andava bene. Parole che profumano di radio e di stelle tra le quali Bowie ora si muove con tutta l’agilità dell’esperto astronauta. Avvio il motore e guardando di sfuggita lo specchio retrovisore scorgo l’espressione sicura di uno sguardo convinto; Londra chiama e lo farà per molto tempo ancora.

 

CREDITI FOTOGRAFICI – LUCREZIA PEGORARO               **esclusa la foto 1

 

Radio days è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Radio days: Gigi Masin

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Loops and Clouds

di Mirco Salvadori

 

L’entrata dell’edificio si avvicina. Misuro i passi mentre i sensi rimangono avvolti nella lenta vibrazione del subwoofer colpevole di espandere oltremodo i droni danzanti nelle cuffie. Il semplice tragitto lungo un viale in dolce salita si trasforma in passaggio estatico. Il display del mio dispositivo indica che l’attenzione è satura. Deeper Inside recita, premunendosi di informarmi che ora siamo all’ottava stazione d’ascolto: Arriving Here And Now. Informazioni indicizzate, forse. L’infinito viaggio assieme a Florian Becker sembra sia giunto a termine. Il sound artist tedesco mi conduce fin sulla soglia, abituando i miei sensi a vagare lungo invisibili strutture architettoniche create nello spazio indefinito, quasi presagisse ciò che i miei occhi vedranno.

Mi trovo in una Cattedrale che emana fragranza primordiale di legno e suono. È uno spazio nel quale si espone la spontaneità dell’arte musicale immersa nella complessità di una creazione architettonica che incita alla perdita dei punti cardinali a favore del viaggio indefinito. Mi ritrovo innanzi ad un oceano di suono custodito all’interno dello Studio Venezia, nel Padiglione Francia della Biennale 2017. L’inconfondibile timbro del silenzio è la prima delle molteplici percezioni che si avvertono entrando nel padiglione. Al pari di Alice scivolo lungo un tunnel che non ha una forma apparente, avanzo passo dopo passo attraversando le sale di uno dei molteplici Merzbau, il quinto forse, l’opera artistica totale, colei che riesce a riunire e far dialogare, nella sua apparente e visionaria architettura, i linguaggi dell’arte. Se l’eroina del racconto di Carrol intravvedeva appesi al muro scaffali di libri e quadri e carte geografiche, qui il tripudio della visione è dato dal numero elevato di strumenti musicali posizionati a coprir pareti e palchi, esposti come opere multimediali, preziosi oggetti dalle fattezze (s)conosciute, sapienti interpreti da sempre in grado di stupire.

“L’architettura può essere un limite per l’arte, la musica può essere un altro limite ma all’interno di questi limiti qualcosa può esistere, qualcosa di diverso dalla semplice arte visiva. Non si tratta di aggiungere campi diversi ma di moltiplicarli: il suono fornisce una particolare dimensione che non può essere raggiunta solo con la componente visuale”. Così Xavier Veilhan mentre descrive il suo progetto, un padiglione espositivo che vede la curatela del Leone d’oro 2011 Christian Marclay assieme al direttore del Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra, Lionel Bovier. Il nomade visitatore che inconsapevole varca l’entrata dell’esposizione, si ritrova in un apparente non-luogo chiamato Studio Venezia, forse un hommage da parte dell’artista francese ad una sua opera del 1993 che si chiamava, per l’appunto, Le Studio. Senz’altro una dichiarazione d’intenti su quanto s’intende fare e creare, immersi in questa virtuale foresta di legno piegato alla volontà del suono e della sua ottimale diffusione acustica.

Lo sguardo ancora indugia, raccoglie informazioni mentre l’anima abituata a nutrirsi di purezza estranea a qualsiasi nozionismo, chiede vibrazioni, vuole nutrirsi di suono. A fatica insisto nei panni del visitatore giunto fin qui spinto dall’estrema curiosità legata alla passione musicale. Con stupore scopro che l’esposizione ospita un vero e proprio studio di registrazione ad altissimo livello e decine sono i nomi degli artisti transitati e che transiteranno nello Studio: Mark Sanders & Elliott Sharp, Darla & Brian Eno, Alessandro Bosetti, Alva Noto, Thurston Moore, Lee Scratch Perry, Nicola Ratti, Sèbastien Tellier, Steve Beresford & Zeena Parkins, Von Tesla, giusto per citarne solo alcuni. Espressioni musicali le più diverse che potranno esser seguite in diretta streaming sul satellite virtuale in rotazione nel world wide web, lo studio-venezia.com.

La fame morde, paziente ha atteso io vagassi terrestre tra i terrestri raccogliendo ulteriori informazioni ma ora urla e si contorce, graffia le corde delle chitarre appese alle pareti, il nero splendore del pianoforte a coda, il vecchio Fender Rhodes e il clavicembalo, con lo sguardo azzanna Moog e sintetizzatori, strumenti a fiato e percussioni, sconosciuti emanatori di onde sonore e gigantesche balalaike capaci di preservare dal freddo anche il più possente dei suonatori. Ma un suono ora giunge, è il nero Yamaha che sorveglia lucido l’entrata dello Studio Venezia.

La tonalità inizia a giungere fluida mentre penso ad una frase letta qualche giorno addietro. A pronunciarla Angus Carlyle, ricercatore e studioso del paesaggio sonoro con una cattedra alla University of the Arts di Londra: “Passeggiate sonore performative con o senza palloncini che scoppiano, una voce che canta o una voce ambientale. L’ascolto dialogo spronato dagli imperativi degli intenti o dal desiderio di triangolare le modalità sonore per conoscere un luogo. La sollecitudine affettiva verso ciò che accade le finestre e i muri, verso le facciate delle architetture, la sensibilità acuita verso i flussi magnetici, verso le vibrazioni interne della materia, verso i cambiamenti nel calore, nell’umidità e nel vento, verso il frastuono della cicala o il respiro del bisonte, verso ciò che è pericoloso (comunque visivamente innocuo) ed il precario (qualsiasi sia il linguaggio che parli)”.

Ecco, penso seduto dentro quella foresta di legno piegato al volere del suono, ecco l’esempio che cercavo per spiegare al meglio quelle parole. Attorno a me il nomade via vai dei visitatori, il suono scaturito dai loro passi, quello dei loro pensieri. Tutto intorno il calore degli spettatori attenti e l’alternarsi dello scatto degli otturatori dei mille devices costantemente agganciati alla Grande Madre Rete che tutto ingloba. Il respiro di un’architettura apparentemente immobile che riceve e restituisce vibrazioni. Il flusso continuo di dati che scorrono lungo i cavi per esser filtrati e trasformati in materia udibile anche dopo il silenzio definitivo della fonte originaria. Siamo tutti parte di un’opera artistica che emette in continuazione suono così come la musica prodotta dai due ospiti oggi in residenza, il veneziano Gigi Masin e lo scozzese Jonny Nash.

Ho conosciuto Gigi nel corso di un programma radiofonico che conducevo negli anni ’80, era un visionario musicista che bruciava di passione e regalava il suo disco a chi lo richiedeva, un vinile autoprodotto intitolato “Wind” ora ricercato dai collezionisti di mezzo mondo. Dopo oltre trent’anni quella passione messa a dura prova dall’ottusità di una realtà musicale italiana priva di contenuti veri e troppo concentrata ad autoincensarsi, è esplosa a livello mondiale portandolo a suonare nella formazione dei Gaussian Curve con Marco Sterck e Jonny Nash che ora ritrovo piegato sulla sei corde elettrica mentre dialoga con il pianoforte usando un linguaggio ad alto potenziale virale che ben conosco. Le barriere vengono abbattute, qualsiasi discorso, sia esso basico o cattedratico, perde valore innanzi all’assoluta potenza immersiva della situazione, slegata da ogni contatto se non quello dell’ascolto.

Entro nel ciclo continuo del loop, degli accordi che si abbattono a ridosso del suo segnale salvifico e volutamente mi perdo. Mi ritrovo all’aperto mentre una silenziosa vettura elettrica conduce gli ultimi visitatori verso l’uscita; il cielo sopra Venezia quest’anno è il palcoscenico di un passaggio di nuvole mai osservate prima, formazioni dal disegno sorprendentemente astratto che continuamente si ripresentano allo sguardo nella loro corsa verso il mare, quasi fossero note imprigionate nel nastro magnetico più azzurro mai concepito.

“Il componimento del 1963, il Solfeggio (…) è scritto seguendo solo sette suoni invece di dodici. Come vede, l’idea era molto semplice e non ero assolutamente sicuro che avrebbe funzionato fin quando non l’ho ascoltato e si, se viene eseguito nel modo giusto funziona benissimo, ma, mi creda, non saprei che altro aggiungere” (da una conversazione di Enzo Restagno con Arvo Part)

 

LINK AL VIDEO: https://www.facebook.com/mirco.salvadori/posts/10155914491768322

 

 

 

Radio days: Gigi Masin è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Europa vista dalla luna: intervista a Steven Brown dei Tuxedomoon

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Cover di Andrea Pedrazzini

Tales from an european journey: Steven Brown e l’Europa dei Tuxedomoon

di Mirco Salvadori

traduzione a cura di Andrea Aguzzi

da Sud n°50

 

 

Sembrerà strano chiedere ad un americano nato in Illinois e residente in Messico cosa rappresentava il vecchio continente per chi, negli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 lo vedeva da oltre oceano. Eppure è una domanda che giunge quasi spontanea, se pensata dopo aver conosciuto Steven Brown, la musica e il lungo percorso dei Tuxedomoon, una formazione che incarna la purezza dell’avanguardia cresciuta in un’Europa vissuta come terra ritrovata, forse mai del tutto abbandonata.

Mirco, prima di rispondere alle tue domande vorrei solo condividere alcuni pensieri sul tema più ampio riguardante il vecchio continente. Ho sempre creduto nel ruolo fondamentale degli artisti, lo stesso rivestito dai re, gli eserciti e le chiese nella creazione della futura Europa. Tra il ‘700 e l’800 del primo millennio, nel vostro continente sono vissuti Goethe e Byron e Shelley e Keats e Wagner, per citarne alcuni. Questi uomini attraversavano l’Europa, le Alpi, i fiumi e le valli spesso a piedi, prima ancora che tale luogo esistesse ufficialmente. Si potrebbe dire che già covava un ideale nelle menti dei grandi pensatori e artisti. Inconsciamente stavano tessendo un futuro basato sull’ identità europea. Già a quel tempo le frontiere per loro non esistevano: i trovatori, i protagonisti della commedia dell’arte e le piccole compagnie teatrali si muovevano costantemente, senza dimenticare gli innumerevoli pittori espatriati. In un certo senso i Tuxedomoon, con umiltà, hanno seguito il loro esempio come europei della seconda e terza generazione sradicata dall’Europa.

 

Per molti di noi, estimatori della prima ora, ascoltare brani come In A Manner Of Speaking o The Cage, Les Six, A Piano Solo, Egypt, Time To Loose, Soma, ecc. – tracce che ho scelto d’impeto, a memoria – rappresentava una sorta di salto indietro nel tempo, quell’ascolto ci portava a respirare l’atmosfera satura di frenesia artistica imperante dentro gli indefiniti confini di una mitteleuropa sempre vista come ricettacolo di passioni. La vostra musica ci immergeva nel fumo dei caffè letterari parigini e nella frenesia dei circoli lettarari del primo ‘900. Voi eravate coscienti del potenziale immaginativo scatenato dalle vostre composizioni, era quella la via idealmente percorsa dai Tuxedo o il vostro fine era altro.

foto di Mirco Salvadori

Tu fai riferimento alla natura paradossale di un’intervista ad un americano che parla di Europa. Dire che un gruppo di musicisti e artisti provenienti da San Francisco è riuscito a trasportarvi nella Parigi fin de siècle e nel glorioso passato mitteleuropeo può suonare assurdo. Poi però penso ai Rolling Stones, gli inglesi che hanno introdotto milioni di persone, negli Stati Uniti e in tutto il mondo alla musica afroamericana del ventesimo secolo. Oppure i Beatles che si sono evoluti da “I wonna hold your hand” alle tecniche in studio di Stockhausen. Per molti di noi il primo contatto avuto con Stockhausen e la tape-music è arrivato attraverso interviste con i Fab Four. Ecco, forse abbiamo bisogno di condotti o di filtri per elaborare i nostri sogni e i nostri desideri nascosti. Altri esempi potrebbero essere Philip Glass, Steve Reich e Terry Riley, che trasformarono il mondo attraverso il proprio suono usando stili impensabili come per esempio la musica minimalista orientale di Bali e non solo.

A volte il termine “straniero” “étranger” “outsider” ci fornisce solo il giusto contatto per apprezzare qualcosa che non potremmo altrimenti percepire. Un esempio di questa torsione o cambiamento di percezione provocato dallo “straniero”, anche se negativo, è il cosiddetto “Malinchismo”, qui in Messico.

Malinchismo si riferisce all’idea comunemente diffusa in questa terra, che qualsiasi cosa straniera sia migliore o preferibile a qualsiasi cosa nazionale, sia essa formata da uomini o oggetti.

Il nome deriva da “la Malinche” la donna indigena che è diventata amante di Hernan Cortez. La donna mayana che ha preferito l’europeo alla propria gente.

Certamente siamo stati immersi nella musica europea per lungo tempo prima di arrivare in Europa. Ricordo di aver usato Schoenberg per una colonna sonora di un film super 8 realizzato al liceo e ancora, al San Francisco City College ho conosciuto Blaine (Reininger), assieme andavamo a vedere le mostre sui futuristi e amavamo ascoltare i Kraftwerk, Bowie e Eno, per dire.

 

Che aria si respirava nella San Francisco fine anni ’70.

 

San Francisco, a metà degli anni settanta, era ancora immersa nel crepuscolo dorato degli anni Sessanta. Ho vissuto in un comune del distretto di Haight; gay, uomini, donne e cani tutti vegetariani e tutti talentuosi artisti a tempo pieno.

Ci siamo formati come tutti, in quei tempi, all’interno di questa comune dove ho avuto la ventura di diventare un membro del gruppo chiamato Angels of Light. Figli e figlie di Duchamp o Breton che hanno lavorato a rendere la vita quotidiana un’opera d’arte, anche grazie alle loro produzioni teatrali. Nessuno di noi andava al negozio all’angolo senza indossare qualche costume o altre stravaganze. Dal lato politico gli Angels erano sostenitori della cultura “free” di San Francisco. Credevamo che tutta l’arte doveva essere libera. Gli Angels non facevano mai pagare un biglietto e per farne parte non potevi avere un lavoro normale (un’influenza del situazionismo?) o essere coinvolto in qualsiasi cosa che comportasse un pagamento. E così quando ho iniziato a suonare con i Tuxedomoon in bar o in locali dove si facevano pagare ho dovuto lasciare il gruppo. Erano tempi inebrianti.

Il Punk ha aperto i portali, ha rotto la musica commerciale che ci ha tenuto in scacco per anni. E anche se in un primo momento fu difficile, fu grazie a questa ribellione culturale che la creatura Tuxedomoon poté crescere.

Che ne pensavate del movimento di protesta europeo di fine anni ’60, aveva lasciato traccia nella San Francisco psichedelica di quegli anni?

 

Il movimento studentesco e quello dei lavoratori del ’68 si era diffuso oviamente in tutto il mondo. Per quanto riguarda il suo impatto su San Francisco negli anni ’70 però, la mia sensazione è che la Bay Area si fosse già reinventata tutto senza l’aiuto di Parigi… le comuni, le cooperative, gli hippies i movimenti neri e quelli delle donne e poi i gay, tutto era già accaduto negli anni ’60! C’era uno zeitgeist vero. Ecco il perchè del nome “Holy Sixties”. A Berkeley si, loro erano più in linea con quello che stava accadendo in Europa in quel momento.

 

Quale è stato il vostro primo contatto con la cultura europea contemporanea e cosa vi ha spinto ad attraversare l’oceano.

 

Il mio primo contatto è avvenuto attraverso la musica e il cinema: Kraftwerk, Bowie, Eno, Fellini, Pasolini, Fassbinder. I loro messaggi parlavano di un altro spazio e del tempo, qualcosa di diverso e nuovo. Qualcosa di più serio e interessante degli USA. Winston (Tong) e Bruce (Geduldig) erano già stati in Europa come duo, l’agente di Winston a Parigi è diventato l’agente europeo di Tuxedomoon e via, ci siamo diretti verso l’Europa che per noi era come un altro pianeta. Quando abbiamo deciso che era ora di lasciare San Francisco pensavamo di avere 3 opzioni: Los Angeles, New York o l’Europa. Abbiamo scelto quest’ultima in parte incoraggiati da Winston; in un modo incredibilmente ingenuo, quasi infantile, siamo saliti sopra un aereo e abbiamo iniziato a muoverci senza piani prestabiliti, siamo andati… e siamo rimasti.

 

Come si immaginava Steven Brown questo continente, la sua cultura e come lo ha realmente trovato una volta sbarcato dentro i suoi confini nei primi anni ’80.

 

Il primo anno trascorso a Londra e poi a Rotterdam fu quanto di più lontano dalla scena californiana ci si potesse immaginare: freddo e grigio… persone e paesaggi. Penso che in qualche modo la mia natura malinconica ne fosse felice. Ma alcuni di noi si lamentavano molto, desiderando il calore della California.

Ricordo che durante il nostro primo giro in Olanda eravamo in un furgone e cercavamo il posto in cui avremmo dovuto suonare (un centro giovanile sponsorizzato dal governo, sconosciuto negli Stati Uniti). Abbiamo chiesto informazioni ad una ragazza in bicicletta che ci ha detto di seguirla. Le siamo stati dietro per qualche chilometro, abbiamo seguito quella ragazza su una bici per qualche chilometro e siamo arrivati alla nostra destinazione grazie al suo aiuto. Questa prima percezione degli Olandesi e dell’Olanda è stata confermata nel corso degli anni. Naturalmente ci sono molte altre storie in altri paesi … ma un’altra volta? Un altro posto? Forse…

 

Che mi dici della nostra penisola, quella che mi sembra sia come una vostra seconda casa.
Mia madre era italiana. Il suo cognome era Fuga. L’architetto del XVIII secolo Ferdinando Fuga è un parente lontano. L’Italia è diventata una seconda casa, sì. Ogni volta che visito il vostro Paese non vorrei più andarmene. Qui si ncontrano nuovi amici, si impara la lingua e si conoscono sempre nuovi luoghi. La bellezza fisica dei paesaggi, la storia, l’arte… inebrianti.

 

Due sono le domande che volevo porti da tempo, questa occasione mi permette di farlo. Quale secondo te, tra tutti i lavori dei Tuxedomoon, é quello pensato e ideato con modalità contenuti ed intenti cari al vecchio continente.

 

La risposta ovvia a questa domanda è il poco conosciuto “Les Six” dal cd Joeboy in Messico.

 

La seconda ed anche ultima domanda della nostra chiaccherata: Luigi Tenco.

 

Un’estate dovevo fare la cover del disco di un cantautore italiano degli anni sessanta. Ho chiesto per i suggerimenti. Penso sia stata Velia Papa ex agente italiano dei Tuxedomoon e direttore del Festival di Teatro Polveriggi che mi ha fatto conoscere questo cantante. Alla fine dovevo scegliere tra Gino Paoli e lui. Mi piacevano entrambi ma ho scelto Tenco perché è il cattivo ragazzo dei due. Mi piaceva la tensione e la tematica delle sue canzoni… e naturalmente “suicide is sexy”.

 

Come in tutte le intervista canoniche il finale è destinato al tempo a venire, tuo e dei Tuxedo. Ce lo sveli?

 

Cinema Domingo Orchestra è un progetto che ha le sue radici nella Bruxelles dei primi anni novanta con il vecchio amico Alain Martel, una collaborazione continuata qui in Messico negli ultimi 15 anni. Siamo un gruppo di 4-6 musicisti che compongono e realizzano le colonne sonore per film muti poco conosciuti. Quello che è iniziato come intrattenimento fai da te con gli amici, è diventato un progetto professionale che ora coinvolge festival e teatri in tutto il paese. L’anno scorso siamo stati commissionati per la seconda volta dall’Istituto Goethe del Messico per mettere in musica gemme silenziose recentemente restaurate e poi suonare per le loro prime nazionali. Il 2 novembre di quest’anno, per il Giorno dei Morti, ci esibiremo con il film italiano Rapsodia Satanica di Nino Oxilia del 1917 che vedeva la diva Lyda Borelli come protagonista. Sorprendente simbolismo di mixaggio cinematografico e immagini preraffaelite con la storia di Faust in versione femminile, decorazioni art nouveau e sezioni dipinte a mano.

Ensamble Kafka è un quintetto inaugurato nel 2010 dopo aver messo in musica il film documentario El Informe Toledo del regista Albino Alvarez. È stato nominato per un premio accademico messicano. Julio Garcia è il fedele compositore e il mio partner in Kafka. Suona l’oud, la jarana, la chitarra. Gli altri strumenti sono Tuba, Trombone, Tromba e io con il sax e il clarinetto. La nostra è musica contemporanea messicana. Mentre giochiamo con i brani messicani tradizionali, il nostro obiettivo è quello di creare una nuova musica tradizionale. Abbiamo appena finito il nostro secondo cd. Lo pubblicheremo presto

Nel 2014 Blaine (Reininger) è venuto a Oaxaca per un mese e abbiamo composto e registrato Monte Alban. Pubblicato su Independent Recordings nel 2015, la musica è per pianoforte, violino, organo e sax.

L’estate scorsa, mentre eravamo a Bruxelles a fare le prove per il tour imminente, Peter Principle improvvisamente ci ha lasciato. Peter (Pierre) era la roccia dei Tuxedomoon. Ha creato il terreno su cui poter resistere, lui era il fulcro. Uno dei tre sul palco, quello che sosteneva tutto il lavoro.

Purtroppo ci ha abbandonati, rimaniamo Blaine, Luc (Van Lieshout) e io, continuiamo a lavorare insieme, come da quarant’anni a questa parte.

L’ultimo disco dei Tuxedomoon e l’ultimo registrato con Peter è Blue Velvet Revisited insieme al gruppo Cult With No Name. È una colonna sonora per un bellissimo documentario fatto oltre 30 anni or sono da Peter Brantz durante la realizzazione di Blue Velvet di David Lynch.

Senza nessun suono sincronizzato e con una bellissima fotografia questo film evoca la magia di Lynch in modo veramente originale.

 

Joeboy continua a viaggiare, Joeboy continua a suonare.

intervista pubblicata su Sud n°50

 

 

Europa vista dalla luna: intervista a Steven Brown dei Tuxedomoon è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

async. La poetica di Ryuichi Sakamoto

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di Giovanna Gammarota

 

“Il cinema è una fonte di grande ispirazione, per questo mi piace che la mia musica assomigli alla colonna sonora di un film. Ciò che voglio comporre è una musica che sia simile a una colonna sonora senza un film particolare”. (RS)

async – assenza di sincrono. Potremmo anche dire, in una forma più ampia, dissociato. Qualcosa che si stacca dalla realtà per entrare in un territorio altro rimanendo se stessa pur nella trasformazione. async è il titolo dell’ultimo album di Ryuichi Sakamoto. Un interessante esperimento ne accompagna l’uscita, un concorso appena conclusosi: Ryuichi Sakamoto | async International Short Film Competition. Dunque una musica che è immagine e viceversa. Non a caso l’album è dedicato a “un immaginario film di Andrej Tarkovskij”, regista dallo stile cinematografico onirico ma non per questo distante dalla realtà.

Etichettare la musica di Sakamoto ambient, come certa critica suole definirla, è estremamente riduttivo. Si tratta piuttosto di musica per meditare. Non di meno all’interno di questo album vi sono degli elementi sonori che rimandano a quel caos che si concentra furiosamente prima che le cose si chiariscano. Quella di Sakamoto è una musica che trascende il senso del sentire (l’ascolto) per invadere quello del vedere (l’osservare).

Un suono d’organo apre l’album nel brano Andata e lo chiude nel brano Garden, creando una ellissi sonora, una galassia che sembra restare immobile ma che, viceversa, caricata dei miliardi di microcosmi che la compongono, incede.

Proseguendo nell’ascolto, a poco a poco, il sincronismo comincia a subire un’alterazione sempre più evidente e comprendiamo che ciò avviene a causa dell’azione dell’uomo il quale ha cessato di essere “uno” per divenire moltitudine indistinta. Il brano Solari rimanda direttamente al film Solaris di Andrej Tarkovskij, definito all’epoca della sua uscita, nel 1972, la risposta sovietica a 2001 Odissea nello spazio di Kubrick. In realtà il film affronta il tema del viaggio verso un altrove che si rivelerà essere null’altro che il luogo interiore del protagonista, in una ricerca che esce dal sé per farne ritorno svelato.

Vi è poi un’altra affascinante liaison che ci viene offerta attraverso questo lavoro discografico ed è costituita dal testo letterario presente in due brani. Nel primo, Life, life, l’autore del frammento poetico recitato da David Sylvian è Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, padre del regista e riconosciuto tra i grandi della poesia russa; nel secondo, Fullmoon, il testo è tratto dal romanzo The Sheltering Sky dello scrittore statunitense Paul Bowles, trasposto poi in film dal regista Bernardo Bertolucci la cui colonna sonora è firmata proprio da Sakamoto. Siamo di fronte a un cortocircuito di parole/immagini/suoni senza soluzione di continuità. Il quadro appare complesso ma, ad un’osservazione attenta, si mostra estremamente naturale. Vi è un dialogo tra Oriente e Occidente interpretato dai due letterati che non lascia indifferenti.

Qual è l’elemento che più colpisce, in un’opera d’arte? La capacità di riprodurre la realtà in modo unico e irripetibile. Allo stesso tempo tale unicità potrà sbalordire nel momento in cui l’autore sarà in grado di mostrare i legami che rendono l’opera vicina alla vita, come in una sorta di rivelazione.

“[…] l’immagine cinematografica – afferma Andrej Tarkovskij nelle sue lezioni sul cinema – può incarnarsi solo in forme fattuali, naturali, di vita percepita attraverso la vista e l’udito. L’immagine deve essere resa con naturalismo”. Attraverso l’opera del compositore giapponese veniamo messi in contatto proprio con questo naturalismo. Tutto ciò suggerisce l’idea che l’immagine, nel mondo contemporaneo, debba fornire stimoli che pongono nuove frontiere allo sguardo.

E qui veniamo alle opere pervenute per il concorso. Sono oltre 700, tutte visionabili sul sito dell’artista nipponico. Osservandole una per una, ad un dato momento sarà inevitabile avere la sensazione di trovarsi davanti a un’opera totale, a quell’uno umano che ci sembrava essere scomparso. Si avrà la percezione di trovarsi difronte a una vera e propria opera d’arte collettanea, divisa nei suoi microcosmi ma unica nel suo macrocosmo: una galassia. Un’opera scritta da un musicista in collaborazione con centinaia di altri individui i quali, attraverso le loro immagini, narrano le molteplici sfaccettature della realtà che l’ascolto di questi brani suggerisce: un filo rosso li unisce in una enorme opera corale.

Ascolto, in questo frangente, è un termine assolutamente pertinente. Senza l’ascolto non è possibile attivare l’immaginazione. Le visioni scaturiscono a partire dalla suggestione innescata dal suono e viceversa, in una sorta di scambio asincronico. Ma la particolarità di questi piccoli film è quella di risuonare.

“Voglio avere più spazi. – continua Sakamoto – Spazi, non silenzio. Lo spazio risuona. Voglio godere di questa risonanza, sentirla crescere”.

Viviamo totalmente immersi in una contemporaneità che è fatta sempre più di suggestioni, di realtà non realtà, di rappresentazioni riprese con i telefoni cellulari che creano una replica da conservare nel proprio archivio personale. Ma il gesto ripetitivo che imita un altro gesto non è una novità, si può ricondurre al principio dei tempi, quando osservare come fare ad accendere un fuoco, per esempio, generò la ripetizione di quel gesto. Il punto è: quanto questa ripetizione si può considerare conoscenza e non, viceversa, la gabbia nella quale viviamo la nostra esistenza. Imitiamo qualcosa che capiamo o la capiamo soltanto in apparenza?

Osservazione, relazione con l’infinito, percezione del movimento attorno a noi, la natura come rappresentazione della stabilità del mondo e simbolo di pre-esistenza. “I was, I am and I will be” recitano i versi di Arsenij Tarkovskij in Life, life, in un continuum eterno che non appartiene alla sola esistenza terrena. Il corpo è l’involucro che ci permette di stare al mondo, organicamente, percepirlo equivale a percepire la consistenza del mondo stesso. Ma questo corpo non è più dove dovrebbe essere naturalmente. Vita, vita, quasi un’esortazione, un desiderio. L’infrangersi delle onde sulla sabbia, una immagine che si può considerare consueta, quale significato può assumere se la si osserva nel suo movimento, escludendo il retaggio sentimentale? E compiere l’atto di osservare la vastità del cielo, guardare dentro la corolla di un fiore, cosa cambia nella nostra percezione del vivere?

L’indifferenza che i luoghi paiono riservare al compiersi del gesto umano sembra rispondere alla politica dello spreco, tutto è tenuto assieme dalla potenza della natura. A noi non pare ma è essa a determinare il nostro vissuto e sarà ancora lei a decidere quando arriverà il momento di riappropriarsi della Terra. Dunque cosa può fare l’uomo per tornare a guardare con occhi nuovi?

Nel film Yours di Shozo Hirata (https://vimeo.com/236218326), come un impulso inviato dallo spazio, l’occhio della macchina da presa si accende e si spegne su un paesaggio cittadino notturno dove le uniche luci visibili sono rappresentate dai video accesi nelle case, attraverso i quali ogni individuo è collegato virtualmente con l’esterno. Nelle frazioni di buio compare una conversazione univoca: “Hi. How are you? Wherever you are, I hope you’re doing well. Yours.” Perdendosi nel nero dello schermo la conversazione evidenzia l’assenza di vera interlocuzione con l’altro. Ma, al contempo, l’autore pare riflettere sulla difficile ricerca di un contatto con quell’entità superiore, di cui non si conoscono le sembianze e che pare essersi dimenticata della nostra esistenza.

Infine vita e morte come ciclo naturale, concetto che nella contemporaneità della vita allungata ad ogni costo si è perduto. Sono molti i lavori che affrontano questo tema. Ne citerò tre, su tutti.

Passing Away di Daisuke Fukunaga. Non c’è nulla che possa rappresentare il “passare oltre” in modo più delicato dei petali dei fiori di ciliegio quando si staccano dai rami. In Giappone una festa, Hanami il cui significato è “guardare i fiori”, celebra quello che è un vero e proprio rito naturale. Nel film i petali vanno a depositarsi sulla superficie dell’acqua: elemento ancestrale portatore di vita. Ancora freschi e bianchi al loro posarsi man mano che camminano sull’acqua invecchiano, fino a diventare segnati e bruni. La moltitudine di petali che l’autore mostra nella scena finale fa pensare alla vastità del cosmo popolato di stelle, ciò che in alcune credenze popolari si pensa diventino i corpi quando passano oltre. La rappresentazione di un cosmo che diventa accoglimento di anime.

 

 

“And this I dreamt, and this I dream,

And sometime this I will dream again,

And all will be repeated, all be re-embodied,

You will dream everything I have seen in dream” (Arsenij Tarkovskij)

 

In A mother in tears takes a child on her lap di Kentaro Kishi, vediamo una giovane donna distrutta a causa di qualcosa di terribile che le è accaduto. La narrazione qui è soltanto un pretesto per condurre lo spettatore a riflettere sulla mancanza procurata dalla morte e su come ci si possa ricongiungere a chi ci è stato indebitamente strappato immergendosi nell’elemento che atavicamente ha generato la vita: l’acqua. Metafora dell’appartenere a un “Tutto” che è più grande di noi e alla cui volontà non possiamo sottrarci, la scoperta è quella di comprendere infine che esso è composto “anche” della nostra presenza che vive al suo interno.

 

 

In Soleil noir di Adeline Carrère, una giovane donna dallo sguardo assente sfreccia, a bordo di un motoscafo, sulla superficie di un fiume (ancora l’acqua). Sembra voler andare incontro a un destino segnato. La corsa però lentamente prende un’altra forma, come se la natura che circonda la piccola imbarcazione si rivelasse “per la prima volta”. La donna comincia a sentire ciò che fino a poco prima non udiva, a vedere ciò che non vedeva. Il suono della natura la pervade totalmente. Scende a terra cominciando a inoltrarsi nel bosco, osservando sempre più attentamente comincia a percepire qualcosa che c’è ma che non è visibile. D’un tratto la Luna oscura il Sole dando origine al Sole nero della tradizione celtica. Nulla è più distinguibile come elemento singolo e tutto è in un Unico. Ed ecco apparire l’uomo primordiale. La donna lo osserva ed è a questo punto che avviene la metamorfosi: il suo corpo si dissolve nel luogo, essa diventa la natura e la natura la invade.

Molte cose ci sarebbe ancora da dire su ciò che è rappresentato dalle immagini di questi cortometraggi e dalle musiche di quest’album, sulla coralità di un evento sonoro e visuale che offre la possibilità di connettersi con la rivelazione del “Tutto”. Ma, come è giusto che sia, spetta a chi guarda praticare l’esercizio della scoperta.

 

4 novembre 2017

async. La poetica di Ryuichi Sakamoto è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Minima Oralia : Luigi Cinque

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Oral Poetry e Identità Selvaggia *

di

Luigi Cinque

 

Oral Poetry. Se ne parla molto spesso senza cognizione. Qualcuno crede ancora all’equazione che fu dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta, diventata da noi sottoequazione e farsa di provincia, di colonia, ovvero: il passaggio semiautomatico da medio poeta beat&freak a rockstar, e pure con significato politico. Da lì deriva probabilmente quell’auto referenzialità – quella speciale sindrome Bruce Springsteen, Patty Smith quando non Kathy Berberian o Demetrio – che oggi consuma i nostri poeti performer/lettori di poesie con musica. Quell’analogia era, in buona dose, dovuta al forte imperialismo americano postbellico, al suo potenziale di esportazione della lingua e il conseguente mercato che si produceva a scapito, si capisce, delle singolarità culturali colonizzate. C’era posto per quasi tutti i white americans. In un certo senso facevano un’azione di pulizia. Il furore mercantile dello zio Sam induceva, procurava e giustificava, a sua immagine e somiglianza, nei giovani readers&poets americani, una subliminale disposizione al saccheggio dei «negri», dei «colored bluesmen», degli hobos, dei dropout, del folk dei workers «with Grape of wrath» alla Steinbeck o «with bound for glory» alla Guthrie ma anche degli indiani, dei pakistani, degli aborigeni non americans del mondo. Li derubavano dei loro versi, dei loro racconti, dei loro modi di comunicare, delle loro ripetizioni. I nostri eroi beats erano assetati, famelici. Mescolavano il tutto in salsa Pound, Whitman, Baudelaire, T.S. Eliot, Rimbaud e rimodellavano a suon di black bebop in neorealismo on the road, in american way un po’ maledetta, leggendo in quei reading (che noi un paio di decenni dopo credemmo mitici) nei College in subbuglio, nelle strade e soprattutto nelle cantine dei bianchi new left, degli ebrei, dei siciliani, degli irlandesi, dei wasp.

Avete mai visto un nero in quel folto gruppo di beat/suca/parole? Pochissimi. LeRoy Jones (che non era ancora Amiri Baraka, sia chiaro) fu una delle poche eccezioni. Il procedimento era semplice: i nostri eroi riprendevano cinquant’anni dopo le avanguardie europee e, in un’America che si preparava all’hamburgerizzazione del mondo, a forza di droghe e di malinteso buddismo zen, teorizzavano che meno si pensa e più si è geniali; che tutti siamo geni e non lo sappiamo; che per diventarlo basta liberare se stessi «fino in fondo», anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi e, visto che siamo tutti geni, ne conseguiva, guarda guarda, che tutti possiamo diventare senza problemi geni del consumo: 1950, nascono i primi veri consumantes della storia umana. Tornando all’arte, i nostri eroi contribuirono (ma non furono i soli, mettiamoci le varie avanguardie!) anche alla nascita di una essenziale figura del Novecento: il genio artistico cretino come ci dice Alfonso Belardinelli.

Gli editori accorrevano spavaldi, li coccolavano, li spompinavano, promuovevano i loro eccessi infantili. I discografici fiutavano l’affare e fu così che molti di loro passarono al più remunerativo mercato musicale e il Ministero dell’Immagine Americana nel Mondo approvava. Dopotutto un certo antagonismo libertario faceva molto bene all’export, ma con la giusta dose di sovversione funzionale, si capisce, senza mai trasformarsi in eversione, altrimenti la questione si sarebbe complicata e il Sistema sarebbe poi stato costretto a usare metodi forti: vedi le morti eccellenti del rock fino a Lennon, per intenderci.

Tra questi poeti e cantori ci sono state schiere di esempi luminosi, certo, da Jim Morrison a Patty Smith passando per lo stesso Dylan. Da bravi inconsapevoli coloni siamo cresciuti con loro. Li abbiamo imitati come potevamo e, per anni (o forse ormai per sempre, perché hanno popolato i nostri vent’anni) li abbiamo molto amati.

Ma se torniamo al presente e restiamo in argomento, vediamo che l’oral poetry di casa nostra non fa che ribadire davanti al pubblico del primo quarto del terzo millennio fenomenologie ormai comico/mistiche del genio cretino.

Facciamo allora un po’ di chiarezza: l’oral poetry non ha niente a che fare con l’esercito dei poeti sordi, dei performer neostonati e postavanguardistici; non si collega alla nobile tradizione della poesia sonora europea; non è, come rischia di apparire, l’ennesima estrinsecazione del narciso celibe; non è una rivoluzione mirata a liberare il verso poetico dalla pagina angusta e librarlo nell’aere; non si tratta di mettersi davanti a un microfono e telefonare le proprie poesie leggendole con della musica di sottofondo. La «poesia detta» – chiamatela pure spoken poetry –, la parola-verbo, arriva da molto lontano. Essa si basa essenzialmente sull’ascolto, sulla pratica religiosa dell’ascoltare, del sentire. L’oral poet – diciamo così – che potremmo chiamare tranquillamente electric shaman – ascolta gli ascoltatori prima ancora di parlare, instaura un feedback e quando infine parla racconta quanto sta ascoltando in quel momento.

Non c’è voce poetica (suono) senza ascolto del mondo. Né può esserci alcuna forma di poesia orale senza quel piccolo teatro che è l’orecchio nel quale l’essere rimette in scena il «reale» e lo rappresenta nella forma alta di intrattenimento; non esiste oral poetry senza quell’attività di leghein (ascoltare, conservare, raccogliere, riflettere silenziosamente) che si è «smarrita» ci dice Heidegger «in favore dell’affermazione di un logos», di un io narciso, «tutto preoccupato di dire, affermare, discorrere».

Solo in questo modo si arriva alla «parola-suono» (che è la casa dell’essere), a una parola transitiva che è in grado di mostrare, manifestare al di fuori di se stessa, qualcosa che senza di essa rimarrebbe nascosta, o perlomeno invisibile.

«Il verso cantato deve cominciare sempre con il suono della vostra pelle» diceva uno dei Dagar brothers, cantante di Dhrupad, a proposito dell’inizio dell’esposizione. Nel suo caso i versi dei poemi vedici si tengono come riferimento e si improvvisano, si abbelliscono e all’istante vengono inventate tutte le possibili varianti ritmo-melodiche, ma dentro la tradizione. Via via la sua parola cantata diventa solo significante, suono, e perde lentamente il significato, che deve essere tuttavia percepito nella forma di una sparizione, come un frullare di ali ma senza vedere neppure il volo di qualcuno, uccello o demone che sia.

L’oral poetry viene comunemente definita come poesia composta e trasmessa senza l’ausilio della scrittura. Dunque siamo alla sintesi orale, non epica; alle formule che hanno il potere, se dette, pronunciate, cantate nel modo giusto, di mediare con l’altrove, con gli dèi, ognuno dei quali oltretutto ha una sua vibrazione su cui sintonizzarsi. La poesia orale esiste solo quando diventa e produce suono, realtà altra, parallela.

Le parole devono mantenere certamente un senso percepibile che si dissolve in altro, in una sorta di Identità Selvaggia, proprio nel momento in cui si pronunciano. Tutto questo non ha niente a che fare con l’idea, spesso sentimentale, che abbiamo di poesia. La poesia orale è suono. Suono che magicamente non esprime ma lascia sparire il poeta o, in certi casi (pochissimi) l’attore-medium che coscientemente fa risuonare versi di altri.

Chi ha avuto l’esperienza di vedere Carmelo Bene in azione, in scena, o chi con lui ha collaborato, come mi è capitato brevemente di fare, lo vedeva davvero sparire dietro il suono dei versi. Carmelo non esprimeva o comunicava niente. Tracciava traiettorie che disegnavano figure sonore e quelle figure (qui sto citando Alessandro Baricco) erano icone dell’umano. La poesia in questo modo smetteva di essere una telefonata fatta per comunicare e diventava un’entità di pietra.

Senza dimenticare l’attenzione ossessiva, obliqua e malvagia, che Carmelo poneva sull’uso del microfono. Quanti infiniti microgesti egli studiava tra i mille gradi di vicinanza alla bocca. Così il microfono diventava, come per i cantanti di rango, uno strumento che si suona come la coulisse di un trombone. Per fare questo serviva tecnica, esperienza, capacità di sintonizzare il proprio orecchio con il feedback che arrivava dai monitor di palco. Il microfono era l’amplificazione della voce, era la maschera greca, era la laringe e la corda vocale che proiettava l’io nel cosmo, era la capsula spaziale, era il nuovo capitolo della «presenza della voce».

Eccoci alla voce, alla sua presenza nel mondo, all’esercizio fonico che, dice Paul Zumthor, si manifesta preminentemente nell’uso del linguaggio. Zumthor fa una dichiarazione chiarificatrice: «Una voce senza linguaggio non è abbastanza differenziata da far passare la complessità di forze del desiderio che la animano, mentre la stessa impotenza colpisce la lingua senza voce che è la scrittura. Dunque le nostre voci richiedono il linguaggio e nello stesso tempo godono nei suoi confronti di una libertà d’uso pressoché totale e che ha al suo culmine il canto».[1]

Ma c’è qualcosa di più, ed è la relazione antropologica tra parola e musica. Eviterei la linea di fuga del folklore, ma lo stesso mi consento un richiamo al mondo tradizionale.

La parola poetica di tradizione si avvale di una precisa tecnologia dell’organo vocale. È di per sé significato e significante. Il poeta di tradizione orale controlla e suona «quell’eccesso di connotazioni che la voce, qualsiasi cosa faccia, porta con sé. Dal rumore più insolito al canto più squisito, essa crea una gamma molto vasta di associazioni culturali, musicali, quotidiane, emotive, fisiologiche» diceva Luciano Berio.

C’è dunque un’identità tra suono e significato che è da sempre la base della poesia di tradizione orale. Il poeta, il cantore, il cuntista modella la materia sonora per spettacolarizzare il frammento poetico o l’epica, e in tal modo il racconto che in esso si realizza non è propriamente quello che tende a ricostruire un passato secondo una prospettiva temporale ma diventa Onniscienza di carattere divinatorio.

Se ricerchiamo, per quel che ci è possibile, nella classicità mediterranea, troviamo che tra parola poetica e suono-musica esiste una vera e propria Identità Selvaggia: permane il senso che la parola è di per sé, innanzitutto, suono, mentre il rumore/suono/musica non è solo significante, ma, per via simbolica, verbo primario, radice, suggestione e significato esso stesso.
Il ritmo, già possessione metrico-poetica, diventa infine il luogo elettivo di quell’identità: il luogo vero della convivenza. Questo i tragici greci lo sapevano bene, e infatti elaboravano una partitura-tessitura di testo ritmico e suono: erano, insomma, autori-compositori a tutto campo, non semplici librettisti.

L’unità narrante di suono e parola è da considerare oggi, insieme alla microfonia e alle nuove tecnologie, come una vera possibilità di evoluzione contemporanea del teatro di poesia.
L’Identità Selvaggia è la sospensione del significato e del significante in uno stato di reciproco ascolto; è l’essenza stessa della poesia di tradizione orale; è un’azione scenico-sonora tesa a cogliere e restituire la risonanza altra – terza – tra musica e parola, considerando quest’ultima come anticipatrice di suono, e la musica come paesaggio della parola.

Se assistiamo, oggi, a reading che si spacciano come performance di oral poetry, ci accorgiamo, molto spesso, che i poeti portatori sono vittime di un insanabile equivoco. Leggendo le loro poesie davanti a un foglio scritto e accompagnati alla meglio da un ensemble musicale acustico o elettronico che sia, pensano di compiere il gesto forte e di approdare negli «orti saraceni» della «nuova Poesia liquida». Non è così. Intanto un’azione del genere presuppone in prima istanza – ma lo stesso non basta – la memoria del testo scritto. E poi mancano tutti quei fondamentali che ritroviamo nei residui di poesia orale tradizionale ancora vivi sia nelle fasce folkloriche europee, come i cuntisti, sia nelle grandi tradizioni dei griot africani, degli sciamani nordici, ma anche in molti infiniti studi realizzati in ambito di musica contemporanea. Rendiamo omaggio ai tanti vocalisti moderni che hanno sperimentato in questo senso.

In tutti i casi, pur lasciando al testo le sue prerogative grammaticali e fonematiche, la voce deve rispettare (o contraddire consapevolmente) i parametri dell’intonazione, del timbro, della durata, dell’espressione.

Da qui si passa al secondo punto. Al salto vero. Serve l’interplay. Il rito dell’oral poetry si compie solamente se in scena prende forma una nuova identità sciamanica. Il poeta deve ascoltare, giocare con gli altri aspetti della musica prodotta in scena poi costruire, inventando in tempo reale il poema. Questo è il salto: comporre nel tempo del rito scenico. Le parole non sono più «pre-visione» ma devono essere «in-visione»; devono essere possessione e improvvisazione, ovvero, elaborazione della parola metrica e del senso in tempo reale. Anche qui le tecniche oltre che i fondamentali sono decisive. Esse prescindono dal talento, si capisce, ma servono tuttavia alla forma, all’intrattenimento. Valgono soprattutto per esplorare l’immediato, alleggeriscono l’istinto. Servono a sospendere il tempo reale della performance e consentono all’esecutore di entrare nel tempo molecolare della comunicazione. Senza una tecnica acquisita è molto difficile proporre alcuna forma di relazione con la musica e con l’ascoltatore.

Vanno dunque considerati bagagli indispensabili per un «teatro poetico della visione» i parametri di ritmo, metrica, armonia, radice, significato, significante, comunicazione, ascolto, intonazione, microfonia, tempo reale, vocalità, elettroacustica, vibrazione, gesto/corpo, respiro, sguardo, silenzio, memoria/testo, bagaglio narrativo.

Se guardiamo alla tradizione, l’aedo, il rapsode, il griot, lo sciamano, il cuntista, ma anche i moderni poeti di strada metropolitani e molti performer di area classica/contemporanea, avevano e hanno padronanza di tecniche precise e studi preparatori a carattere ritmico/mnemonico/informativo. Procedono con un sistema di formule collegate le une alle altre secondo rapporti abbastanza complessi di equivalenza, di complementarità, di opposizione, sia semantici, sia funzionali. Così in scena, nel tempo di richiamo della memoria (quasi un pilota automatico), nella citazione della formula preparata, pur continuando a ritmare e dire, (o ripetere: la ripetizione è un elemento tecnico/formale decisivo) riescono a sdoppiarsi, permettendosi una sorta di sonnambulismo creativo e visionario che è quello che produce la forza «poetica e politica» del poeta medium; che gli fa tendere la mano dentro di sé a raccogliere informazioni extrasensoriali. Per questo il poeta performer contemporaneo deve costituirsi, anche all’interno della propria produzione, un bagaglio di memoria, lavorare in scena per strutture modulari a collegamento istantaneo, essere attore della composizione immediata.

Dopotutto, i ragazzi del rap americano, quelli della inner city, ovvero la città profonda e nascosta, quelli certo più veri e interessanti dei nostri eroi della beat generation, che oltretutto i fondamentali li hanno imparato dalla strada, usano le tecniche del dozens, un gioco verbale diffuso e memorizzato che permette di improvvisare su norme retoriche e metriche complesse e rigorose; che permette di picchiare con le parole come quel maestro di pugni e insulti verbali ritualizzati – dice Sandro Portelli – che risponde al nome di Muhammad Alì.

Penso davvero che oggi, nell’era della replica delle repliche, nel terzo e forse ultimo tempo della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, nel secolo della globalizzazione degli oggetti e della tribalizzazione dei soggetti, un’improvvisazione consapevole, sapiente, che si prenda in scena i tempi – irrinunciabili – della composizione di suono e senso sia l’unica vera prova di forza che possiamo operare. L’oral poetry deve riferire da altre dimensioni e determinare eventi non replicabili. Take cinematografici unici.

Sarà bene che le schiere di narcisi con pretesa di oral poetry escano dal povero surrealismo di massa con le loro paginette appoggiate su leggii defunti e provino a fare il salto nell’Identità Selvaggia della parola stabilendo finalmente una connessione accelerazionista e postumana tra arcaico tradizionale e terzo millennio. Questa sarebbe musica per le nostre orecchie. E se, poi, vogliono perpetuare la lettura, si convincano almeno che leggere in scena deve essere un modo di dimenticare. Una non forma dell’oblio. Un modo, come dicevamo citando Carmelo Bene, di scomparire e rendere nuovamente bianca la pagina appena letta.

In quanto poi alla canzone, essa è una singolarità differenziata. Gioca in un campionato diverso. E la pagina scritta di un libro di poesie è ancora altro. La questione è semplice e già ampiamente dibattuta. La confusione fa male.

 

[1] Paul Zumthor, La presenza della voce, Il Mulino, Bologna 1984.

 

* Oral Poetry e Identità Selvaggia è un capitolo di Kunzertu 77 18 . Memorie di bordo per una musica del futuro.        in uscita a fine Giugno 2018 per le Edizioni Hypertext O’rchestra e Zona Music Books

 

 


Juke-box: Gianni Maroccolo

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Come fanno i larici d’autunno

 

di Mirco Salvadori

 

 

Un’altra volta forse si prenderà
le mosse da un punto più
alto
fin qui è stato risalire a colpi
d’orgoglio confuso con l’idea
da proporre
quella volta non ci sarà bisogno
di voltarsi indietro e nemmeno
di guardare troppo avanti
ciò che ci sarà –la cura
nel fare, l’intuizione
del propizio, l’abbraccio
o la parola secca- basteranno
e basterà la pioggia se pioverà
e il sole se farà caldo
la strada deserta
o il rombo della gomma sull’asfalto

 

(Biagio Cepollaro – Le Qualità – La Camera Verde, 2012 )

 

 

È tutto racchiuso nel breve istante della morte, nell’altrettanto fulmineo sbocciare della nuova vita. “Rinasce chi sa tornare, rinasce chi sa cadere, rinasce chi sa morire, rinasce chi sa cambiare colore come fanno i larici d’autunno” canta Cristina Donà in ‘Vdb23/Nulla è Andato Perso’, album firmato da Gianni Maroccolo con Claudio Rocchi. Rocchi, colui che comprese il segreto per rendere la vita tale, accettando la morte e la successiva rinascita. Il magico viandante volante, l’artista coerente e coraggioso, l’amico inseparabile tutt’ora presente quando il verso annienta e il suono colpisce. È da lui che prende il via questa storia di indipendenza e rinnovamento.

La sera scende lieve in questo angolo di Toscana. In lontananza si percepisce l’urlo costante del traffico impazzito che avvolge Firenze ma qui è il silenzio che regola i movimenti. Sono seduto sull’antica pietra del Teatro Romano, l’orecchio teso nell’ascolto del suono che appartiene al presente, armonia che mi porta indenne la voce di chi ci ha lasciato, di chi ha dovuto abbandonare i suoi dischi le sue corde, i panni stesi ad asciugare lasciando sul cuscino l’impronta dei suoi sogni. Claudio Rocchi è scomparso nel 2013 dopo aver collaborato con Gianni Maroccolo alla realizzazione di ‘Nulla é Andato Perso’, disco che rappresenta una sorta di suo testamento pubblico giunto a noi grazie all’opera divulgativa del bassista e compositore grossetano, figura centrale del suono indipendente italiano, raro musicista a cui sembra inevitabile la necessità di allontanarsi in fretta dalla melma della conformità come scrive Battiato nel testo della lunga suite che rappresenta l’asse portante di questo splendido lavoro corale.

Scomodamente seduto sull’antica scalinata cerco di mettere ordine in un passato che ha lasciato dietro di sé memorie e passi d’altri ch’io calpesto, come recita Giovanni Lindo Ferretti interpretando l’inquieto valzer che ancora imperversa nella balera sempre aperta del mio cuore. Mi perdo nella musica e i ricordi iniziano a pulsare, si materializzano sul palco assumendo fattezze umane, quelle di Simone Filippi, Antonio Aiazzi, Andrea Chimenti e Gianni ‘Marok’ Maroccolo. Musicisti un tempo attivi in formazioni che appartengono alla storia del rock indipendente italiano, esponenenti di una cultura non solo musicale che individuava Firenze come città simbolo dell’esplosivo movimento new-wave degli anni ‘80. Sono riuniti qui a Fiesole per celebrare l’ultimo concerto dedicato a Claudio Rocchi e allo spirito di autonomia che lo distingueva, un concerto che nel corso di due anni ha riempito decine di teatri in tutta Italia, un live dal quale é stato tratto un triplo album di incomparabile valenza artistica, un vero manifesto poetico di indipendenza culturale.

Scruto le nostre espressioni, distinguo i segni del tempo nel loro sguardo mentre accarezzo le cicatrici che attraversano il mio.

Sovrasta il piacere dell’ascolto, questo enorme specchio che si erge lungo i confini della notte fiesolana, una superficie che riflette il nostro passato, la storia collettiva dei sopravvissuti ad un’era di tempeste e mareggiate di cui ora rimane solo un borbottio di tuono e la volontà indomita dei pochi che insistono nel bisogno di cambiamento.

Di morte e rinascita é intessuta la lirica poeticamente interpretata da Andrea Chimenti mentre Simone Filippi filtra la violenza del battito, Antonio Aiazzi colora il cielo sintetizzandolo di passione e Gianni Maroccolo disegna movimenti di irresistibile danza alternandosi tra l’elettronica e le corde del suo amato strumento pensando a quella sua vecchia produzione discografica il cui titolo recitava: ‘Solo Un Folle Può Sfidare Le Sue Molle’.

Quanti sono rimasti indietro, ancorati a ricordi e celebrazioni, quanti non hanno retto il passaggio delle stagioni, abbarbicati sopra fragili troni di cartapesta. Quanti hanno rinunciato al rischio della follia, sbriciolandosi nelle trite e antiche movenze del rock’n roll.

Gli occhi chiusi, raggomitolato nel suono del basso, Marok sta forse pensando al momento nel quale ci saremmo ritrovati quarant’anni più tardi, ancora una volta decisi a cambiare colore, proprio come fanno i larici d’autunno, proprio come raccontava Claudio, convinto che ciò che ci sarà –la cura nel fare, l’intuizione del propizio, l’abbraccio o la parola secca- basteranno.

 

 

VivaVoce#08 Edna St. Vincent Millay [ 1892 – 1950 ]

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Edna St. Vincent Millay a Mamaroneck – NY, 1914, foto di Arnold Genthe.

Edna St. Vincent Millay
legge Recuerdo
da Collected Poems [1931]


 

Recuerdo

We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry.
It was bare and bright, and smelled like a stable
But we looked into a fire, we leaned across a table,
We lay on a hill-top underneath the moon;
And the whistles kept blowing and the dawn came soon.
 
We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry;
And you ate an apple, and I ate a pear,
From a dozen of each we had bought somewhere;
And the sky went wan, and the wind came cold,
And the sun rose dripping, a bucketful of gold.
 
We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry.
We hailed, “Good morrow, mother!” to a shawl-covered head,
And bought a morning paper, which neither of us read;
And she wept, “God bless you!” for the apples and pears,
And we gave her all our money but our subway fares.

Ricordo

Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri,
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry;
Era vuoto e illuminato, e sapeva di stalla
Ma abbiamo fissato un fuoco, siamo crollati su un tavolo,
Ci siamo sdraiati in cima a una collina arresi alla luna;
E i fischi continuavano e l’alba è venuta subito.
 
Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.
E tu hai mangiato una mela, e io ho mangiato una pera,
Della dozzina che da qualche parte avevamo presa;
E il cielo divenne pallido, e il vento si fece freddo,
E il sole sorse sgocciolando d’oro un secchio.
 
Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.
Abbiamo salutato, “Buondí, mamma!” una con in testa lo scialletto,
E comprato un giornale del mattino, che nessuno avrebbe letto;
E lei ha pianto, “Dio vi benedica!” per le mele e le pere,
E le abbiamo dato tutti i nostri soldi, tranne quelli per la subway.

[ trad. Orsola Puecher ]

 

di Orsola Puecher

 
La voce di Edna Saint Vincent Millay cantilenante a tratti, ma ferma e forte, ci arriva dall’inizio del secolo scorso per raccontare di un traghetto notturno, quello di ⇨ Staten Island, che non costa nulla e non si ferma mai, e vaga per tutta la notte, portando due amici, forse innamorati, in un viaggio che finisce regalando delle pere e delle mele, comprate magari come cena per risparmiare, a una donna, una mamma archetipo, con uno scialletto in testa. Ancora sul traghetto, o sulla riva, o durante la corsa, o dopo, la mattina presto, le regalano anche tutti i loro pochi soldi, tenendosi solo quelli della tariffa della metropolitana per il ritorno.
 
  
  

L’avventura di un incontro fra due giovani bohemienne del Greenwich Village, il ricordo di una notte, i rumori, i fischi, il chiarore di un fuoco, sdraiarsi alla luce della luna, aspettare l’alba, con pochi soldi, la stanchezza e l’allegria della libertà da ogni vincolo di tempo e spazio. La stanchezza allegra di quando si é giovani e innamorati dopo una notte di veglia fra le tante piccole sconsiderate cose che si fanno. I primi due versi “Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri/Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.” si ripetono all’inizio di ogni stanza. Come in una ballata inquadrano le singole scene e trattengono solo per qualche istante il passato e lo scorrere della notte. La parola è semplice: il racconto quotidiano, liberato dal lirismo ottocentesco, diventa acutamente poetico solo nel descrivere il cielo che impallidisce, l’alba che sgocciola oro e la rima culla la notte fino al mattino. La semplicità eleva e trasfigura ogni cosa.


 

Henry e Cora

Edna Saint Vincent Millay è la prima donna a vincere il Premio Pulitzer per la Poesia da poco istituito, a soli 31 anni nel 1923, con la raccolta The Ballad of the Harp-Weavernasce. Nasce a Rockland nel Maine. Il secondo nome Saint Vincent, da lei molto amato, le viene dato in onore di un ospedale di New York dove lo zio ebbe salva la vita poco prima della sua nascita. La madre Cora Lounella Buzelle è infermiera e il padre Henry Tolman Millay insegnante, vive un’infanzia fra le montagne in una mitica casa dove
 

Between the mountains and the sea where baskets of apples and drying herbs on the porch mingled their scents with those of the neighboring pine woods.1

Edna, Norma e Kathleen

Dopo alcuni anni di separazione i genitori divorziano ed Edna con la madre Cora e le sue due sorelle Norma e Kathleen e si trasferiscono di città in città vivendo molto poveramente, ma con al seguito un baule pieno di libri, classici da Shakespeare a Milton, che la madre era solita leggere alle figlie. Le ragazze crescono indipendenti e con atteggiamenti inconsueti per l’epoca. Edna che amava farsi chiamare Vincent si scontra per questo con il preside della scuola elementare. Alle scuole superiori inizia a sviluppare il suo talento letterario, vincendo premi di poesia e pubblicando sonetti su piccole riviste locali
 
 
Nel 1913 a 21 anni entra nel famoso ⇨ Vassar College, crogiolo di talenti letterari, da Mary McCarthy a Elizabeth Bishop.

  
  

Si laurea nel 1917 e si traferisce a New York da sola, nel Greenwich Village, dove vive una vita molto povera ma molto stimolante, in un ambiente che era il fulcro della vita culturale e letteraria dell’epoca. Scrive drammi sperimentali per il teatro e articoli su riviste con lo pseudonimo di Nancy Boyd per mantenersi. E’ molto corteggiata ma molto indipendente.
 

Smoking!

 
Con il poema ⇨ Renascence ottiene il quarto posto nel concorso The Lyric Year, ma a detta di tutti avrebbe meritato il primo premio, così il vincitore del secondo posto le offre i suoi 250 dollari e una facoltosa mecenate delle arti Caroline B. Dow dopo aver sentito la Millay recitare le sue poesie e suonare il pianoforte al Whitehall Inn di Camden, nel Maine, ne fu così impressionata, che si offrì di pagare i suoi studi al Vassar College, che altrimenti Edna non avrebbe mai potuto frequentare.

  
  

Edna e Jan

 
La raccolta del 1920 A Few figs from Thistles suscita scandalo per la sua esplorazione della sessualità femminile. Nel gennaio del ’21 Edna va a Parigi dove incontra e ha un breve relazione con la scultrice ⇨ Thelma Wood e nel 1923 sposa Eugen Jan Boissevain vedovo di una sua compagna del Vassar College, l’avvocato e giornalista femminista ⇨ Inez Milholland.
Un matrimonio molto aperto che durò 26 anni, con vari altri rapporti per entrambi, come l’importante relazione con il poeta ⇨ George Dillon, che Edna aveva incontrato in occasione di una sua lezione all’Università di Chicago nel 1928, quando Dillon era ancora uno studente ed era di ben quattordici anni più giovane di lei. La relazione le ispirò i sonetti della raccolta Fatal Interview, pubblicata nel 1931.
 

Edna e George

 
Edna e Jan comprano la fattoria di Steepletop ad Austerlitz NY con orto e giardini, dove si stabiliscono.
 

Austerlitz estate 1929

 
Durante la Prima Guerra mondiale Edna è pacifista, ma nel ‘40 sostiene le forze alleate, cosa non molto ben vista nei circoli letterari. Scrive un articolo sul New York Times Magazine sulla città boema di Lidice devastata dai nazisti che poi le ispira il poema Murder of Lidice, usato come base per il film del ‘43 Hitler’s Madman. diretto da Douglas Sirk.
 
The whole world holds in its arms today
The murdered village of Lidice,
Like the murdered body of a little child.
2



 
Nel ‘43 riceve la Medaglia Robert Frost per il suo contributo alla poesia americana.
Boissevan muore nl 1949 di cancro ai polmoni e Millay vive da sola ad Austerlitz per l’ultimo anno della sua vita. Nel 1950 cade dalle scale per un infarto e viene trovata solo dopo 8 ore. E’ sepolta ad Austerlitz con il marito.
La sorella di Edna, Norma, e il marito, il pittore ed attore Charles Frederick Ellis, si stabilirono a Steepletop dopo la morte di Edna. Nel 1973 fondano una colonia di artisti sui sette acri intorno alla casa e alla rimessa. Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1976, Norma prosegue nel programma fino al suo decesso, avvenuto nel 1986.
 

La casa di Steepletop

da Storia di un avanguardia
di ⇨ Matthew Josephson
Il saggiatore, aprile 1965
Pag. 66-68
[ trad. Matilde Boffito Serra ]  
 
Una sera a Clemenceau Cottage il ronzio delle chiacchiere e il fuoco di fila dei paradossi si arrestò quando uno degli habitués si presentò con una giovane donna sui ventisei anni, piccolina, dai capelli color rame. Aveva un nasino all’insù e un sorriso incantevole, sebbene non fosse una bellezza, era graziosissima, parlava con una voce dolce e camminava come se fluttuasse nell’aria. Era Edna St. Vincent Millay, una delle voci nuove della poesia americana, che si era conquistata la fama qualche anno prima con la lirica Renaissance, diventando così la graziosa sibilla dell’epoca nuova. A quel tempo la su produzione teatrale, Aria da capo, in cui ella stessa doveva rappresentare la parte principale, era in prova al teatro dei Provincetown Players, sotto la direzione di John Light.
Edna Millay, la piccola fata di Rockland, nel Maine, e di Vassar College, creava facilmente intorno a se un’aria d’incanto a cui tutti bramavano partecipare. Ci raggruppavamo intorno a lei, pendevamo dalle sue labbra, la viziavamo un poco; i più maligni si esprimevano con dolcezza. Quando se ne andò parlammo di lei con profondo interesse. Circolavano già due sottili volumetti di sue liriche. Alcuni di noi che scrivevano versi, ma alla maniera di Ezra Pound, si domandavano se non ci fosse ancora nell’opera sua un pochino del gergo ottocentesco sulla natura e sulla vita. Ma gli altri ci fecero tacere indignati come se avessimo bestemmiato. Indicarono numerosi brani che riflettevano direttamente e con forza, la naturale personalità della Millay e non erano chiacchiere per amor della rima, Queste espressioni del suo alto spirito e del coraggio con cui affrontava la vita esercitarono un forte fascino sulle femministe di tutto il decennio. Numerose ragazze venivano da Radcliff o dal Vassar College per far carriera a New York, spronate da verso come: ”Oh mondo, non posso abbracciarti abbastanza stretto…”; parlavano arditamente di vivere in fretta e di andare in ferryboat a Staten Island con il loro giovane amico.
Senza dubbio Edna Millay descriveva il proprio godimento dei piaceri d’amore con una schiettezza e un’evidenza rare nelle poetesse dal tempo di Saffo in poi, e difendeva il diritto della donna all’”incostanza”, ben poteva essere stato incostante l’uomo, in passato, ma che apertamente una giovane donna dichiarasse passeggera l’attrazione provata per alcuni individui dell’altro sesso, e
 
…ragione insufficiente
per riparlarne quando c’incontreremo di nuovo.

 
era un po’ forte. E ancora:
 
Quali labbra baciarono le mie, e dove e perché.
Più non ricordo, e quale braccio si posò
Sotto il mio capo fino alla mattina…

 
Più di un galante conquistatore del nostro circolo letterario doveva essere scottato da quelle provocanti dichiarazioni. Ho interrogato recentemente in proposito una delle vecchie amiche della Millay, Susann Light, ora Susan Jenkins. Non erano offesi quei bei tipi della capacità di Edna di dimenticare il loro fascino virile? “Ah” fu la risposta “non ci credevano mica!”
Con mio rincrescimento vidi assai di rado Millay fino a parecchia anni dopo a Parigi. A dire il vero non era nel suo elemento, come a Staten Island o sulla costa del Maine. Non c’erano, lì, le onde dell’oceano, non selvaggi promontori, non gabbiani roteanti intorno alla sua graziosa testolina. Non bisogna dimenticare tuttavia l’effetto ispiratore, quasi di una George Sand americana, da lei esercitato sulla concezione morale della vita degli anni venti.


 

Fra i libri

 

 

VivaVoce#01: Thomas Stearns Eliot [1888–1965]
VivaVoce#02: Gherasim Luca [1913–1994]
VivaVoce#03: Sylvia Plath [1932–1963]
VivaVoce#04: Guillaume Apollinaire [1880–1918]
VivaVoce#05: Juan Gelman [ 1930, Buenos Aires ]
VivaVoce#06: Elizabeth Bishop [ 1911 – 1979 ]
VivaVoce#07: Virginia Woolf [ 1882 – 1941 ]

 

  1. tra le montagne e il mare dove cesti di mele ed erbe essiccate sotto il portico mescolavano i loro profumi a quelli delle vicine pinete.
  2. Tutto il mondo tiene nelle sue braccia oggi
    Il villaggio assassinato di Lidice
    Come il corpo assassinato di un bimbo piccolo.

Gamba tesa: Lotta di classi (prima puntata)

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ceci n’est pas (encore) un livre

 

 

 

Hip-Hop, Urrah

di

Francesco Forlani

C’è una lunga strada che attraversa la foresta che unisce e separa le due scuole in cui ho insegnato quest’anno. Per percorrerla tutta ci metti circa un quarto d’ora, precisamente sedici minuti e cinquanta a una velocità di cinquanta chilometri all’ora. Quanti chilometri è lunga la strada? Ma saperlo è davvero essenziale al nostro racconto? E se l’essenziale fosse altrove, ovvero nel fatto che una distanza separi le due scuole, una qualificata REP + e l’altra no. REP ( Réseaux d’Éducation Prioritaire) sono quegli istituti che secondo l’Education Nationale ( La Pubblica Istruzione, in Francia) sono confrontati a situazioni culturali e sociali particolarmente critiche e difficili al punto di richiedere la messa in opera di diversi dispositivi d’aiuto, economici e professionali, per tentare di combattere la diseguaglianza sociale con l’obiettivo di offrire anche ai ragazzi “svantaggiati” una pari opportunità di successo nella vita scolastica e a seguire professionale.

Io per un anno ho lavorato in una REP + dove il piccolo segnetto finale stava ad indicare in realtà un meno, ancor più meno fortuna dei REP semplice, controbilanciato da un più di mezzi a disposizione della direzione e del corpo docente.

Tutto questo vorrei diventasse un racconto che in realtà sto già scrivendo in francese e che vuole descrivere attraverso questa metafora della foresta, una fase della vita, l’adolescenza, che nelle scuole medie incarna la grande incognita dell’unica vera lotta delle classi che abbia una qualche importanza ai nostri giorni, una lotta che nella migliore delle ipotesi tutti vorremmo che finisse con un bel pareggio, égalité appunto delle opportunità e della libertà di scegliere davvero cosa fare della vita. Mai come ora ho vissuto sulla mia pelle – in realtà sulla pelle spesso nera dei miei studenti –  cosa volesse mai significare una frase sentita per anni, quella frase d’eco nietzschiana che più o meno invocava di fare “della necessità e del caso della vita l’esercizio della volontà e della libertà del destino”.

Questa premessa mi è servita per  tentarmi di spiegare  perché quando chi dal centro si avventura nelle periferie caschi nella maggior parte dei casi nella trappola mortale della tristesse dei luoghi, conferendo al proprio racconto una ulteriore tristezza dello sguardo, che per lo più e ai più rende ancora più insopportabile quella realtà.

Il caso ha voluto, poche settimane fa che due narrazioni completamente agli antipodi di uno stesso luogo si presentassero alla mia attenzione e  come lo scontro delle due – lotte di classe anch’esse – mi facessero capire che cosa mi accadeva quotidianamente, quando da una scuola all’altra, dall’al di qua all’al di là della foresta, passavo da un paesaggio all’altro della mia personale éducation nationale.

Quando Giuseppe Schillaci, cineasta, scrittore, nonché amico e redattore di Nazione Indiana mi aveva mostrato l’anteprima di alcuni videoclip girati dai nuovi migranti, materiali per un suo documentario per il canale franco tedesco ARTE,  avevo pochi giorni prima visionato sul sito di Repubblica Lo speciale, Prof in trincea: viaggio nelle scuole di frontiera. Il caso, sempre lui, ha fatto che dello speciale vedessi proprio la puntata sicula che è possibile seguire qui.

Partiamo allora da questa prima parte ma per arrivare da quell’altra, cominciamo da Caporetto peró magari con la testa già oltre il Piave. Quello che mi ha colpito di più nel materiale di presentazione del documentario su Arte era questo passaggio: « J’ai déjà joué pour des gens qui étaient arrivés depuis trois jours et qui trouvaient la force, après tout ce qu’ils ont vécu, de danser, de chanter et d’être heureux ! » ( Mi è già capitato di suonare per gente  sbarcata da tre giorni e che  trovava la forza, dopo tutto quello che aveva vissuto, di ballare, cantare, essere felice.) Quando ho visto alcune delle puntate dedicate alla questione dei REP italiani, ovvero di quelle scuole, soprattutto di primo grado, sorte nei quartieri periferici più a rischio, la prima cosa che mi ha colpito è stato il contrasto netto tra la vivacità dei ragazzi ripresi, per lo più non in chiaro, dalle telecamere e le espressioni disfatte, sconfitte, anche se non completamente, degli insegnanti. Prima di esporre allora la mia teoria devo dire che quella faccia la conosco, e conosco e ammiro l’impegno di chi lavora in questa realtà che il resto del mondo vorrebbe dimenticare per sempre.

Dal REP al RAP

La mia riflessione a questo punto riguarda il tono che la sinistra, l’ideologia detta di sinistra o quel che resta, utilizza per la narrazione del sociale.

(continua)

 

 

 

 

 

I poeti appartati: Silvio Talamo

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Silvio Talamo, poeta che ho avuto la fortuna di conoscere una decina di anni fa, ha appena pubblicato un libro, Poesie/Gedichte, in una elegante edizione bilingue curata dalla casa editrice ProMosaik. Milena Rampoldi le ha tradotte in tedesco. Ho chiesto a Silvio di pubblicarne qui su NI una selezione che spero troverà altre letture entusiaste oltre alla mia.

effeffe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prendi la mia immagine

Su, prendi la mia immagine, è un dono;

puoi farne quel che vuoi.

Accettala.

Puoi prenderla per mano,

piazzarla su di un trono,

attaccarla su di un muro, copiarla,

come un poster in cornice

puoi strapparla, picchiarla o sottometterla,

animale ingabbiato o liberato.

 

Puoi farci un buco con la sigaretta,

inciderne con la lametta l’angolo

o farne un idolo

– buon pasto per il pubblico,

lasciarla navigare sulla carne

dei tuoi sogni per farti trasportare

anche quando appare eretica.

 

Poi, sarà un aquilone

che scorrazza per la casa.

Lei crede bene d’essere il mio corpo

e vorrebbe, magari, farsi specchio,

essere vita che palpita, reale

così come certo è.

 

Solo, ti prego, fa attenzione. Quando,

nel trionfo del tuo assolo

ne avrai mangiato il frutto,

il clamore rifluito,

ricorda, per favore,

sta attento che non scappi…

 

Nimm mein Bild

Nimm mein Bild, ich schenke es dir;

Mach daraus, was du willst.

Nimm es.

Reich ihm die Hand

Setz es auf einen Thron

Häng es an die Wand, mach dir eine Kopie

Wie ein umrahmtes Poster

Dann zerreiß es, schlag es oder unterdrück es

Wie ein Tier im Käfig oder in Freiheit.

 

Du kannst es mit einer Zigarette durchlöchern,

Ihm mit der Rasierklinge in den Winkel ritzen

Oder es in ein Idol verwandeln

Und der Öffentlichkeit zum Fraß vorwerfen,

Lass es auf dem Fleisch deiner Träume segeln

Lass dich von ihm führen

So ketzerisch es auch erscheinen mag.

 

Es wird dann zu einem Papierdrachen

Der durch das Haus schwingt.

Das Bild hält sich für meinen Körper

Möchte wahrscheinlich zu seinem Spiegel werden

Ein flatterndes Leben sein

So wahr wie gewiss.

 

Möchte dich um Vorsicht bitten.

Wenn du dann,

Im Triumph deines Alleingangs,

Die Frucht verspeist haben wirst,

Und der Ruhm verebbt,

Achte darauf, dass dir das Bild nicht entflieht…

*

Precedente agli dei

Precedente agli dei, il tuo guardare,

lì dove ora la storia è nuda e scopre,

sulla terra che brucia, ti sei alzato

antico, in un istante aperto come

una porta sul tempo, una chiatta

sul flusso senza vele, a luce tenue,

quando solo il divino, nel silenzio

percepito – al riparo dallo specchio –

esiste e non le chiese, non i libri

e a parlare era il canto, a cantare

il corpo, a cibarsi ogni pianeta

attraverso la bocca tua affamata,

osservasti la forma, comprendendo

il suo mutare in altro, mentre uguale

la casa dove giochi, non svanisce,

si imperla nell’incenso, proteggendo

nel suo profumo i semi, ti nutristi

hai fame, il dono è questo,

un fiume senza foce è sempre mare,

lo sapevi, lo sai perché il tuo sguardo

è un canto, il tuo passo una risposta,

il tuo torace il tempio, uguale al vento

debole, come il chicco piccolo sei

(che dentro ha tutto il resto), mentre l’ombra

ti ascolta e gli elementi, appena complici

suoi, si intrecciano dentro torri, troni

e regge sconosciute all’architetto,

lo vedi e sei futuro, la radice

non vuole alcun martirio, alcuna croce,

muore il despota e tutta la sua corte

cola ora (in quel momento)

oro dal tuo naso,

vino dal costato

e guardi passo passo il tuo destino

che non comanda, esegue la scrittura

del tuo viaggio, che solo andando dice

 

ed ora certo sai,

ormai hai capito

da quale luogo vieni

e che come una radice è la presenza.

 

Vor den Göttern

Vor den Göttern, dein Blick,

An der Stelle der nun entblößten Geschichte und auf Entdeckungsreise,

Auf der glühenden Erde, bist du aufgestanden

In deiner Altertümlichkeit, einem offenen Augenblick

Wie ein Tor auf die Zeit, ein Lastkahn

Auf dem Fluss ohne Schleier, in einem schwachen Licht,

Wenn nur das Göttliche in der Stille

Wahrgenommen wird – geschützt vom Spiegel –

Und es existiert, ganz ohne Kirchen und Bücher

Es sprach der Gesang, er sang

Den Körper, er sollte sich von jedem Planeten ernähren

Durch deinen hungrigen Mund,

Du beobachtetest die Form und erfasstest

Ihre Metamorphose, unverändert

Das Haus, in dem du spielst, es verweilt,

Es benetzt sich mit Weihrauch, schützt

In seinem Duft die Samen, du spendest die Nahrung

Du hast Hunger, das ist das Geschenk

Ein Fluss ohne Mündung ist ein immerwährendes Meer,

Du weißt, warum dein Blick

Gesang ist, dein Schritt eine Antwort,

Dein Brustkorb wie ein Tempel im schwachen Wind,

Du bist wie ein kleiner (allumfassender) Mittelpunkt, während der Schatten

Dich erhört und sich die Elemente als seine Komplizen

in den Türmen, Thronen

Und dem Architekten unbekannten Palästen verflechten

Du siehst es und bist Zukunft, die Wurzel

Will kein Martyrium, kein Kreuz,

Es stirbt der Despot mit seinem Hof

Gold rinnt (in jenem Augenblick)

Aus deiner Nase,

Wein fließt aus dem Gerippe

Und du durchläufst mit deinem Blick die Etappen deines Schicksals

Das nicht befiehlt, sondern nur die Schrift

Deiner Reise ausführt, die während des Verlaufs spricht

 

Und nun hast du die Gewissheit

Nun hast du sie begriffen

Deine Herkunft

Und dein Dasein, das einer Wurzel gleicht.

*

Tra le carcasse non ci sono fiori

Tra le carcasse non ci sono fiori,
quando nel corpo restano solo ossa
immuni alla vita e gli sguardi trovano,
senza presenza, i volti, l’occhio che
guarda, se non altrove,
lungo la solitudine dei giorni.
Le rughe ostentate come armi.
È inutile cercare ancora lì,
dove tu sai che non ne troverai.

Ci hanno lasciato a custodire i ruderi
di un mondo che è caduto
e chi si è accontentato,
riesce a godere del proprio giardino
credendo di ingrassare,
tracotante di paura,
fra gli steccati che sono orizzonti.
C’è chi muore così come ha vissuto …

Accettarne la morte, prima ancora
di nascere, era il rito del cammino.
Non più ora, ed il mio passo resta
avulso dalle regole del clan:
non c’è tribù ma solo appartenenza.

Resto sui bordi al buio e tasto gli sgorbi
che sporgono dal muro,
cercando la fessura.
Arriverà il mattino,
lavorerò su quei fili di luce.

Zwischen den Schlachtkörpern keine Blumen

Zwischen den Schlachtkörpern keine Blumen,
wenn im Körper nur noch die Knochen bleiben
immun gegen das Leben, die Blicke finden
abwesende Gesichter, das Auge sieht
nur noch der Einsamkeit der Tage entlang.
Die Falten vorgezeigt wie Waffen.
Vergebens, dort weiterzusuchen,
wo du weißt, dass du sie nicht finden wirst.

Sie haben uns zurückgelassen, um die Ruinen
einer gefallenen Welt zu hüten
die sich mit sich selbst zufrieden gegeben hat,
sie genießt ihren Garten
und denkt, sie würde zunehmen,
überheblich vor Angst
zwischen den Zäunen, die Horizonte sind.
Es gibt Menschen, die sterben wie sie lebten…

Ihren Tod anzunehmen, bevor sie
geboren wurden, war der Ritus des Weges.
Nun nicht mehr; mein Schritt ist
losgerissen von den Regeln des Stamms:
Es gibt keinen Stamm, sondern nur Zugehörigkeit.

Ich bleibe an den Rändern im Dunkeln und fühle die Schmierereien, die aus der Mauer ragen
auf der Suche nach einem Spalt.
Der Morgen naht und
ich werde an diesen Lichtfäden arbeiten.

 

Il Dioniso Trasparente

La birra è rovesciata sul bancone

un velo appiccicoso

il legno acceso

che beve

esploso in spillatrici – fiotto di schiuma

dischiusa

sotto a volte di fumo

i manici stretti (boccali) spugnati

in leggere trasparenze

di vetro riflesso

è il gioco

risucchiato in bicchieri

gonfi di particelle

e gas abbagliante

in vortici

di dita stringendo

sigarette incoscienti

che le bocche

scia lo smalto viola

da labbra imburrate

in penombre fluorescenti

le luci rosso pallido

nostro intelletto nel rhum               le donne

-fianchi zebrati

investite da lingue blu (metallo) che graffiano sui

[pullover

e boccate di tenue lilla                  la gente raccolta

intorno al bar

in un successo di whisky e dispersione

che si urla lanciando

brevi segnali

strillati nelle orecchie il senso

è solo accennato il suo silenzio

tenera eco assordante

che filtra dal tweeter

fonde

e i ragazzi di luce storditi

per tutta la santa notte

dentro ai vicoli

due milioni di bar

la legge prende il caos

il caos scolora …

 

e torna      che vi faccia o no piacere

dio sconvolto                          prodotto

il carro ebbro di Dioniso                planando

le sue vesti illibate               stracciate dal catrame

sull’immateriale intrico di città

curva  incroci (l’intera specie operata)

che sbafa (rimpinzata)  smascherata

una danza incantata nell’immobile

stagno – il tempo senza memoria o materia

l’intero suo corteggio

di satiri pompati

che si danno

– le unghie sporche

e sudati

sui marciapiedi

e lo sguardo sbranato

lungo golfi di neon

e saliva incrostata all’angolo dei musi

quaranta milioni di segnali

al banchetto serale di noia e corse

in cui tutti immersi

sbattendo i piedi

in un bagno di clacson

cembali piume-vetrina                       colori

lungo mura-cartello (depilazione laser)

su corpi lisci evanescente obliati

 

ma è un Dioniso ferito

le membra trasparenti

ridotto incatenato quasi esangue…

<< Bisogna ciclicamente

dimenticare la propria esistenza>>

Questo era il suo annuncio

forse l’immagine non è così vuota

ma questo non ci è detto…

 

la realtà ha i tacchi alti…   passa per i tavoli

ciglio aguzzo e sfuggente le due mani

sulla gonna e balla in tondo

inebria percepita ammalia

(la panca piena di cappotti e sciarpe)

ma anche uccide

sempre ridendo                  nel nudo si colora

si svela a poco a poco

e torna a mutare

il suo passo confonde

il frammento e la sua festa

e come obbliga al ricordo

ne segui il vero

e la bugia

si fugge il lato       il più silente

della stessa superficie

fedele al suo amarsi     lei

quanto al tradirsi

 

Der durchsichtige Dionysos

Das Bier auf der Theke verschüttet

Ein klebriger Schleier

Das aufnehmende

Trinkende Holz

Geplatzt in Heftmaschinen – offene

Schaumwogen

Unter den Rauchgewölben

Die engen Griffe, die geschäumten (Bierkrüge)

In leichten Transparenzen

Des gespiegelten Glases

Das Spiel

Aufgesaugt in Gläser

Aufgebläht von Partikeln

Und trügerischem Gas

Im Taumeln

Der Finger, die bewusstlos

Ihre Zigaretten festhalten

Die Münder

Im Kielwasser des violetten Lacks

Gebutterter Lippen

Im leuchtenden Zwielicht

Die Lichter rot und schwach

Unser Verstand im Rum                           Frauen

-Mit Zebrahüften

Von blauen (Metall) zungen überfahren, die auf ihren Pullovern kratzen

Und Schlucke in einem hellen Lila                                 Die Menschen

Rund um die Theke

In einem Erfolg aus Whisky und Zerstreuung

Den man schreit, indem man

Kurze Signale sendet

In die Ohren geschrien, der Sinn

Wird nur angedeutet, sein Schweigen

Ein sanfter, ohrenbetäubender Widerhall

Vom Tweeter gefiltert

Schweißt zusammen

Und die Jungs, verwirrt von den Lichtern

Die ganze heilige Nacht

In den Gassen

Zwei Millionen Pubs

Das Gesetz fängt das Chaos ein

Das Chaos entfärbt sich …

 

Und kehrt zurück … Ob es euch passt oder nicht

Ein erschütterter Gott                           ein Produkt

Der trunkene Wagen von Dionysos                geleitet

Seine unbescholtenen Gewänder               zerrissen vom Teer

Auf dem immateriellen Knäuel der Stadt

Kurve, Kreuzungen (die gesamte Spezies operiert)

Sabbert (übersättigt) entpuppt

Ein verzauberter Tanz im unbeweglichen

Teich – die Zeit ohne Gedächtnis und ohne Materie

Mit dem gesamten Gefolge

Der hochgespielten Satyrn

Die sich offenbaren

– mit ihren schmutzigen Nägeln

Und verschwitzt

Auf den Bürgersteigen

Mit einem aufgefressenen Blick

Den neonbeleuchteten Golfen entlang

Ihr Speichel verkrustet an den Winkeln ihrer Mäuler

Vierzig Millionen Signale

Beim abendlichen Festmahl der Langweile und der Rennen

Vollkommen eingetaucht

Die Füße schlagend

In einem Bad von Hupen

Cembali Federn-Schaufenster                       Farben

Den Werbeplakaten an den Mauern entlang (Laserenthaarung)

Auf glatten Körpern, dahinschwindend und in Vergessenheit geraten

 

Aber es ist ein verwundeter Dionysos

Mit durchsichtigen Gliedern

Angekettet und beinahe empfindungslos…

<< Man muss zyklisch

Die eigene Existenz vergessen >>

So lautete seine Ankündigung

Vielleicht ist das Bild gar nicht so leer

Aber das erfahren wir wohl nie …

Die Wirklichkeit trägt hohe Stöckelschuhe … Geht durch die Tische

Eine scharfe Augenwimper, die den beiden Händen

Auf dem Rock entflieht und im Kreis tanzt

Berauscht, wahrgenommen, betört

(Der Bauch voller Mäntel und Schale)

Sie tötet aber auch

Immer lachend, entfärbt sich in der Entblößung

Entschleiert sich Schritt für Schritt

In ihrer Metamorphose

Der Schritt verwirrt

Das Fragment und sein Fest

Es erzwingt die Erinnerung

Du folgst seiner Wahrheit

Und seiner Lüge

 

Man flieht von der stillen Seite

Derselben Fläche

Treu zur Eigenliebe, so steht sie

Zum Betrug

 

 

 

Radio days: Stefano Guzzetti ed Enrico Coniglio

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In bilico nell’attesa del tuo prossimo respiro

di

Mirco Salvadori

 

Sono giunto fin qui spinto dalla sete che non mi da tregua. Sono assetato di pace, un bisogno irrefrenabile che mi obbliga a fuggire cercando luoghi abitati dai ricordi e dalle anime di chi li ha abbandonati lungo le pareti dimenticate dal tempo. Potrei seguire il volo del vento e salire in alto, sulle cime innevate e lungo i declivi dove il respiro della foresta si fa canto, potrei cavalcare l’ondata possente del calore proveninete da sud che mi trascinerebbe nel cuore del silenzio, nel rosso deserto a dialogare con le stelle e i miraggi lasciati evaporare come segno del loro passaggio. Potrei ma in quei luoghi non riuscirei a trovare le testimonianze di chi, prima di me, ha cercato di placare questa sete chiudendo gli occhi sul finire di un giorno qualunque, immaginando un luogo in festa, nell’attesa della persona perdutamente amata e del suo perduto respiro.

 

Scendo in profondità aggrappato alle vene che trasportano le scorie indurite del tempo, afferro le loro fragili strutture raggiungendo l’origine dell’eco che mi segue nella discesa. Toccato il fondo il passo inizia a procedere incerto e le vibrazionimi giungono chiare, di diversa natura. Seguono percorsi dissimili, schivando le macerie che ingombrano lo sguardo e obbligano al ricordo.

Il vuoto dell’abbandono mi affascina, il vuoto di vita che abita questi luoghi mi terrorizza. Scivolo lungo le pareti intrise di umida sabbiosa sospensione, allungo la mano immergendola in quella materia che, spugnosa, l’accoglie gocciolando intonaco e pietra scaduta, dimenticata, gonfiata dalla solitudine dell’abbandono. Le vibrazioni ora giungono distintamente. E’ musica che cola dagli stipiti di legno marcito, dal cavo delle finestre divelte, si stende come una pellicola collosa sul pavimento e sale lenta, inerpicandosi lungo il muro scrostato, lambendo il mio corpo, penetrando la mia anima fino a raggiungere quella scritta che urla e si dimena immobile nella tempesta di silenzio che la nutre da decenni. Help Me, grida sputando polvere e insetti rattrapiti nella secchezza della morte. Aiutami a raggiungere quell’angolo di sole oltre il lungo corridoio, raccoglimi nella mano e portami con te nel tepore del tuo battito, non credere ai bisbigli, non seguire quella voce che dolce racconta un canto. La gentilezza della melodia mi tiene legata a questo luogo da sempre, é droga che scorre fluida e velenosa unendo mattone con mattone, creando un’apparenza solida nella quale si moltiplicano le immonde creature che albergano la polvere, affollando ciò che resta del bianco vitale nel quale respiro, mia ultima difesa. Avvicinati, annusami, leccami, strofina il tuo viso sul mio umido segno, diventa parte di me e trascinami lontano, al centro di quell’angolo di sole oltre il lungo corridoio.

 

 

L’effluvio musicale mi stordisce e trasporta lontano, nel timbro solitario del pianoforte assaporo il piacere della decadenza diffusa nella gabbia dorata dell’eleganza lunare. Il luogo nel quale ora vago forse un tempo era proprio quel bar dimenticato, quella sala d’incontri satura di fumo e polvere bianca, la stessa che ora segna il mio incerto procedere mentre nel chiaroscuro intravvedo la sagoma di un inginocchiatoio.

 

 

 

 

La vedo appoggiarsi con equilibrio incerto su quel che resta dell’antica preghiera, é una figura esile dalla voce flebile ma profonda e sta cantilenando una frase come stesse nuovamente pregando, inginocchiata sopra un irriconoscibile strumento un tempo sacro: Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. L’Angelus Novus di Klee rivive nel suo lento salmodiare, ripete incessante la frase scritta da Walter Benjamin. Una preghiera, ultima, sussurrata tra le macerie del passato che lento scivola su queste macerie con rinnovata violenza distruttiva, verso un futuro dai contorni instabili, colorati di irrespirabile bianco vitale.

 

La luce mi attrae, fatico a guardarla ma il vento che leggero penetra il cieco sguardo delle finestre divelte mi spinge a seguirla. Mi lascio alle spalle la solenne liturgia di morte scavalcando la linea d’ombra, il confine oltre il quale ciò che si vede é. Il respiro del giorno riempie i miei polmoni intasati dal tepore dell’afflizione, la vita sembra torni a dialogare con la natura e questo sperduto figlio. Sento il suo canto, ascolto la dolcezza della sua pronuncia mentre descrive il padiglione del sogno, lì nella città abbandonata, un luogo sempre illuminato dalla luna e dalla melodia che l’avvolge.

 

 

 

 

L’euforia donatami dal contatto con la vegetazione, il suo intenso odore, il rumore delle foglie che terminano la loro breve corsa nella stagione del silenzio, pian piano scema. Le macerie si nutrono anche di luce e si ergono immobili e maestose davanti ai miei occhi. Nulla può la dolcezza del suono che penetra la ruggine, avvolge i nani e i bruchi dagli occhioni spalancati. Invade questo luna park un tempo abitato dal sorriso di un incontro agognato, dalla stretta di mano che rallentava i battiti del cuore impazzito, dall’abbraccio desiderato e mai ricevuto, dal bacio dato nell’improvviso fermarsi del tempo. Tracce, solo esili tracce sospese nel ricordo di musiche che ripetono all’infinito ciò che é stato e mai più sarà.

 

 

 

 

Solo allora chiudo gli occhi sul finire di un giorno qualunque

immaginando me stesso seduto sul ciglio di questo luogo in festa

in bilico nell’attesa del tuo prossimo respiro.

 

                                                      

 STEFANO GENTILE | MONICA TESTA | ENRICO CONIGLIO | STEFANO GUZZETTI – “NELL’ATTESA DEL TUO PROSSIMO RESPIRO” – 13/Silentes
2 x photo books (40 pages each – cm 25×25) + 2xCD in special package, ltd. 300 copies

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Remain in Light

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di Gianluca Veltri

“… Seen and not seen degli amatissimi Talking Heads […] racconta di un uomo che si sente brutto (quanto lo capivo!) e allora cerca, magicamente, di riplasmare il suo volto dal di dentro, per semplice forza di volontà, conformandolo a un identikit di bellezza […]. E alla fine comincia a sospettare che il mondo sia pieno di persone come lui, tutte in trasformazione dal loro aspetto originario alla perfezione a cui anelano […], intrappolate come crisalidi a metà della metamorfosi dal reale all’ideale”.

Raul Montanari, “Il regno degli amici”

Nell’ottobre del 1980 una band della new wave newyorkese pubblicò un disco che rappresenta il punto più avanzato mai raggiunto da artisti bianchi (e non solo) nell’ambito dell’afrobeat. Uno di quei momenti in cui il presente è fortissimamente intriso di un passato ancestrale e al contempo è proiettato verso un futuro che i più non riescono neanche lontanamente a immaginare. È vero, i Talking Heads avevano già realizzato l’anno prima un disco rutilante come “Fear Of Music”, che si apriva con un sorprendente pezzo tribale traboccante di Africa. Jonathan Lethem, che al disco “Fear Of Music” ha dedicato un’intera monografia omonima, descrive quel pezzo, Izimbra, come “un’operazione al di fuori dello spazio, del tempo e della mente”. Già questo aveva condotto la band di David Byrne alquanto lontano dai suoi nervosi esordi, da quei suoni acidi e urbani del primo primo disco “77”. I Talking Heads erano in profonda “trasformazione dal loro aspetto originario”. Erano trascorsi solo tre anni e collaboravano da un paio di anni con Brian Eno. Ma, seppure in “Fear Of Music” le avvisaglie non mancassero, una svolta clamorosa come “Remain In Light” era difficile da pronosticare. Quando un artista o una band giungono in pochissimo tempo a risultati così distanti dal proprio punto di partenza, significa che è in atto un processo creativo ribollente in continua progressione geometrica: un laboratorio che fuma e scoppietta nel quale la curiosità inarrestabile, l’inventiva, la sicurezza di sé, il desiderio di mettersi in discussione e di intraprendere percorsi anche sconosciuti non trovano ostacoli. David Byrne era il genio incontrastato di questo laboratorio, e la ditta parallela che aveva messo su con Brian Eno aveva già prodotto un lavoro d’avanguardia come “My Life In The Bush Of Ghosts” (che, sebbene realizzato precedentemente, verrà pubblicato poco dopo “Remain in Light”). In esso – in “Bush” – i due avevano utilizzato, fuori contesto, versi di predicatori e voci di mercanti, ritagli radiofonici, suoni dal deserto e dal Medio Oriente: il risultato finale era un collage di grande suggestione, sebbene per palati piuttosto fini. Una costruzione intellettuale, una gioia per menti parlanti.

Remain In Light”, che pur proviene in buona misura dalla stessa forgia, è invece una frastornante, policroma giostra di melodie e strumenti, una gioiosa macchina di ritmo che rimanda al continente africano. Senza che ciò sminuisca il suo valore – anzi – potremmo definirlo molto più fisico di “My Life In The Bush Of Ghosts”. Registrato in più sessioni, con il contributo attivo di tutti e quattro i Talking Heads – non solo Byrne, ma anche Jerry Harrison, Tina Weymouth e Chris Frantz – il disco suona come la somma ricca e strabordante di idee e contributi; come una turbina multicolore che infine miracolosamente trova l’equilibrio e l’armonia; l’accatastarsi di minimalismi che infine fanno un pienone. Otto tracce: tre su un lato, cinque sull’altro. Se proprio si vuole rintracciare una connotazione distinta tra le due facciate: la prima al fulmicotone, mozzafiato, frenetica come un inseguimento senza mai voltarsi indietro, in forma di scorribanda; una navigazione a vele spiegate; la seconda intimista e oscura, atmosferica, con degli approcci maggiormente “ambientali”. E se diverse tracce risultano come cerchi di funk martellante e frenetico, pervase da un demone ritmico iterativo, altri episodi, specie quelli finali, sembrano evocare delle traversate dentro il deserto o in un cuore di tenebra: Seen And Not Seen è un capolavoro di introspezione tribale, e la conclusiva The Overload è una solenne, tenebrosa, lentissima cavalcata notturna: la voce è ieratica, gli echi dei synth sinistri; tutto sembra provenire da un altro mondo o da un altro tempo.

I pezzi di “Remain In Light” ciascuno di essi un mondo, sono costruiti per giustapposizioni e sovra-incisioni di molteplici figure ritmiche e altrettanti frasi melodiche che si intrecciano, le une e le altre, fino a creare un’unità poliritmica e polimelodica. Non si fa fatica a pensare che Byrne & soci, durante le sessioni di registrazioni, ascoltassero a tavoletta Fela Kuti. La concezione attorno a cui ruota il lavoro dei Talking Heads rimanda pienamente al metodo del maestro nigeriano. Andatevi a riascoltare Zombie o Shuffering and Shmiling o Alu Jon Jonki Jon o Colonial Mentality di Kuti: lì troverete la culla di “Remain In Light” Nel 2014 Brian Eno riuscirà a colmare un antico rimpianto, producendo un lussuoso box set dedicato a Fela Kuti, e come si vede tutto si tiene.

È impressionante l’effetto-groove che viene creato dalla girandola delle cellule ritmiche e strumentali. Ciascun brano insiste per tutta la propria durata su una sola nota. “La maggior parte delle canzoni non aveva un giro armonico” – ebbe a dire Byrne a proposito dei pezzi del disco. “C’era un unico centro tonale che andava avanti per tutto il pezzo e degli accordi che si sviluppavano intorno a quello”. Come una goccia che si riempie sempre più e s’ingrossa fino a diventare un lago.

Il singolo, nonché pezzo di maggiore presa dell’album, con un vero e proprio ritornello cantabile, era la liquida Once In A Lifetime, fortemente giocata sulla formula del call and response tipica delle occasioni devozionali. Che Byrne fosse molto affascinato dai sermoni dei predicatori è cosa nota, del resto. E anche che andasse esplorando gli anfratti del mondo per estrarne il succo – Africa, Asia, Sudamerica. Di strato in strato, alle registrazioni originarie vennero aggiunte parti di chitarra di Adrian Belew (già con Zappa e Bowie e di lì a poco con i King Crimson); assoli del grande trombettista e ricercatore Jon Hassell, che quello stesso anno dava alle stampe proprio in coppia con Brian Eno un altro manifesto sonoro e etno-antropologico come “Fourth World Vol. 1 – Possible Musics”, e che, qualche anno più tardi, avrebbe dato un contributo imprescindibile al formidabile esordio solista di David Sylvian, “Brilliant Trees”. Eno, dal canto suo, sempre in quel 1980, sfornava il suo “Ambient 3” in tandem con Laraaji. Come si vede, succedeva tutto attorno a protagonisti ricorrenti e in un fazzoletto di tempo: siamo all’epicentro spazio-temporale di un coacervo di concezioni, intuizioni, al giro di boa del decennio in un “mondo di mutanti incompiuti”; intrappolati – per riprendere ancora le parole di Raul Montanari – “come crisalidi a metà della metamorfosi”: quella metamorfosi che sta in un cerchio tra post-new wave, ambient, world music, ricerca, elettro-etnica.

La freschezza e la permanenza negli anni di “Remain in Light” è stata confermata trentotto anni dopo dall’operazione compiuta dalla cantante del Benin, Angélique Kidjo, che nel 2018 ha pubblicato “Remain in Light”, un intero cover-album del disco dei Talking Heads, con la stessa scaletta, certificando una volta di più la vocazione ostinatamente afrobeat del lavoro di Byrne e co. Kidjo è riuscita a rendere ancora più smaglianti e preponderanti gli elementi africani del disco, accentuando ad esempio le melodie vocali che Byrne accennava nervosamente, o enfatizzando delle cellule ritmiche. Ma, insomma, era tutto già lì. Pronto per essere magicamente riplasmato.

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di Gianluca Veltri

“Sono tutti vittime delle circostanze
Di antiche campane che recano
Tutta la paura del mondo, timida e nuda

[…]

Ma i conigli hanno abbandonato le loro tane
Si sono riconsegnati alla terra”

(David Sylvian “Gone To Earth”)

Chiedo scusa se parlo di Maria, cantava Giorgio Gaber. Era una maniera per schermirsi, quando il suo tarlo tornava a galla, nel momento in cui quella cartina di tornasole ricompariva a reclamare la sua visione della vita. Come i saggi di Roland Barthes, che pretendevano di vedere il mondo attraverso una fava.

Ognuno ha la sua finestra affacciata sul mondo, la sua feritoia sulla vallata, e David Crosby è la mia.

La vita è un romanzo, dice Alain Resnais. Come l’avrebbe raccontata, lui, la vita di Baffo Van Cortland alias David Crosby? Riemerso da varie vite precedenti come in un serial che però era la sua esistenza, avviluppato sulla scala a spirale del proprio inferno personale. L’ho riascoltato in un disco registrato dal vivo nel 1986 a una radio americana. Si intitola, quel disco privo di grazia, “Silent Harmony”, ed è stato pubblicato solo nel 2017. Il 1986, l’anno a cui risale, è il nadir di David Crosby: sono trascorsi quasi dieci anni dal disco della barca con Stills e Nash: ogni cosa si è rabbuiata, si è spento il sole californiano, tutto è passato e futuro niente. Deriva, droga, carcere. Ascoltare “Silent Harmony” non è bello: quella glossa – “armonia silente” – contenuta nella celestiale “Guennevere” rimanda a tempi – il 1968 – in cui Crosby era al centro del suo mondo, ispirato come un poeta pieno di luce e ascoltato come un profeta o un guru, avvolto in un mantello di sapienza e carisma. Cos’era diventato, dopo? Un attaccabrighe di periferia; un tossico collerico che stava distruggendo la sua mente e il suo fisico. Un uomo infelice, pieno di rammarico e risentimento. Nel live del 1986, Croz è sovraeccitato, presenta in modo logorroico le sue canzoni, splendide ma suonate in modo approssimativo, con un tocco greve sulle corde. Non è più al centro del suo mondo; o forse è al centro di un altro mondo – brutto, buio, sbagliato, pieno di rabbia e rimpianti.

Dopo il suo ritorno sulle scene con “Oh Yes I Can” nel 1989, diciotto anni dopo “If I Could Only Remember My Name”, a Crosby capitavano un sacco di cose interessanti, tra le quali, più di tutte, riscoprire il figlio perduto James Raymond, destinato a diventare alter ego artistico inseparabile. Poi faceva incontri, con artisti già acclamati che volevano collaborare con lui, e con giovani talenti che lo consideravano il loro mentore.

E siamo ai giorni nostri.

È il 2014, e Crosby ha pubblicato a suo nome soltanto tre album:

“If I Could Only Remember My Name” (1971);

” Oh Yes I Can” (1989);

“Thousand Roads” (1993).

A partire da quell’anno – ha 73 anni – il songwriter californiano pubblica quattro album in un lustro scarso, fino al 2018. Più precisamente:

“Croz” (2014);

“Lighthouse” (2016);

“Sky Trails” (2017);

“Here If You Listen” (2018).

Considerando che “Croz” esce a oltre venti anni dal precedente album, è stupefacente registrare la freschezza senile e la felicissima prolificità di un musicista proverbialmente parco: tre dischi in quarantatre anni, quattro nei successivi cinque. Una parabola unica; una doppia anomalia. Ma adesso arriviamo all’incredibile: perché questi quattro album di un artista ultra75enne già leggendario sono tutti e quattro di una bellezza ispirata, stupefacente, abbagliante. È come se Crosby si fosse conservato tanta grazia a bella posta. Come avesse serbato dentro di sé e messo al sicuro una silente armonia, un universo intatto, un pozzo di perle, nascondendole ad arte nei giorni bui, per poi esporle in serie.

Di solito nelle ultime uscite discografiche dei grandi vecchi, dei mostri sacri, ci accontentiamo di qualche zampata, di un lampo antico in mezzo alla mediocrità inevitabile del presente: il passato parla per loro, non pretendiamo di più, ci basta avere un lavoro nuovo che testimonia la loro vitalità, la loro esistenza. Con David Crosby non funziona così, è tutto radicalmente diverso: la sua carriera ellittica si è popolata di capolavori con i Byrds (cinquant’anni fa!), con Stills, Nash e Young; con i tre primi album usciti a tanta distanza l’uno dall’altro. Long Time Gone. Mentre pensavamo a lui come a un vecchio bonario che aveva recuperato almeno la salute e la voglia di vivere, lui sforna quattro capolavori. È un artista che ha un mondo dentro di sé, ha il mondo dentro di sé, e non smette di raccontarcelo. Un’anima traboccante che non cessa di meravigliarci.

Il terzo capitolo di questo poker (“Sky Trails”) si chiude con uno dei suoi pezzi più meravigliosi. Si intitola “Home Free”, una glossa che può significare molte cose: “sicuro di farcela”, o anche “fuori pericolo, in salvo”. Crosby canta delle notti di pioggia e della splendida felicità di avere un tetto sopra la testa; della necessità di non smettere mai di ripetersi “come sono fortunato”. Si sente “come un neonato avvolto in una coperta che non ha niente da temere”; come “un albero che sa sempre dove cadranno le sue foglie”.

“Home Free” è il canto di un uomo che sa cosa significa non avere casa da nessuna parte; che è stato randagio e reietto, senza pace. Un uomo che per anni si è sentito ben diverso da un neonato avvolto in una coperta. È un brano, questo, che contiene la parola home, casa. In musica, quando si torna all’accordo principale del brano (l’accordo di tonica), si dice che l’armonia “torna a casa”, diventa tranquillizzante, ossia riporta tutto a posto, si pacifica, rassicura l’ascoltatore. L’accordo di tonica di “Home Free”, quello che dovrebbe “riportare tutto a casa”, contiene intervalli armonici estremamente dissonanti (è un accordo di sesta nona), che lasciano aperte sospensioni larghe e inquietudini profonde. Anche mentre canta la meraviglia di sentirsi a casa, di percepire se stesso aggrappato alla sua terra, Crosby non rinuncia all’ambivalenza delle sue note oblique. Non è mai rotondo, sarebbe troppo facile: è la sua cifra, è la sua grandezza.


Radio days: Gianni Maroccolo

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Immagine di Marco Cazzato

Altrove

di Mirco Salvadori

 Lento sembra vagare per la tundra, lo sguardo calmo dal riflesso lucente. Da lontano appare come uno scuro batuffolo che si muove con leggera gentilezza, una delicata creatura giunta fin qui dopo miglia percorse nel lampo del tempo che trasforma lo zoccolo, da tenero supporto del sogno a possente appoggio capace di sostenere il lungo e faticoso viaggio di una vita attraverso il suono del proprio respiro.

 

I ricordi lo attendono acquattati tra i licheni che giacciono semi sommersi dall’umidità del terreno. Uno in particolare continua ad apparire in tutta la sua lucida violenza, un ricordo che risale alla sua gioventù, quando ancora l’innato bisogno di scoperta rendeva inutili i richiami e le raccomandazioni dei compagni. Era come un canto che all’improvviso iniziava a propagarsi lungo le pianure e i crinali delle montagne, una voce suadente che accarezzava tutto il corpo suscitando brividi di piacere. A volte si percepiva come armonia che scendeva leggera dal cielo azzurro, altre iniziava a farsi udire quando le nuvole si coloravano di nero, esplodendo in un furioso e incontenibile urlo. Impossibile resistergli, impossibile non cedere all’impeto della natura seguendolo per scoprire fin dove l’avrebbe trascinato. Iniziava così a filare precipitandosi verso i limiti invisibili, oltre le immense pianure che occupavano le stanze del suo mondo. Al galoppo, a testa bassa dentro il furore del vento del nord, sfidando le sue forze, mosso dall’incontenibile voglia di conoscere che rendeva inutili i moniti di chi prima di lui si era arreso, sfinito nella furia della tempesta.

 

Immagine di Marco Cazzato

 Il suono dolcemente iterato degli zoccoli che sprofondano nel manto nevoso lo aiutava a concentrarsi. Come sempre aveva trovato una radura discosta nella quale cercare qualche verde arbusto. Tutti sapevano che era un tipo solitario, alle domande seguivano sempre le sue lente risposte che sembravano giungere da luoghi lontani, inaccessibili. Per questo che lo chiamavano Altrove. Quel nome non gli dispiaceva: conteneva l’essenza delle sue visioni, racchiudeva in poche lettere quanto di più vasto e sconosciuto possa esistere oltre il limite della tundra, lì dove pochi erano giunti. Il silenzio era totale nella bianca e luccicante radura che lo accoglieva, la natura e gli esseri viventi che la abitavano sembravano immersi nell’immobilità assoluta, una frazione di vita sospesa che mantiene le sue pulsazioni grazie a qualche fremito di brezza tra le poche foglie ancora visibili e il calore che usciva in forma di vapore dalle narici di possenti creature destinate a sopravvivere in condizioni estreme.

 

Il silenzio é suono, pensava Altrove, porta con sé impercettibili segnali, basta ascoltarlo. Qualcosa stava succedendo ma il cielo era ancora troppo azzurro e il suo istinto troppo rilassato per presagire altro se non ricordi.

 

 

La tormenta non gli permetteva di vedere oltre il suo passo, ma sapeva che la linea di confine non distava molto, tre quattro giorni di marcia. La determinazione nel procedere lungo il terreno impervio, contro l’affronto delle continue raffiche di gelo e la mancanza costante di pace lo avevano reso apparentemente insensibile alla stanchezza. Mentre procedeva faticosamente, ricordava quanto gli era stato paventato da chi aveva tentato di percorrere quella stessa via. Una volta varcata la soglia dei territori sconosciuti, avrebbe trovato paura, indecisione e solitudine, mortali compagne con le quali confrontarsi. Gli occhi oramai quasi serrati nella morsa del ghiaccio, i muscoli inutilmente tesi nello sforzo supremo, lui continuava a profanare l’urlo del vento, lo penetrava aumentandone l’ira feroce. Doveva fermarsi, cedere per qualche minuto raccogliendo le forze e poi nuovamente continuare per raggiungere quel maledetto confine oltre il quale… la stanchezza lo colse repentina manifestandosi con le fattezze di una bianca creatura che allargava le braccia accogliendolo.Gli occhi si chiusero, le forti zampe cedettero sprofondando nell’inconsistenza del sonno che tutto libera e trasforma. Riusciva a vedere sé stesso sommerso nella neve gelida, riusciva a sentire l’urlo insistente che vorticoso faceva scomparire le tracce rendendo impossibile il ritorno. Percepiva il sopraggiungere della fine, ma in quel luogo la pace regnava sovrana. Socchiudendo gli occhi riuscì ad intravvedere la bianca figura raggomitolata attorno al suo corpo che lo stringeva a sé parlandogli con calma, lentamente, sottovoce. Durò solo la frazione di un istante ma bastò per permettergli di affrontare sconsolato la lunga via del ritorno. Molti anni erano trascorsi da quel viaggio nell’ignoto ma il ricordo di quell’abbraccio non svaniva, anzi si rafforzava con l’andare delle stagioni.

 

 

 

Il silenzio é suono, pensa Altrove, porta con sé impercettibili segnali, basta ascoltarlo. Il primo strato di soffice coltre nevosa iniziò a danzare attorno ai suoi zoccoli, nel giro di pochi minuti l’azzurro nel cielo svanì cedendo il posto a cumuli di cupe nuvole gravide di nero intenso. Altrove le guardò ammassarsi sopra il piccolo angolo di mondo che conteneva il suo respiro e sorridendo accolse la bufera che improvvisa esplose, accompagnata del furioso urlo del vento. Era tempo di tornare lì dove la stanchezza lo aveva fermato, affrontando nuovamente l’instabile equilibrio dell’ignoto, doveva ritrovare quell’essere lucente per placare la sua inquietudine nel cristallino sussurro di quella voce.

 

 

Dopo giorni di duro cammino sentì di aver raggiunto un luogo oltre il quale era impossibile proseguire. Immerso nell’accecante fragore cercava di intravvedere qualcosa muoversi ma ciò che lo circondava era solo turbinio di neve.

La pesante testa lentamente si adagiò sulla soffice neve che l’accolse con calore inaspettato, il frastuono che da giorni regnava sovrano cessò all’istante e l’eco di un sussurro iniziò a vibrare nell’aria. Tu sei tempesta e tu sei l’urlo del vento. Tu sei la sterminata distesa nella quale vaghi da tempo immoto, tu sei la neve e tu sei il muschio che rigoglioso ricopre la terra. Tu sei l’acqua che si insinua sotto la sua superficie, tu sei il suo respiro, il suono che ne scaturisce. Tu sei un piccolo possente bue muschiato, sei l’universo che lo ospita, tu sei qui e tu sei Altrove. Lento sembra vagare per la tundra sconfinata quel poderoso e delicato bue muschiato, ma il suo sguardo ora sa dove posarsi. È giunto il tempo di seguire l’urlo della tempesta e il richiamo del silenzio, l’istinto che impone il balzo verso territori inesplorati, mantenendo sempre luminosa la scintilla della memoria che illumina il passo.

 

Visto da lontano ora appare come un bioccolo che procede avvolto nell’armonia che soffice lo accoglie nel perpetuo abbraccio della solitudine che stordisce, nutre e cura.

 

 

 

 

 

 

NApolinaire Sud: Luigi Cinque + Jean-Charles Vegliante

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Composizione
di Luigi Cinque

Kostro, Ungà, e bisbidis

di

Jean Charles Vegliante

Quivi babbuini,

Romei, peregrini,

Giudei, saracini,

Vedrai capitare.

(Immanu’el ben Shelomoh, Bisbidis, post 1313)

Quale, ammesso che ci debba proprio essere, il vero luogo della poesia? A parte quello mentale, delle “chiare, fresche et dolci acque” liriche (tra l’altro, probabili onde di un fiumiciattolo straniero, La Sorgue) da sempre straniato, e in realtà di “gnessulógo” reale financo nel piccolo paese del neologico scrivente (Zanzotto): ciò sia dato per scontato. Ab origine. E scontiamo pure, da subito, il nostro contemporaneo generico “non-luogo” di oggi, stazioni aeroporti empori centri commerciali e altri spazi inabitabili – salvo per chi ci sia di già in transito, in attesa, in latitanza più o meno nomade, va da sé. Addirittura banale, ormai, basti vedere tutto il folto sottobosco di pseudo-eredi del grande Ungà italofrancese: pullulanti. Da dimora a controra. Tra questi due estremi, pur sempre vigenti, comincia forse con Marino – il “miglior fabbro” barocco checché se ne dica, “le chevalier Marin” insomma, capace di farsi finanziare dal re di Francia i ben 40984 versi dell’indigeribile Adone (hai detto niente) –, comincia dunque, una volta conciato il Concini e ridimensionata – si direbbe oggi – l’influenza eccessiva della “grossa banchiera” Maria de’ Medici, comincia e tuttora continua il grande dispatrio (termine

Palimpseste_Traduire en autobus (Jean-Charles Vegliante)

opportunamente coniato da Meneghello in Gran Bretagna qualche secolo dopo) e la soluzione definitiva del legame con la terra matria, nella poesia post: fino a quella del Carnevali, della Rosselli, di Portante con la sua “étrange langue”, dell’amico Forlani… e di quanti cercano di cavarsela, dove il dente batte, anzi la lingua langue. Zac, fine dell’appartenenza. Diremmo quasi col pericolo (secondario) della volgarmoda, quasi. E allora, oggi, bisognerebbe essere invece apollinamente quasi “indifferenti al fatto di non esser moderni” (Roland Barthes, 1977).

Cotale poesia moderna però c’è, o ci fa. E nasce forse, volendo schematizzare al massimo, dall’incrocio alquanto innaturale, all’inizio del “secol breve”, tra mal di vivere pascoliano e allegria – ma altrettanto innovativa sul piano metrico – del figlio di Apollo, o comunque teoforo apollino Kostro Apollinaire. E si sarà notato come, nelle due espressioni scelte, intendevo adombrare l’ombra portata, la “ombre aveugle” de L’émigrant de Landor Road (“je ne reviendrai jamais…”), proiettata però molto più in là, e dopo, sul caro Ungaretti e obliquamente su Montale. Non vorrei scomodare la terza ombra – ché tre piedi ci vogliono sempre, come minimo, per reggersi da soli – esattamente coetanea dell’egiziano lucchese (di sei mesi più giovane per l’esattezza), Thomas Stearns Eliot, futuro premio Nobel; come Montale il senatore (“e Ungaretti fa all’amore”) del resto. I conti tornano. Senza scomodare Apelle (figlio d’Apollo, ecc.) per il momento. Comunque vadano le stelle, buone o cattive, ci si innalza dalle stalle, assai decisamente, salvo poi a soccombere – ma quanto indebolito già l’omo dal grande primo macello mondiale – alla prima invasione del virus H1N1 e congestione polmonare. Virus post-pallottola. Già. Come molti sanno, credo, Ungaretti non fece in tempo a visitarlo vivo e rimase fortemente scosso dal rapido susseguirsi di segni oscuri (folle parigine sfilano al grido di “À mort Guillaume!” – alludendo certo al Kaiser Guglielmo II, ma “l’equivoco del grido era atrocissimo” –, mentre appena tre anni prima si era suicidato l’amico libanese “marcel”, Mohammed Sceab). Lo stesso Ungà doveva fare a Parigi la vita dell’immigrato postbellico, collaborando tra l’altro al quotidiano di Luigi Campolonghi Don Quichotte e anelando, come già il suo Kostro, naturalizzato solo nel 1916, alla “patria ideale”, vista ancora come “pays innocent” (La Guerre – Une poésie, suo primo libro “in proprio” a tutti gli effetti, francese). Beati loro! Fantasma forse della lingua lattante, lingua tra i denti di latte – qualcosa come il petèl, ma i “denti di latte” sono stati pure di Majorino – con nìole bianche, nàiva di panna e nâ rinnovata (come in Audiberti), e giù nüvie genovesi, eterne nüvie che van a-o mâ… che va al mare, donca. Già sparita. Sic transit ecc. e insomma lingua che dal latte si scompagni (Leopardi). I luoghi, se così vogliamo dire, si spostano o svaniscono o sbiadiscono, comuni. Referente cosmos indifferente neutrale. Solo il dolore rimane. E infatti, “Je demeure”, con tanto di Je declamava Apollinaire nella straordinaria Pont Mirabeau, poesia di cui si ha una versione con la sua voce leggermente in falsetto, stridula a volte, commovente in un omone qual era lui, quasi “uno dei barbari imperatori di Roma educati da Seneca” (G. Ungaretti, 1919). Sic bisbiglia bisbidis. Almeno fino al ’22, al ’33 (eh sì, magia dei numeri: controllate le date, che son quelle).

Référent_Lécorce-des-platanes ( Jean-Charles Vegliante )

C’è un bisbidis infernale, tra Soffici Picasso Marinetti Salmon Modigliani Max Jacob De Chirico Cendrars Savinio Eliot Ungaretti Rilke o Billy, nella Parigi di quell’epoca. E, qualche anno dopo Joyce, Magnelli, Ezra Pound, Stravinsky, tanti altri (compreso Rommarico neapolitanus – in partibus)… e già allora, “des émigrants tendaient vers le port leurs mains lasses” (L’émigrant de Landor Road) mentre su un altro pianeta – o forse anywhere out of the world – un tale Dino Campana senza saperlo aggiunge un tassello transnazionale-provinciale al bailamme parigino: “ma ringhiano feroci gli italiani” (Buenos Aires). In attesa di desistere, davanti agli attacchi via etere (le onde radio Edison, come più tardi Amelia Rosselli davanti a quelle della CIA). Piccolo paese mondo, di nuovo. E siamo giunti così ai più stabili quattro piedi, ormai. Le tour est joué. Al tavolino per il libro (facciamolo: Apollinaire, Ungaretti, Eliot, Campana). O, come avrebbe detto ancora Ungaretti, di lì a poco: al nuovo classico, o “classico moderno”. E l’ossimoro incide più dei due rami della coppia, come non ha capito la critica ufficiale, attenta al dito (anzi qui ai due diti) e non all’oggetto additato (la luna vaga della metrica nuova). Se si vogliono prendere in considerazione i tempi lunghi della cultura, forse veniva a chiudersi allora il periodo iniziato con Une saison en enfer (1873) e la circolante “Lettre du Voyant” (a Paul Demeny). Periodo tragico se non fosse stato comico. Per chi non c’è dentro, s’intende (lontani da Verdun, allora, e oggi da Aleppo). Chissà se l’Apollinaire come nom de plume del neapolitanus non sia stato forgiato invece, a ripensarci, su Apollyon il distruttore (dall’antico greco apóllumi “distruggere”), fosca divinità vicina all’Abaddôn ebraico? Fumo e cenere. Ma già con Vers et prose del 1906, probabilmente una certa quiete prevale; voluta ma non pacificata; ma se andate oggi in cerca di informazioni “apollini” basilari sulla rete, vedrete pure (in un corpo più grande, là, mi raccomando) che: La page Wikipédia [su Apollinaire] est inaccessible aux modifications : “Cette page est l’objet de vandalismes répétés ; et/ou Cette page subit une guerre d’édition”… Ancora. Di nuovo. Sempre. La guerra non finisce di finire, a quanto pare. Meglio comunque chiudere con il “classico moderno” – ossia versi liberati, citazionismo e arcitesto, scelte mistilingui, confusione dei generi… –; sì, meglio del ritorno all’ordine (così dissero) e del conformismo di forme e di opinioni, anche “social”. Ovviamente “social”. Oltrepassato e assimilato il Bisbidis degli inizi eroici o ingenui, eccome. Per quanto mi riguarda, se licito m’è, là in qualche modo ero e sto ancora. E quindi chiudo.

 

(alla “Nouvelle Athènes”, giugno 2018)

Radio days: Mirco Salvadori

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Noduli Cellulari

 di Mirco Salvadori

 

Si era ripromesso di trovare il tempo per perfezionare la funzione generatrice di matrici di scale. Poteva agire nidificando i tre cicli che subito lo avrebbero scaraventato nel fluido 3D del parallelepipedo tonale. Purtroppo, quel tempo così abbondantemente sperperato davanti al video del computer era giunto al termine. Non aveva più accesso all’ambiente di sviluppo online, quindi doveva immettersi direttamente dentro l’intercamera plastica sperando di evaporare attraverso i mille fori che popolavano le sue pareti.

Inconsapevolmente sperperare il tempo. Irresponsabilmente abbracciare la staticità, tramutando le continue, inutili e spesso false informazioni che infestano la rete in rettili capaci di rapire e sbranare l’attenzione. Rettili che trasformano la socialità del soggetto, immobilizzandolo all’ombra del loro riverbero digitale che sputa in continuazione la vocale privativa – una a che si incastra con le altre al pari delle mattonelle colorate del Lego. Il risultato è un lungo serpente dalle movenze ipnotiche, con le zanne velenifere ben conficcate nella parola che intende ingurgitare.

 Come? Un sacchetto, se voglio un sacchetto? Faticava a parlare, l’asocialità iniettatagli dal morso di quella serpe non gli permetteva di interagire con la cassiera del supermarket: faticava a comprenderla e a distinguere il luogo nel quale si trovava, la mente sempre immersa nel brodo primordiale delle sue teorie. Si spostava con difficoltà, affrontando il tragitto verso il grande emporio convinto di trovarsi in un’extradimensione che lo allontanava dall’abbraccio confortevole della virtualità. Avvicinò il codice a barre dello scontrino al lettore posto sui tornelli d’uscita che si spalancarono, riportandolo nuovamente al centro di un labirinto che neanche il migliore JR Schmidt avrebbe saputo ideare e disegnare. Il suono continuo dei droni placò la sua ansia crescente: era tempo di migrare, il tasto Enter avrebbe reagito anche anche alla più lieve delle sollecitazioni.

Quando si è soli, anche se non si fa niente, non si ha l’impressione di perdere tempo. In compagnia, invece, lo si sciupa quasi sempre… che tu sia benedetto, mio amato filosofo, pensò BVTS. Era incredibile come non ricordasse più il suo vero nome ma solo il moniker che ormai lo contraddistingueva come uno dei migliori sound artist in circolazione sulle piattaforme di informazione musicale indipendente. Building Virtuality Through Sound: bastava questo appellativo e la vasta densità del suono elettronico di ultima generazione fluiva attraverso i ricettori dei suoi follower. Erano migliaia, sparsi in tutto il mondo. Indubbiamente ci sapeva fare con le macchine, riusciva a creare poesia sonica lì dove tutti vedevano soltanto un ammasso di cavi e cursori e potenziometri. Al pari di un abile ladro di auto, si piegava sul cruscotto collegando i fili e magicamente il motore cantava aspirando nei suoi cilindri una miscela innovativa formata da ambient, noise, field recording, dronescape e qualsiasi altra sostanza capace di interagire con la virtualità, unica dimensione possibile nella quale vivere ed espandersi. Frequentava Emil Cioran attraverso gli indirizzi dei siti dedicati ai suoi aforismi, che usava come titoli per le sue releases. Questo era tutto ciò che in realtà conosceva del filosofo rumeno.

Il tasto Enter sembrava pulsare nell’attesa del contatto, ma come sempre la sua attenzione era rapita e vagava immersa nelle immagini in costante mutazione che allagavano di impulsi lo schermo del computer. “Cellular Forms | Moduli Cellulari” era il titolo di quel video. Non aveva mai sentito il nome dell’artista computazionale che lo aveva creato, ma conosceva l’autore della traccia che accompagnava le immagini: si erano scambiati alcuni messaggi via Twitter, formali e vuote frasi di congratulazioni per il lavoro di programmazione svolto e l’incredibile risultato raggiunto sul piano compositivo. La pastosità di quel suono e l’immagine in continua mutazione gli davano una strana sensazione di dejà vu, non riusciva a staccare lo sguardo dallo schermo mentre le mura della stanza vibravano sotto i colpi dei bassi che fuoriuscivano dagli speaker. L’infinitamente piccolo, l’abitante dello spazio a noi precluso si mostrava in tutta la sua vitale e virale morfogenesi. C’era qualcosa di familiare in quel continuo cambiamento, ma non riusciva a comprenderne il reale significato. Da ore era immerso nell’accogliente placenta di echi e visioni che si ripetevano all’infinito, si era scordato dov’era e chi era, stava rincorrendo una percezione.

Sospeso nell’assoluta mancanza di coordinate, rapito dal fitto scambio con il proprio computer, BVTS tornava ad esplorare il tempo, quella sostanza a lui sconosciuta e dalla quale si riteneva immune. In fin dei conti, pensava, basta premere quel tasto cercando di evaporare il più velocemente possibile. Una volta usciti da quei fori ci si espande, si diventa parte del tutto, tutto cambia, si rinasce abbandonando l’involucro troppo lento e pesante che da decenni si riflette incerto sul monitor del pc. I suoi fan erano convinti che appartenesse alla loro generazione, lo pensavano un millennial. Lo trattavano alla pari, ignari della presenza costante dei medicinali sul tavolo della sua cucina. Ignoravano la persistente mancanza di ossigeno, le crisi di panico, la sedentarietà che rende obesi. Non conoscevano la vecchiaia così come testardamente voleva ignorarla anche lui, ben celato nell’ombra di un acronimo che lo trasformava in una creatura complessa, moderna, smart, capace di fluide e futuristiche interazioni esclusivamente digitali.

La confezione delle patatine era vuota, le bevande energetiche finite assieme ai caricatori di merendine le cui spoglie erano disseminate ovunque. Era giunto il tempo di immettersi nell’intercamera plastica, raccogliere le proprie emozioni, i pochi ricordi ancora vivi ed evaporare attraverso quei fori nelle pareti, sopra il tracciato impenetrabile del labirinto colorato che neanche il miglior JR Schmidt avrebbe mai saputo ideare e disegnare.

Il dito racchiuso nel misuratore di saturazione dell’ossigeno si muove impercettibilmente: sembra tenti di inviare il comando cercando di premere un tasto. Nello stesso istante, il battito instabile che ha sempre accompagnato BVTS attraverso il suono di una vita solo immaginata, cessa di segnare il tempo lasciando dietro di sé un lieve, profondo ultimo sospiro.

I moduli cellulari si sono moltiplicati. Hanno compiuto la loro trasformazione invadendo lo spazio infinitamente piccolo. Hanno mutato forma e una nuova consonante iniziale ora li contraddistingue: è una N.

Sulla lapide che segnava il luogo nel quale Benvenuto Tagliaserra era sepolto, qualche fiore di plastica ormai accartocciato e due bianchissime calle poste ad illuminare l’epitaffio:

Cosa riusciremmo ad essere io e te senza il wi-fi che sostiene il nostro arcaico istinto

Cosa riusciremmo a scambiarci senza il supporto di lucide e gelide fibre ottiche, cieche di grazia e sudata carnalità

Quanto distanti ci troveremmo se solo carta e inchiostro fossero il nutrimento dei nostri intenti

Quale altro elemento potrebbe maggiormente infuocare le nostre private condivisioni meglio di un muto algoritmo

Urla la nostra virtualità, morde e graffia, si apre e contorce, geme ed esplode in rivoli di pixel che nutrono un link sempre attivo, pulsante antica matematica precisione: 1+1=2

 

*insostituibili immersioni soniche: Enrico Coniglio http://www.enricoconiglio.com/

*folgorazioni sulla via (virtuale) di Damasco: Massimiliano Scordamaglia https://maxscordamaglia.bandcamp.com/

*editing: Marco Olivotto http://www.moonmusic.it

*many thnx to: Paolo Scheggi, JD Schmidt, Andy Lomas, Max Cooper, Es

                                                            

Radiodays: Abissi

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Alone II
SUONO: Gianni Maroccolo
SCRITTURA: Mirco Salvadori
IMMAGINI: Marco Cazzato
VIDEO: Michele Bernardi e Marco Cazzato

L’abisso

racconto di Mirco Salvadori

Nero, spumante denso catrame, spalanca le fauci e ingoia, spezza, annichilisce, ghermisce il respiro e lo accartoccia nel sibilo atroce della resa alla morte.

Piegato in due, raggrinzito su sé stesso, i timpani che urlano bisogno di silenzio mentre l’atroce sibilo penetra oltre la barriera delle palpebre un attimo prima che si spalanchino permettendo alla vista di oltrepassare il lento scivolare del sangue che vela lo sguardo. Una frazione di secondo, la stessa frazione di tempo usata per premere l’acceleratore e innescare un meccanismo capace di amplificare la devastazione. BOMBA! BOMBA! Le uniche e ultime parole udite prima che il vento furioso creato dalla deflagrazione lo colpisse allo stomaco con la stessa potenza di un bisonte lanciato a testa bassa verso il cuore della tempesta. Piegato in due, raggrinzito su sé stesso, immerso nella nuvola di detriti, coperto dalla pioggia di brandelli di carne, pezzi di arti, interiora strappate, Deepesh pensava al mare, quel lontanissimo e sconosciuto mare oltre il quale avrebbe finalmente trovato pace. Via da Peshawar, incontro ad una nuova vita in una nuova terra che i racconti e il passaparola descrivevano come un vero paradiso.

Immagini di Marco Cazzato

Le corsie dell’ospedale erano gremite all’inverosimile, le pareti chiazzate di sangue e vomito imprigionavano le urla di bambini a cui erano state amputate braccia e gambe, la disperazione di madri che avevano perduto i loro figli, il tormento dei mariti che cercavano mogli di cui nulla era rimasto se non un grumo di ossa e sangue ormai indurito. Deepesh vagava di letto in letto alla ricerca di suo fratello mentre l’angoscia saliva e saliva. Il pugno stretto allo spasimo nella tasca che conteneva il piccolo tesoro sufficiente a farli fuggire, arrancava di respiro in respiro. Nel momento dello scoppio lui si trovava relativamente lontano, mentre suo fratello lo attendeva sotto le arcate del mercato, erano pronti per andarsene, partire, abbandonare quella città che aveva loro insegnato i mille modi nei quali è possibile morire.

Dove sei fratello, dove?!

Lo trovò con gli occhi chiusi, dormiva. Un pezzo di motore gli aveva oltrepassato lo stomaco portandolo via di netto. Mansoor ora dormiva, il suo lungo viaggio era iniziato.

Il polmoni di Deepesh cessarono di inalare ossigeno, degluitiva a fatica ingoiando tutto quel sangue, l’orrenda vista delle piccole ossa che squarciavano la carne e quegli occhi per sempre chiusi nel sonno senza fine. Povere esistenze le loro, segnate dalla miseria e dalla mancanza di genitori che li tenessero per mano accompagnandoli lungo sentieri privi di mine anti-vita. Una sventagliata di mitra li aveva uccisi entrambi, lì sugli altipiani del Kashmir. Un vecchio amico di famiglia li aveva portati lontano dalla guerra, nella grande città dove tutto è più facile, dove si impara a scrivere e leggere, dove si lavora e ci si sposa. Finalmente una nuova possibilità subito interrotta dal rumore secco di una cinghia che vibrava nell’aria e colpiva dura, tagliente, cattiva come lo sguardo di quell’uomo che li obbligava a rubare per guadagnarsi del pane. Deepesh e Mansoor, due fratelli, due anime che si accompagnavano alla morte, la sfioravano continuamente odorandone l’acre effluvio, l’accarezzavano sfilando veloci i portafogli dalle tasche e gli orologi dai polsi. Erano cresciuti così, giocando con essa, imparando a conoscerla bene, tanto da usarla con dovizia, appoggiata alla lama di un coltello che una notte affondò nella gola di quel vecchio amico di famiglia trasformatosi in un feroce maestro di terrore.

Il pugno stretto nella tasca a trattenere il piccolo tesoro, Deepesh cercava di non addormentarsi a bordo del camion che lo trasportava verso la costa assieme a decine di altre anime vaganti. Aveva viaggiato per mesi, attraversato deserti, montagne e mari. Aveva sopportato la fame e la violenza delle guide che chiedevano denaro ad ogni cambio mezzo e per ogni indicazione. Aveva assistito a violenze, stupri, abusi, omicidi, risse per un tozzo di pane ma proseguiva imperterrito con la consapevolezza di esser solo in quello strano mondo nel quale il sorriso è negato e un coltello può risolvere tutto in un solo istante. Quello era l’ultimo tratto, gli avevano detto. Preparate la somma stabilita che stasera vi imbarcheremo per la Sicilia. Deepesh non sapeva dove si trovava, né sapeva che fosse quel nome che avevano pronunciato gli esseri che nulla avevano di umano. Il loro sguardo passava oltre la persona, non ti vedevano ma annusavano l’odore dei soldi che serbavi nascosti e questo gli bastava per tenerti in vita. Ne aveva già conosciuto uno così, gli facevano paura.

 

Il fetore delle 500 anime richiuse nella stiva della nave che vagava da giorni lungo le mille rotte del Mediterraneo era insopportabile. Deepesh, vomitando per il mar di mare, si chiedeva se fosse quella la distesa accogliente che da anni sognava. Il rollio aumentava di ora in ora, la tempesta si stava avvicinando quando i boccaporti si aprirono e fu dato l’ordine di salire. Una volta sul ponte crollò in ginocchio, stremato. L’urlo di quel mare in tumulto gli ricordava lo stesso grido disumano del mostro carico di dinamite esploso davanti agli occhi increduli di suo fratello. La stessa violenza, voracità, furia. Presto imbarcarsi nell’altra imbarcazione, fate veloci! Affacciandosi sul nero inchiostro la vide. Era una vecchia malandata imbarcazione in legno di 18 metri tenuta assieme da corde che la reggevano in bilico sul baratro dello sfascio. Fece per voltarsi e tornare indietro, ma la canna di una pistola fermò la sua corsa, o salti o t’ammazzo dove sei! Era il capitano della nave, completamente ubriaco. Avanti salite a bordo, avanti bastardi! Quasi 400 anime si allontanarono su quel battello infilandosi nella bufera che non perdona, un piccolo puntino di assi marcite perduto nell’immensità di un mare in delirio. Deepesh si rifugiò nella stiva, mentre le immagini che coloravano di nero la sua vita sfilarono davanti ai suoi occhi. Follia, soprusi, fame, violenza, sangue, morte. Via via portatemi via, dai dai avanti, avanti!

 

Lo schianto, quel fragore che ovunque lo insegue al pari di un mostro assetato di sangue, giunge improvviso. Ferito a morte, il piccolo scafo si sfascia mentre l’acqua inizia a penetrare nella stiva dove in molti, troppi, hanno cercato rifugio. Il buio inizia a ghermire l’anima e l’acqua i polmoni. Trattieni il respiro, Deepesh, trattienilo all’infinito, dai che ce la fai, in fin dei conti tu hai una lunga frequentazione con la morte. Non cedere trattieni, non badare agli altri, non guardare il bianco dei loro occhi che esplode nel nero della notte. Trattieni la vita piccolo uomo, non aprire i tuoi polmoni, no non tentare di respirare! NO! Ed il nero, spumante e denso catrame, spalanca le fauci e ingoia, spezza, annichilisce, ghermisce il respiro e lo accartoccia nel sibilo atroce della resa alla morte.

 

 

Che la piú piccola parte di pelle sia protetta.
Che nulla possa sfiorare il bozzolo nel quale cerchi rifugio e calore.
Il silenzio ti sia amico e plachi il battito veloce, annienti le visioni e ti ripari.
Che anche la piú piccola parte di pelle sia protetta,
tenuta a miglia di distanza dall’abisso della perdita.

Mode d’emploi del progetto

a cura di Gianni Maroccolo

 

ABISSI

Il naufragio della F174, conosciuto anche come “la tragedia di Portopalo”, fu un sinistro marittimo avvenuto in acque internazionali, la notte di Natale del 1996. Circa 30 km al largo di Portopalo di Capo Passero (SR), affondò una vecchia barca di legno, gravemente sovraccarica di clandestini provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka. Morirono almeno 283 persone. L’incidente rappresentò all’epoca la più grande tragedia navale del Mediterraneo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. La storia di questo naufragio è stata già narrata in diversi libri, spettacoli teatrali, fiction e altro.

 

Il Volume II di Alone non intende tanto ri-raccontare in musica quella tragedia, quanto narrare cosa viva e possa provare un essere umano che decide di lasciare il suo paese per costruirsi una nuova vita altrove.

Intende narrare, al “tu” in ascolto, cosa significhi venire privati di ogni diritto e della dignità. Cosa avvenga quando ti rendi conto che la tua vita vale meno di niente. Quando rimpiangi di essere nato e la disperazione lascia spazio a qualcosa che non avevi mai considerato. La tua vita terrena che sta per finire mentre vedi e senti l’acqua entrare nella barca, e non puoi fare nulla perché sei chiuso in una stiva senza alcuna via di uscita.

I minuti diventano eterni, l’acqua sale e ti rendi conto che la tua vita sta finendo. Soffochi lentamente mentre il liquido ti invade i polmoni. È atroce: peggio di una pallottola, della sedia elettrica, di un tumore che consuma. Soprattutto, a nessuno frega un cazzo di te. Prima, durante, dopo.

Questo è disumano, e purtroppo pochi lo comprendono. Forse solo una situazione affine potrebbe farlo intuire, e far capire quanto la logica del profitto, la dualità inculcata con ogni mezzo lecito e illecito ci abbia resi simili a belve insensibili a tutto. Far capire quanto poco valore questa logica dia al nostro passaggio terreno in questo universo ben più grande e ricco (grazie al Cielo) di noi, piccoli esseri umanoidi presuntuosi e incompleti. Siamo sì e no l’uno per cento degli esseri viventi su questo pianeta, e tuttavia pretendiamo di gestirlo come fosse cosa nostra. Come se non bastasse, esercitiamo il potere attraverso convenzioni che ci ingabbiano e ci pongono in una condizione costante di conflittualità in cui l’unico scopo è quello di assomigliare il più possibile a chi sta meglio di noi.

Poi c’è la paura di perdere qualcosa. Qualcosa di nostra esclusiva proprietà: agio virtuale, sicurezze, soldi, lavoro. Sono la paura e la non-conoscenza a trasformarci in belve.

Perdere cosa, poi? Potremmo distribuire più equamente le risorse disponibili, evitare di acquistare cose inutili, senza renderci conto che mentre lo facciamo altri muoiono di fame e di guerre al punto di tentare la fuga su un barcone. Non finirà: appena il surriscaldamento del pianeta ne renderà incoltivabili certe parti, e non vi sarà più cibo, altro che barconi, altro che fenomeno migratorio. Leggi, leggine, frontiere, parlamenti: ma nemmeno le armi potranno impedire un grande esodo di masse umane. Dualità appunto: uno contro l’altro.

Alcuni giorni dopo il naufragio, i pescatori iniziarono a recuperare nelle loro reti resti umani e del relitto, ma non dissero nulla. Temevano che un’eventuale inchiesta avrebbe potuto causare l’interruzione della pesca, unica loro fonte di sostentamento. Solo cinque anni più tardi, un pescatore rivelò a un giornalista sardo il punto dove giaceva il relitto, a 108 metri di profondità.

È difficile immaginare quanto sia stata atroce e lenta l’agonia di questi esseri umani. I “clandestini”, dopo avere pagato circa 7.000 dollari a testa ai trafficanti (altri 7.000, a saldo, li avrebbero versati all’arrivo in Italia), viaggiarono per quattro mesi attraverso Kurdistan e Turchia. Vennero convogliati verso il porto de Il Cairo, e qui, dopo aver versato altri 1000 dollari a testa agli scafisti, vennero imbarcati sulla “Friendship”. La nave non salpò subito, perché si attendevano altri “clandestini” per partire a pieno carico e ben ammassati: come carne da macello.

Dopo dodici giorni, tutti furono trasbordati su una nave da carico honduregna, la “Yohan”, che prese il mare con circa 500 persone a bordo. I “passeggeri” vennero ammassati nella stiva: condizioni igieniche zero, pane e acqua come cibo. In prossimità delle coste italiane, avrebbero dovuto essere trasferiti su un’altra nave per l’ultimo tratto di navigazione.

La nave era un battello maltese senza nome, identificabile solo dalla sigla “F174”, che incrociò la “Yohan” la notte tra il 25 e il 26 dicembre. La “F174”, era un’imbarcazione in legno lunga 18 metri e larga 4. In pessimo stato e con tutti i sistemi di sicurezza fuori uso, poteva imbarcare al massimo 80 passeggeri.

I “passeggeri” della “Yohan” salirono in massa sulla “F174” fino a farla vacillare pericolosamente per il peso eccessivo. I trafficanti decisero allora di far ritornare sulla “Yohan” un centinaio di persone e di partire lo stesso con oltre 400 “passeggeri”. Il Comandante della “F174” si rese conto quasi subito che non avrebbe mai raggiunto le coste siciliane a causa dell’eccessivo peso, ma soprattutto per una falla apertasi a prua durante i trasbordi. Chiamò quindi la “Yohan” in suo aiuto, ed essa raggiunse in qualche minuto la nave che aveva già iniziato a imbarcare acqua in stiva. In quella barca viaggiavano oltre 300 esseri umani, gran parte dei quali nella stiva, con i boccaporti bloccati dagli altri “passeggeri” stipati sul ponte.

Il mare è in burrasca e il comandante della “Yohan” non riesce a governare la nave: sperona la “F174” che si spacca in tre e inizia ad affondare trascinando negli abissi non meno di 283 persone. Il comandante della “F174” e una manciata di superstiti vengono raccolti dalla “Yohan”, che riparte subito verso la Grecia. Lì scarica 170 sopravvissuti, che vengono segregati in un casolare di campagna per evitare che possano raccontare l’accaduto.

Questo avviene nel 1996, non nel Medioevo. Qualcuno riesce a fuggire, e racconta la storia alla polizia greca. Le testimonianze non vengono ritenute credibili. Tutti vengono arrestati.

Nei giorni a seguire, la “Yohan”, continuò a sbarcare in Italia “passeggeri” fino a che non venne sequestrata dalle autorità italiane. Tuttavia, non fu aperta alcuna inchiesta: mancavano prove e riscontri oggettivi sulla tragedia di Natale. Nessuna testimonianza, niente di niente. Nel frattempo, i cadaveri ripescati dai pescatori di Porto Palo, chiamati in gergo “tonni del Mediterraneo”, venivano gettati nuovamente in mare.

Seguirono cinque anni di silenzio abissale. Poi, grazie alle ricerche del giornalista, il relitto venne finalmente localizzato. Nonostante le proteste dei parenti dei defunti e il ritrovamento del relitto, lo Stato italiano non permise il recupero dei rottami e dei cadaveri, né l’apertura di un’inchiesta. Questa fu una delle tante mattanze di “tonni del Mediterraneo”, e non fu l’ultima.

Pochi anni dopo, vi fu la strage di Lampedusa. Sentirne parlare o vederne le immagini alla televisione non basta: è necessario andare oltre. È opportuno sentire ciò che le vittime hanno vissuto. Provarlo sotto la pelle, vedere i loro occhi nei nostri mentre una morte orrenda e priva di senso li porta via, soffrire quanto loro. Lo scopo è guardarci dentro fino a provare ribrezzo per la nostra cinica indifferenza.

Siamo carnefici quanto i trafficanti: non possiamo continuare a far finta di nulla o limitarci a provare tristezza durante un TG, magari a tavola, tra il primo e il secondo. Né basta mandare qualche offesa ai governanti di turno, le cui colpe sono pari alle nostre. Non possiamo essere così stronzi da permettere ancora mattanze di “tonni”: che siano del Mediterraneo o meno poco importa.

Alone Vol II nasce per descrivere con l’unico mezzo a mia disposizione (la musica) cosa si provi ad affrontare un viaggio simile, per poi morire in maniera atroce. La speranza è che magari, tra il primo e il secondo, qualcuno pianga invece di pensare che “se la sono cercata”. Gli uomini sono fatti per viaggiare, conoscersi, condividere culture, tradizioni e speranze. Inutile costruire muri, confini, barriere… inutile abboccare a chi ci mette gli uni contro gli altri e ci infonde paura fino a tirare fuori la parte peggiore di noi.

Sono consapevole che un disco non abbia il potere di cambiare granché, ma continuo a credere, come diceva Claudio Rocchi, che una canzone possa salvare una vita. Credo che ogni musicista, anche per la fortuna di essere tale, abbia dei doveri oltre che dei privilegi, nei confronti degli altri e del pianeta in cui viviamo. Sarò un sognatore, un visionario del cazzo forse retorico, ma sono fatto così. In questo disco racconto la morte perché amo la vita e amo e rispetto ogni singolo essere vivente del pianeta che abitiamo.

 Alone Vol II

Alone Vol II è un LP senza una vera divisione in “lato A” e “lato B”. Al di là della necessità tecnica di avere due lati, gli stessi non saranno identificati, perché l’opera è intesa come unitaria. A maggior ragione questo varrà per la versione in CD.

I due lati fisici dell’LP di Alone Vol II sono occupati da un lungo brano ciascuno: IMUS, suddiviso in sei temi. Un lato conterrà i temi (provvisoriamente chiamati 1-2-3-4-5-6) suonati da me soltanto; l’altro lato, gli stessi temi in ordine inverso (6-5-4-3-2-1) rivisitati liberamente attraverso il contributo compositivo e creativo degli ospiti di questo volume.

La struttura ha un significato metaforico e circolare: i sei movimenti del primo brano rappresentano il viaggio verso la morte dei passeggeri della nave, dalla partenza fino all’affondamento. Il secondo brano, al contrario, rappresenta una ri-emersione e un ritorno alla vita. Il senso finale è positivo: il movimento verso il basso è solitario e claustrofobico, quello verso l’alto non può prescindere dalla presenza di nostri simili con i quali condividiamo idee, energia e bellezza. Si tratta, quindi di un viaggio di andata/ritorno. Il dualismo delle immagini (luce/buio, superficie/abisso, vita/morte, discesa/innalzamento) rappresenta, paradossalmente, proprio ciò che personalmente ritengo essere la causa di molti nostri mali: la dicotomia, la divisione in categorie rigide. Unendo in un tutt’uno armonico questi concetti opposti, si riesce a comprendere che il Tutto è maggiore della somma delle singole parti, e che una moneta ha sempre due facce – ma non sarebbe tale senza di esse, unite tra loro.

 

Hate is a special feeling: scene alternative toscane nei Novanta

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di Andrea Betti

La sala prove era alla fine di una strada bianca, in un casolare, fra i canneti che, come la casina di Yoda, emergeva dalla mota millenaria di quelle terre, aggrappato all’argine del canale in mezzo ai campi, dove la figlia zoppa e suo padre, il Martini, camminano eternamente scontrosi. Vanno da Cioni Mario, l’unico marito possibile per questa figlia sciancata; – …tanto son di famiglia moritura – le dice il padre, così che quando il povero Cioni ci rimarrà secco fiammifero durante l’amplesso, potranno riunire i poderi e andare in culo al mondo. Ma lei non ne vuol sapere. Mario è brutto. Il Martini la minaccia: – O chi vòi? Marlon Brando? …Sta’ zitta! Ti do uno schiaffo ti spoglio.

Questa é la Toscana cui hanno asportato il pittoresco senza anestesia, la piana fradicia che si stende fra Prato, Pistoia e Firenze, dove il vino inacidisce nelle cantine, delle campagne incolte segnate dai cantieri dei capannoni e dei centri commerciali che di lì a breve avrebbero riempito il vuoto della civiltà agreste in disarmo; le wasteland dove fu girato “Berlinguer Ti Voglio Bene”.

Il Muro di Berlino e l’idea, seppur controversa, di un mondo non esclusivamente capitalista, erano crollati da appena un anno; ancora teneva quel sistema di Case del Popolo e Festival dell’Unità innestati come elettrodi nel tessuto ancestrale e necrotico dell’impermanenza contadina. Di lì a poco sarebbero tramontati, nel silenzio dei telai delocalizzati, anche i distretti industriali e nei circoli sarebbero comparse le slot-machines. L’America, o per meglio dire, la ricezione precocissima dell’istanza grunge\crossover e ancor prima, del punk e della new-wave, ebbe luogo qui, nell’impensabile di cui il pieraccionesco è farsa edulcorata ed esposizione di macchiette depotenziate, fra vecchi comunisti ruvidi e avvinazzati, nel coro delle pastose bestemmie a briscola.  Nelle balere acchittate a bat-caverna per chicken-goth dance e poghi furiosi, prese in prestito al liscio, si formarono le prime band alternative toscane, che della vivace scena wave fiorentina del decennio precedente ricalcavano i processi insondabili di concrezione in un’inspiegabile affinità elettiva con il nuovo “rock tormentato” di Seattle. Simili gli sguardi increduli di matusalemmi bifolchi e giovani precocemente invecchiati nell’animo, che deridevano le creste, i giubbotti di pelle pieni di spillette, le borchie, i Doc Martens, i primi dreadlocks, le pose dei giovani ribelli… – Bada lì come tu se’ conciato! Ma che se’ buho? – perché non era insolito il make-up anche fra i maschi. L’odio è un sentimento speciale e universale: la reazione chimica era simile a quella di Seattle ma non avrebbe incontrato le infrastrutture e le vastità del mercato statunitense. Il fallimento era assicurato.

Il casolare apparteneva a Marco Ricci, chitarrista e geniale deus ex-machina dei Go Insane, band nella quale ho militato in veste di front man, o per meglio dire sguaiato urlatore, per poco meno di un anno, dal 1990 al ’91, un anno intenso: circa una ventina di concerti e la registrazione di un demo tape. Condividevano con noi quello strapuntino sul fosso anche i più noti Glomming Geek; loro erano riusciti a “fare il disco”, traguardo aureo delle band sotterranee dell’epoca. In quelle notti di prove incessanti nella stanza rivestita di cartone da uova, fra cyloom spezzati in terra e nubi purpuree dal mixer in corto, avevamo, fra i molti eccessi, la sana abitudine di scambiarci cassette attraverso cui chi riusciva a comprare un vinile, condivideva con gli altri la propria esperienza estatica. Tanti gruppi, americani perlopiù, pervenuti a noi tramite i 45 giri della Sub Pop e altre gloriose indipendenti nordamericane, che Marco, Fabio e Fabrizio (rispettivamente chitarra, basso e batteria dei Go Insane) collezionavano, ispirandoci e trascinandoci in un nuovo concetto di “rock”, che poi sarebbe diventato il post-rock, rendendoci all’avanguardia ma inintelligibili all’ascolto dei nostri contemporanei: troppo punk per i metallari, troppo metal per i punk.

Stavamo sul cazzo a tutti, ai vecchi, ai giovani, ai pottini, ai dark, ai tamarri. Ma in quella commistione di stili in cui tutto veniva frullato per esplodere, eravamo fomentati dal demone del Nuovo e poco ci importava del marketing e della comprensione dei nostri simili che odiavamo. Durante uno dei consueti scambi di cassette, Spartaco e Tommy (voce e basso dei Glomming Geek) erano lì appoggiati al cofano della Talbot Solara del Bullman che dicevano:

– Sì, sì, sì, tutto molto bello, Nirvana, Jane’s Addiction… ma il Gruppo Fondamentale erano loro: gli Electric Peace.

E Tommy annuiva:

– Indubbiamente…

Pur assiduo lettore di Rockerilla, sono sempre stato un superficiale e non sono mai stato un fissato o un esegeta di alcunché, ma persino i miei compagni di band che erano musicalmente assai più colti del sottoscritto, drizzarono le orecchie. Chi erano questi Electric Peace? Tenterò una azzardata descrizione di questo fenomeno liminale: immaginate allora di non essere una band, piuttosto un elemento radioattivo, in perenne transizione fra i Doors e i Deep Purple, un picaresco ensemble di bikers che ai vostri contemporanei di metà anni Ottanta, dediti a fonarsi le chiome e sgallettare sul synth pop, risultiate tremendamente datati, ma al termine della vostra parabola vi ritroviate, proprio per le stesse caratteristiche che vi rendevano demodé negli Eighties, fottutamente avant-garde nei Nineties.

Di fatto gli Electric Peace dal 1985 al 1989 avevano anticipato ed esaurito tutto quello che ritroveremo poi smembrato e sviluppato in singole parti nel cross-over. Hard rock psichedelico (Tad? Screaming Trees? I primi Sound Garden?) traviato dalla presenza magniloquente e ben amalgamata dell’organo Hammond, ma senza ammiccamenti à la Fuzztones; ai nostri poco importava di essere dei sex symbols come Rudy Protrudy: loro puntavano ad essere dei death symbols. I’m a snyper on the rooftop, I Think I’ll die, I Will Kill for your Love etc… l’impeto del garage punk veniva lanciato come una maledizione da metalliche montagne della follia, trainato dalla voce stentorea di Brian Kild e dalla chitarra blues di Honey Davis. Stiamo parlando di vero blues da fricchettoni di Venice coi piedi sudici, esuberante ma mai affettato o vanaglorioso, contraffatto da un sound che descrive nel dettaglio la transizione del lisergico nell’alba oscura del narcotico e dell’anfetaminico; cambiano le droghe e le prospettive, di conseguenza la musica popolare. Robba da Hell’s Angels cui abbiano somministrato, alla zitta, datura stramonio mescolato al bourbon, durante beach party notturni fra surfisti dissennati che si trasformano in sabba: non si può non riconoscere agli Electric Peace, il dono di un ammaliante mesmerismo, come nei più celebri neri sabbatici del vecchio zio Oz.

Com’è andata a finire?

Il cantante, il carismatico Brian Kild ora pare venda moto, mentre il chitarrista della prima line-up Jim Hawkinson, in moto ci è morto proprio, in ottemperanza alla loro Drinkin’ and Drivin’ (‘Till The day I Die). Noi giovanotti scapestrati sognavamo di seguire il loro esempio, di essere come quella gentaglia in fuga da sceriffi e paranoie, i cecchini sul tetto che sparano a caso sulla folla, di percorrere le vie per l’Inferno animati da sinceri propositi suicidi. Se i Led Zeppelin cantavano di scale per il paradiso, i nostri miravano dritti dritti alla catabasi (come nel loro anthem “Goin’ to Hell”) ovviamente a bordo di harley tabogate con teschi cromati, indossando occhiali neri anche a notte fonda per attraversare ciechi e forsennati, il lato oscuro della California.

Anche noi ci sentivamo così, di ritorno dal Backdoors, negli abitacoli fumosi dei nostri scassoni; gli amici che mi hanno regalato la prima cassetta da novanta contenente i due album “Medieval Mosquito” e “Insecticide” ci hanno lasciato anch’essi pochi anni fa: Tomaso Azara, artista poliedrico, bassista, dj e in seguito sofisticato producer di musica elettronica e Giovanni Borselli detto Bullman, tastierista dei Glomming Geek, stregone dell’elettronica e costruttore di monumentali rack di effetti, che trasformavano il suo Farfisa in un gutturale athanor per circensi trenodie; la profonda connessione “spirituale” dei Glomming Geek con gli Electric Peace forse nasceva proprio dalla tastiera, che avevano mantenuto in dialogo con le Gibson distorte e i ritmi parossistici che il nuovo gusto imponeva. La tastiera nel corso degli anni Ottanta era diventata, da strumento emblema del non-musicista wave, la chiave di volta del pop commerciale, esaurita ogni psichedelia, si era fatta orpello figo da litorale ibizenco, la stucchevole generatrice di trombette degli Europe, per non parlare degli arpeggi da segaioli della fusion; per tale manifesta incompatibilità veniva giustamente sdegnata dai nuovi rocker esistenzialisti. E poi era veramente difficile armonizzarla in un gruppo hard rock.

I Glomming Geek traghettavano nel nuovo pianeta roccioso il loro retaggio new-wave, creando una miscela originalissima, che li faceva spiccare nel panorama italiano al solito affetto da cronico e insanabile epigonismo. Nonostante questo, per ragioni che non conosco né indago, fatto salvo il consueto tocco trance, sciamanico di Spartaco, nel secondo album abbandonarono il tenebroso Farfisa per farsi robusti e ultraviolenti in chitarre, sacrificando a mio avviso qualcosina sull’Altare dei Muraglioni Marshall con tutti i pitch a dieci, anche se all’epoca io preferii questo album più allineato al precedente, il Caveiano-Lynchano “Dog’s Head”.

I Glomming Geek come gli Electric Peace garantiscono un ascolto emozionante ancora oggi, illuminante per chi aneli sonorità storte e poco inclini ad essere etichettate; una rivelazione per l’ascoltatore onnivoro e insaziabile che ognuno di noi dovrebbe essere. Alla fine della discesa agli inferi, troverete una ninna nanna che non consola né redime dalla consapevolezza del Male che si agita in fondo all’umanità, e nel loro esequiale ultimo sberleffo ad ogni aspettativa e aderenza stilistica, la pace elettrica dei disadattati.

—–

Go Insane

https://myspace.com/goinsaneitaly/music/songs

Glomming Geek

https://it.wikipedia.org/wiki/Glomming_Geek

Discografia:

1990 – Dog’s Head (Vitriol)

1992 – Dig a Hole in the Sky (Wide Records)

 

Electric Peace

Recensioni

https://www.debaser.it/electric-peace/medieval-mosquito/recensione

https://reverendolys.wordpress.com/2017/12/01/electric-peace-lc-1249-53/

 

Discografia:

1985 – Rest in Peace (Enigma Records)

1987 – Medieval Mosquito (Barred Records)

1988 – Insecticide (Barred Records)

1989 – Road to Peace (Barred Records)

Una versione ridotta del pezzo è uscita su MegaHertz, inserto di Metropolis, il 20 maggio 2019.

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