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Incontinental jazz: Aldo Romano

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Note

di

Claudio Loi

Aldo Romano me lo ricordo a fianco di Antonello Salis e Gerard Pansanel in un album che si chiamava Calypso del 1983. Nel 1990 nel suo omaggio a Coleman dal bellissimo titolo To Be Ornette To Be con Paolo Fresu alla tromba che poi richiamerà anche per l’album Canzoni del 1993 e per Prosodie del 1995. E ancora nel 2000 nel disco Mèlos di Paolo Fresu con una sua composizione. Poi nel progetto Palatino, sempre con Fresu, Michel Benita e Glenn Ferris: un successo di lunga durata che ancora oggi mantiene la sua costante vivacità timbrica e il gusto per un suono transcontinentale. Sono storie isolane che Aldo Romano richiama più volte nella sua autobiografia uscita di recente in Francia per les Éditions des Équateurs dal titolo emblematico di “Ne joue pas forte, joue loin” . Certo i miei ricordi sono vicende locali, isolane e isolate che sopravvivono nella mia mente solo grazie a quella grave e incurabile patologia che si chiama musica. Patologia che lo stesso Romano denuncia in lungo e in largo nel suo libro di ricordi.

Un volume che mette a nudo la difficile personalità di questo jazzista sempre in preda a una costante crisi di nervi. Una vita piena di dubbi: sulla sua formazione artistica, sul rapporto con i suoi genitori, sulle sue reali capacità artistiche e umane, sulle donne e i luoghi, sull’eterno conflitto con un corpo che talvolta non risponde alle sollecitazioni dell’anima. Per fortuna. E per fortuna c’è il jazz: “Thèrapeutique sans pareille, la musique me sauve”. Per quanto tempo? Se lo chiede Romano e ce lo chiediamo anche noi. Ma la risposta non è importante quanto la domanda. Quanto la curiosità di vivere e di continuare a creare. Aldo Romano incarna alla perfezione l’eterno conflitto tra l’essere e il divenire, tra i desideri e la realtà effettuale. E i rimedi sono sempre gli stessi: un luogo dove ritrovarsi, un incontro che fulmina, una batteria da maltrattare con amore, un amore da curare come una melodia. Questo è Aldo Romano e la sua musica. Un uomo che non sopporta la mediocrità: come il jazz. Che diventa una vera dannazione nel momento in cui si vive “condamné à inventer”.

Così si capiscono anche lo spessore delle sue pene, i ripetuti sbandamenti psichici e la voglia di superare l’angoscia rivolgendosi a Gurdjieff che lo invita a uscire dal proprio essere per confrontarsi con l’altro da sé, con gli altri, con il mondo. Con i tanti musicisti che hanno arricchito la sua vita: un elenco tanto lungo quanto prestigioso che diventa un carnet di piccole terapie quotidiane: rubrica di vita e di illusioni. Incontri che cambiano le cose. Come quello con Paolo Fresu (ancora lui scusate ma è un conflitto di interessi che non riesco a districare) che diventerà un partner di lunga durata e con il quale lo legano tante cose: la comune origine italiana rurale e mediterranea, l’amore per la Francia, lo stesso sentire estetico, la cura del suono, il piacere per la melodia. Un rapporto che troverà sui binari del Palatino la sua migliore espressione e che il pubblico ama e gradisce a lungo (non solo in Francia).

E che dire del tormentato rapporto con le donne? Che appare come la necessità di vivere per la musica in modo esclusivo e che rimanda al costante conflitto irrisolto con i propri fantasmi: A Drum Is A Woman! Ecco la risposta. Non c’è spazio per la poligamia in Aldo Romano anche se non è mai facile scegliere. Sarà la materia viva a farcelo capire, il significante: l’orecchio che non sente, il cuore che non batte a tempo, la testa che viaggia in proprio. Romano combatte contro i propri fantasmi e continua a vincere: la sua musica è viva e piace, il pubblico apprezza, arrivano premi e successi discografici importanti, contratti seri, lunghi viaggi per il mondo. Tutto questo basta? Ai più sì ma non a Romano che continua la sua personale battaglia contro il tempo e i tempi. Una bella storia questa del batterista franco-italiano, che questo libro ci svela e che ci aiuta a capire un universo di suoni e tormenti. Per fortuna alla fine “la musique console de tout”.

Incontinental jazz: Aldo Romano è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.


Musica delle sfere

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di Sergio Pasquandrea

Monk non è niente male, a ping-pong. È proprio come quando suona il piano: la racchetta arriva quando meno te l’aspetti. Ti prende alla sprovvista. Il suo ritmo ti prende alla sprovvista, perché colpisce la palla all’ultimo momento. Il ping-pong ha un suo ritmo: ping-pong-pada-bong, boom–boom. Ma Monk non fa boom-boom, Monk fa bapp! Ti aspetta al varco. (Charles Mingus)

Il gran sacerdote del bebop?

Le poche volte che la critica dell’epoca si occupava di Monk, amava definirlo «il Gran Sacerdote del Bebop» (pare che la definizione risalga ad Alfred Lion, il manager della Blue Note). E in effetti Monk esercitò un ruolo decisivo nella nascita di quello stile: era il pianista fisso del Minton’s, godeva del rispetto di Dizzy Gillespie, Art Blakey, Miles Davis. Bud Powell fu un suo protegé e Kenny Clarke affermò di aver escogitato i suoi celebri controtempi sulla batteria (le «bombe», come venivano chiamate all’epoca) ascoltando il modo in cui Monk accompagnava al pianoforte. Brani suoi, come 52nd Street Theme, Epistrophy, ‘Round Midnight entrarono stabilmente nel repertorio dei boppers. Gli anni del Minton’s furono anche quelli in cui il suo stile raggiunse la maturità: se si confronta il Monk del 1941 con quello che nel 1944 incide alcune tracce insieme a Coleman Hawkins, si ravvisa chiaramente l’evoluzione da uno strumentista dotato ma ancora acerbo a un musicista già dotato di una propria spiccata personalità.
Sta di fatto, però, che quando a metà anni Quaranta il bebop esplose come la new thing del jazz, le copertine dei giornali furono tutte per Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Monk faticava persino a trovare lavoro e rimase, per almeno altri dieci anni, una figura misconosciuta, un musicians’ musician largamente ignoto al pubblico e snobbato persino dalla critica specializzata. Le prime registrazioni a suo nome furono realizzate nel 1947, quando aveva già trent’anni; ma bisognerà aspettare la fine del decennio successivo prima che la sua statura artistica sia riconosciuta in tutta la sua grandezza.
Ciò pone il problema del suo effettivo legame con il bebop. E a ben guardare, il suo stile maturo sembra avere ben poco da spartire con l’eccitazione cinetica e l’esacerbazione tecnica del bop. Vi si possono senz’alto individuare somiglianze: il gusto per la dissonanza e per le linee melodiche angolose, la predilezione per le forme AABA, con il tema esposto all’inizio e ricapitolato alla fine. Ma per molti altri aspetti Monk sembra l’esatto opposto del bop: dove i boppers esaltavano la velocità, Monk accentuava le pause, i silenzi, lo spazio vuoto.
Non si tratta tanto di “mancanza di tecnica”, della quale spesso Monk veniva accusato, quanto di una volontaria rinuncia ad essa. Invece di esibire la propria tecnica, Monk sembrava mirare a scarnificarla. «Certe volte suonavamo come fulmini per tutta la notte al Minton’s», affermò in un’intervista del 1965. «Poi mi sono stufato di suonare sempre veloce. Finisce che diventa una cosa automatica e alla fine non sei più capace di suonare diversamente». Durante un blindfod test per la rivista Downbeat, gli fu proposto un suo brano, Rhythm-A-Ning, eseguito dal quintetto di Art Pepper: «Sembravano assoli lenti accelerati (slow solos speeded up)», commentò con il suo solito humour sottile.
Stefano Zenni ha parlato efficacemente di «gesti del bebop […] isolati e resi iperbolici, così da rovesciare lo stilema in dettaglio idiosincratico»: e in effetti ciò che nel bebop diventa facilmente cliché – l’intervallo di quinta diminuita, le melodie zigzaganti, la frase iperveloce – in Monk viene adoperato come elemento di un’estetica che fa dell’assoluta originalità la propria condizione irrinunciabile.

L’angolo giusto
«Va indiscutibilmente evitata quella disgraziatissima posizione colle dita tese e rigide, tuttora prescritta da troppi insegnanti che meglio meriterebbero il nome di ciarlatani, vergognoso pseudo-insegnamento del quale ognuno di noi può oggi ancora constatare ovunque gli infelici e quasi sempre irreparabili risultati». Così s’indignava Alfredo Casella, a pagina 97 del suo – peraltro interessantissimo e tuttora validissimo – libro Il pianoforte.
Esistono numerosi filmati che mostrano Monk suonare (molti di essi sono disponibili su YouTube). Ebbene, ciò che salta all’occhio è la posizione delle mani: esattamente quella deplorata da Casella, «con le dita tese e rigide». Di più: Monk colpisce i tasti cadendovi sopra quasi in verticale, adoperando l’intero avambraccio, con un attacco aspramente percussivo. Siamo all’esatto opposto di quell’economia di movimenti che è l’obiettivo principale della tecnica classica, la quale ha come scopo – secondo le parole del pianista e didatta Gyorgy Sandor – di «imparare a sincronizzar[e i muscoli] nel modo che comporti il minore sforzo possibile», in modo da evitare gli «inconvenienti (tendiniti, borsiti, ecc.) che nascono da modi errati di studiare, quali il continuo abuso dei muscoli, il forzare e l’irrigidire e giunture, l’eccessiva pressione sulla tastiera».
Laurent DeWilde ha paragonato l’impostazione di Monk a quella di un vibrafonista, cogliendo così l’aspetto sostanzialmente percussivo del suo stile. E in effetti, se si volesse cogliere la matrice generativa della musica monkiana, essa sarebbe da ricercare da una parte nel suono, dall’altra nell’impulso ritmico, che è sempre netto, tagliente, assolutamente infallibile. Milton Stewart si è spinto oltre, sostenendo che nell’impostazione di Monk risalirebbero alla luce memorie ancestrali della mbira, l’antico «piano a pollici» africano, con il quale sarebbero rintracciabili precisi parallelismi esecutivi.
Nel caso di Monk, l’impostazione corporea è inseparabile dalla concezione timbrica. Il suono di Monk, anche come risultato di quella posizione delle dita così antiaccademica, è aspro, tagliente, e allo stesso tempo luminoso, come un brillante le cui sfaccettature riflettano e moltiplichino la luce. Brilliant Corners («spigoli brillanti»), titolo di una sua composizione, è anche una descrizione perfetta del suo suono.
Quel sound, del resto, fa parte di una più generale propensione monkiana verso la dissonanza elevata ad elemento strutturale. Intervalli dissonanti come seconde minori, none minori, tritoni sono da lui usati senza la preparazione e risoluzione che la teoria musicale classica riterrebbe indispensabile. Gli stessi accordi sono spesso disposti in posizioni (voicings, secondo la terminologia jazzistica) non ortodosse, studiate in modo da creare deliberati urti fra note all’apparenza incompatibili l’una con l’altra. In ciò, egli si riallaccia da una parte a una precisa tradizione stride (in James P. Johnson e in Duke Ellington, tanto per fare due nomi, si possono ritrovare tecniche analoghe), dall’altra a una più ampia concezione sonora tipica del jazz. Scrive Stefano Zenni:

Un pianista jazz concepisce tocco, armonia e colore fusi in un unico gesto. È un procedimento opposto a quello dell’interprete classico, che ricerca il tocco più adeguato per rendere le armonie di una partitura. Nel jazz invece domina una concezione olistica in cui non è possibile scindere la disposizione degli accordi, l’immaginazione timbrica e il tocco sullo strumento: il mondo percussivo e risonante di Monk e le vibrazioni tattili e sensuali di Bill Evans sono lì a dimostrarlo. La sintassi armonica del jazz è anzitutto un flusso di colori.

Del resto, proprio quegli aspri urti sonori gli permettono di esaltare gli armonici interni di ogni accordo, amplificandone la sonorità (come afferma DeWilde: «[nel]la musica di Monk […] crediamo sempre di sentire più note di quante ne stia veramente suonando. Dobbiamo continuamente chiederci: la suona veramente, quella, oppure ho semplicemente l’impressione di sentirla?»). Una tecnica che richiede un’assoluta padronanza del tocco e dei registri strumentali, e che fra l’altro gli consente di risolvere uno dei più annosi problemi del pianoforte jazz: la resa delle blue note. Monk usa spesso una soluzione peculiare, che consiste nel percuotere simultaneamente due note a distanza di semitono, rilasciandone poi una: l’effetto evoca in maniera straordinariamente precisa il bending, ossia quel modo di «piegare» le note tipico dei cantanti e dei chitarristi blues (uno degli esempi più chiari è il Just A Gigolo inciso in piano solo sul disco MISTERIOSO, Riverside 1958).

In altri termini, Monk impiega il tipo di approccio al pianoforte necessario ad ottenere il tipo di risultato sonoro che egli ha in mente. E lo fa in maniera assolutamente consapevole e pianificata. Del resto, fu proprio Bill Evans – pianista all’apparenza del tutto opposto rispetto a lui – ad affermare che Monk «sa esattamente che cosa sta facendo, dal punto di vista teorico: è organizzato, probabilmente, secondo una terminologia personale, ma comunque fortemente organizzato. […] Monk si accosta al pianoforte – e, aggiungerei, anche alla musica – come da un angolo, ed è l’angolo giusto per lui».

tratto da Breve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e nero, Arcana, 2015

Musica delle sfere è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Muro di casse

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di Vanni Santoni

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…e dalle case di pietra sotto cui passi prima di arrivare, le vecchie sbirciano; sulla strada i vigili danno mano, addirittura. È esistita un’epoca, ricordo adesso, in cui sui giornali si potevano prendere per quello che erano, semplificando al massimo, quei ragazzi: appassionati di musica, solo un po’ strani. Tra i lampi tremolanti dei fari di chi cerca di far manovra incroci facce che vengono da lontano e altre che invece arrivano certamente giù da basso; per un Claust di Innsbruck e una Marystelle di Roubaix ecco un Baldo, un Colle, una Sarina.
E seguirò proprio te, Sarina: tu che procedi all’apparenza sicura verso il monte, con le calze smagliate e gli scaldamuscoli rivoltati sopra le scarpe da skate, con la felpetta nera su cui hai cucito, o lo hai fatto fare a tua mamma?, una toppa col logo dei Narkotek, quante volte hai fatto su e giù, in questa settimana? Chi ti ha dato uno strappo fino a mezza strada, stavolta? Che fai, ti metti da parte, ti fermi a giocare con un cane? Se fai così ti supero…
Servono capsule?
O Sara, sono Iacopo, il Gori.
Ah mi’, ciao Iacopo. Vuoi capsule?
Con tutto il ben di dio che ci sarà lassù…
Bo vabbè cioè te le mettevo a dieci, è md francese…
Immagino.
Senti Iacopo… Che ce l’hai mica una sigaretta?
Tieni, Sarina, e prende la sigaretta, se la mette sull’orecchio, poi ci ripensa, la accende, intanto arrivano altri tre, piccoli come lei, due ragazzine e un tizietto con una visiera da tennis sulle ventitré.
Ciao… Lucy?, fa alla prima del gruppo, ci prende, ottiene riconoscimento; si affianca, allora, e ritrova la voglia, finalmente, di fare strada: ti seguo, Sara, hai visto cosa hanno messo su? Proprio qui da noi. Tu che per la prima volta hai visto una vera festa cinque settimane fa, che dalla loia impestata del campeggio di Arezzo Wave qualcuno ti ha caricata su, e ti ha portata all’In the wood, al confine con l’Umbria, e lì sì che hai visto i tuoni e i fulmini e i diavoli che uscivano a mazzi dalla terra, e ora puoi ben fare come se bazzicassi questi sentieri da sempre, e come se questi sentieri per sempre dovessero esistere: non è così, Saruccia, vorrei dirti oggi, ma intanto ecco i primi tuoni, e i primi camper scassati e coperti di adesivi, ecco che sbirci quelle lucine che sembrano di lanterne a olio, lì nel riflesso di quegli interni di legno o simillegno,  e c’è chi vende sebbene l’ora non sia tarda, te lo figuri a dire Veggano, veggano che fiore di mercante! Qui v’è di tutto; e son nullameno tutte cose rarissime e senza eguali in terra, oppure oh raga serve qualcosa, e allora tu sbircia e salta qua e là, Sara! Altro che le capsule con cui ti bulli di smerciare anche tu, che ti sei preparata sbriciolando un grammo di md presa ieri e dividendola dentro gli involucri svuotati di qualche medicina di tua madre; qui, Saretta, c’è ogni cosa, stasera da Castiglion Fibocchi passa la Via della Seta,
ecco Odilon con l’oppio andaluso
e Kirsten con le superman bianche (tutte anfetamina)
e quel gruppo da Marsiglia con gli acidi marca Timothy, che sta per Timothy Leary, l’hai mai sentito, Sara? non prenderne più di mezzo, si raccomanda uno di loro, sono da trecentosessanta microgrammi
da trecentosessanta microgrammi
e il Falacci (lui, be’, lo conosciamo) che è venuto da Reggello e ha un mezzo chilo di nero
e Rocamadour con Sayfa che hanno lo speed base, senti come odora, e la ketch indiana appena cucinata, e se vuoi anche le paste, smile blu, lo so c’è tanta md in giro,  ma queste son buone davvero, guarda, te le metto a cinque, a quattro
e al camper col graffito di Luigi (quello di Super Mario) affettano panette di zero zero
ma hanno anche la ganja olandese
e alla tenda, quella con la bandiera dei pirati, hanno le micropunte e il 2C-B, addirittura
raga serve oppio, serve md
ora che si formano le prime stradelle, ora che i tuoni e i lampi si aggregano in nodi e nubi sui crinali ecco anche nascere i crocevia coi loro mercanti, ognuno una lampadina al collo o sulla testa, qualcuno il cane, c’è chi si è portato una sedia da picnic
trip?
fumo?
serve speed ragazzi?
funghetti? guardalo, col cappello da cowboy e i sandali e il torso magro e nudo su cui penzola un rosario di legno, da dove sei arrivato tu, dall’accento potresti venire da qualunque posto, essere qualunque cosa
funghetti mezzicani ragàz?
Sarina, quasi ci hai ripensato? Buoni i funghetti, ma ti sei già comprata due Timothy, stai tranquilla, che se davvero sono da trecentosessanta microgrammi, mezzo ti basta e ti avanza
GHB?
erba?
volete birre ragazzi?
fresche nella bacinella da bucato riempita d’acqua di fonte
un bicchiere di vino cinquanta centesimi!
cecina, piade, magliette,
per caso vi serve mica un generatore usato, raga? funziona eh
Si sarebbe detto poi in Valdarno, Sara, che dopo quella festa ti eri messa con un francese di una tribe, e che ti avevano ritrovata lacera e perduta su un marciapiede di Marsiglia, sembrava una storia primi anni ’80, di quelle a fosche tinte; la verità è solo che avevi rivisto questo tipo incontrato all’In the wood (che poi, di lì a dire che quel Pascal, un devastato in canotta aggregatosi all’ultimo ai Sikotronik, fosse “uno di una tribe”, ce ne correva), e ci avevi pomiciato e gli avevi fatto una sega e ti eri ficcata in testa di metterti con lui, ma lui mica voleva troppo, ed eri arrivata a infilarti nel loro furgone, e allora lui, va là che non si butta via niente, il viaggio è lungo e una scopata ci sta, ti aveva presa su, ma arrivati a Marsiglia si erano tutti rotti il cazzo di Pascal e quindi figuriamoci di te (alle prime beghe peraltro subito disconosciuta), e arrivati su era chiaro pure che nessuno ti avrebbe portata in giro – neanche ti parlavano! – e così, senza neanche provarci, ad andare alla festa che dovevano organizzare qualche giorno più in là in certi hangar del porto sud, te l’eri fatta all’indietro, elemosinando e facendoti buttar fuori dai controllori treno dopo treno, e alla fine eri riapparsa qua, un po’ scossa e sbattuta, ma nulla di terribile, e però si sa, in paese ogni storia appena anomala si gonfia e sfugge di mano… Ma adesso siamo in quota, Pratomagno 2004, tutto questo non è ancora accaduto e grandi sono gli spazi bui tra i sound e possenti i tuoni, e farai bene ad approfittarne, a saltare e correre di qua e di là secondo il ritmo incessante che si alza a ogni orizzonte, ogni spiazzo è un mondo e dietro ogni crinale c’è un sound più grosso, e io stesso ti perdo, tu svalli mentre mi fermo a girarmi una sigaretta, approccio un sound che manda breakbeat, cos’è quel fagotto lì sotto, ah no aspetta è una persona… Oh mi’ c’è i’ Futre. Vomita, i’ Futre.
Ciao Futre, che fai, sgori?
Urg, hei Iacopo, um…
Ecco un esempio di quelle improvvise fluttuazioni verso il basso del pensiero cosciente che si hanno mentre sale l’effetto della ketamina. Ad alcuni poi, l’avvio causa una certa nausea, per l’effetto anestetico. Specie se, a giudicare da quanto il Futre sta rimettendo sull’erba bagnata, si viene da una corpata di spaghetti all’amatriciana e vin cattivo. Ma l’ho del resto visto vomitare una mezza dozzina di volte, ai tempi del liceo, quando era punk e bene declinava tale appartenenza. E sì che proprio lui allora cantava inni contro i “discotecari dai capelli colorati”, sebbene al Fitzcarraldo di Terranuova Bracciolini o al Mulino di Figline Valdarno, che erano le uniche discoteche che avessimo mai visto, nessuno avesse i capelli colorati – c’erano in effetti le stesse persone che incrociavamo ogni mattina durante l’intervallo. Si trattava forse di una sovrapposizione tra i discotecari di casa nostra e quelli che a volte facevano capolino sui giornali o in TV, in un servizio sulla Love Parade di Berlino (o sul The West di Venturina, che faceva 07:00-17:00 anche se ai tempi la parola rave in Italia neanche esisteva: quelli erano gli afterhour), i quali poi volendo erano ben più sovversivi di un gruppo di punk di paese, ma capisco l’equivoco, sono solidale: non era facile capire che ballare poteva essere qualcosa di sensato. Ti approcci al ballo la prima volta alle feste delle medie (ma se serve vi porto i dischi/così potrete ballare i lenti), è un orrore, poi al biennio c’è la discoteca della domenica, peggio ancora se non per il fatto che permette di tornare a casa la sera sfondati di cocktail e cenare di ottimo umore e solo un po’ giallastri coi genitori prima di svenire sul letto, né sono migliori quei dancefloor del mare, messi su in spiaggia alle 21:30 con tre faretti colorati; e pure quando cominci a rovistare le librerie dell’usato in cerca di quei “mille lire” di Stampa Alternativa con le interviste a Albert Hofmann o i suoi carteggi con Huxley, Jünger, Leary e Vogt, quando insomma cominci ad aprirti a una cultura che col ballo confina dai tempi dei tamburelli degli sciamani, ti capita fra le mani (nella stessa collana, in effetti) Anche le oche sanno sgambettare, e insomma, Don Milani non sarà Hofmann ma dato che conferma quello che già pensi è difficile non dargli ascolto, anche se il pogo, quello che fai ai concertucci punk, non è forse un ballo? Servirà ancora una fase di transizione, in quei postacci tipo Blue Kaos o Duplé dove per via della “progressive” la più turpe ottica da discoteca si mescolava con un primo, possibile, gusto del ballare per ballare (ma sempre con la testa sul fatto che ti stanno guardando, sul come ballare, sul cercare di non essere ridicolo, sul quando-avvicinare-quella-che-hai-puntato-prima), prima di capire che ballare è bello, anzi che il ballo è celebrazione, è rito, è il più elementare abbandono dell’io, i bambini lo sanno, basta che li metti davanti a una cassa e ballano, i bambini senza che nessuno glielo insegni girano su se stessi fino a stordirsi. Quanto ho girato! Facevo le feste già a tre anni, a casa della nonna: non mi si biasimi allora se remo sotto cassa.

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Vanni Santoni, Muro di casse, Laterza 2015

Muro di casse è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

InRitiro: Soggiorni di Studio sull’Appennino

Sax in the city

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Ho chiesto a Franco Bergoglio, polemista e attento studioso del jazz, di presentare il suo ultimo libro Sassofoni e pistole. Quello che leggerete è uno spin-off su uno dei mille mondi che non hanno trovato dimora nel lavoro. (effeffe)

Il Crime jazz al cinema
di
Franco Bergoglio

L’immaginario noir del jazz è sterminato: concentrandomi su quello “letterario” dei romanzi e dei racconti brevi, ho lasciato volutamente fuori il fumetto e il cinema. Verso il cinema il mio pudore è doppio: se per analizzare i romanzi ho impiegato otto anni, il cinema mi avrebbe portato via almeno il doppio. E poi David Butler ha scritto un bel libro sul tema, Jazz Noir (Praeger, 2002); invece del rapporto tra romanzi noir e jazz non se ne era occupato ancora nessuno in termini tanto ampi. Un vero cold case da detective melomane! Senza concorrenza, e senza tema di farsi sbranare da cinefili super-competenti ma sanguinari. Ovviamente l’immaginario “giallo-nero” legato al jazz finisce per rendere labili i confini tra pagina scritta e celluloide. Ieri flirtavano con il cinema Hammett e Chandler, oggi lo fanno Ellroy o Patterson. Molti lettori precoci del libro mi chiedono continuamente di parlare di cinema, di indicare pellicole, di stilare classifiche…nonostante io continui a ribadire che NON sono in grado di affrontare anche quest’indagine. Allora da detective passo al ruolo di testimone e semino alcuni indizi. Dice James Ellroy: il romanzo noir è come il jazz: gli americani lo fanno meglio. Elenco quindi quattro scene memorabili tratte da altrettante pellicole. Tutti film rigorosamente americani –Ellroy oblige- e non tutti capolavori (quello di Altman, forse sì). Il jazz vi gioca un grande ruolo. Entra nella trama, detta le atmosfere e solo uno, Il lungo addio, è emanazione diretta di un romanzo-capolavoro. Non ho saputo resistere. Après moi le déluge diceva qualcuno più importante del sottoscritto; spero solo, lasciando campo libero a curiosi ed esperti, di non trovarmi sommerso da tuoni, fulmini e chicchi di grandine.

Collateral (2004), diretto da Michael Mann.
La scena nel Jazz Club è un tributo a Miles Davis: l’improvvisazione del trombettista arriva da Spanish Key, tratta dall’album Bitches Brew e il divino principe della tromba viene evocato più volte nel teso dialogo che occupa la sequenza. Un Tom Cruise assai cool veste i panni di un killer/esperto di jazz quasi tarantiniano (Critici: non picchiatemi!).

American Hustle – L’apparenza inganna (2013), diretto da David O. Russell.

Tutta la colonna sonora di questo disco è una miniera di preziosi, ma a noi interessa la scena dell’incontro tra i due protagonisti interpretati da Amy Adams e Christian Bale, un gioiello che rasenta l’assoluto cinematografico: i movimenti di macchina seguono fedeli i pensieri dei due e le musiche (e pensieri, gesti e musiche si trovano sullo stesso piano!). Il party anni Settanta ha il suono dei Chicago con Does Anybody Really Know What Time It Is. Seguono due minuti indimenticabili con Jeep’s blues di Duke Ellington. La versione è quella del Live at Newport 1956, come mostra bene la copertina del disco inquadrata dalla camera. La canzone entra prepotente e scava “da dentro” la trama.

Johnny Staccato-The Naked Truth (1959), diretto da Joseph Pevney

I telefilm hanno fornito tanto materiale al cliché jazz-noir. Qui gli esperti di televisione mi tireranno le pietre, ma tra tanto materiale scelgo il primo episodio della serie: didascalico nel presentare l’ambiente e I personaggi. Il detective suona il piano, il suo ufficio è un jazz club. La presenza di John Cassavetes nei panni del protagonista sigilla il quadro, mentre sul palco stanno come figuranti Pete Candoli, Barney Kessel, Shelly Manne, Red Mitchell, Red Norvo…

The Long Goodbye/Il lungo addio (1973), diretto da Robert Altman

La colonna sonora del film consiste in due sole canzoni, la prima Urrà per Hollywood e un’altra intitolata The Long Goodbye. Ogni volta che si sente, c’è una variazione nell’arrangiamento del tema composto da John Williams. La vita di questo Marlowe è intrisa di una solitudine che si rinnova, come un refrain. La canzone torna, sempre lei, ma sempre diversa. La vita è sempre maledettamente uguale, ma sempre diversa. Elliott Gould incarna questo Marlowe esistenzialista indossandone alla perfezione le note musicali.

Sax in the city è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Intonarumori & cacofonatori

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viniledi Romano A. Fiocchi

Doc. Looksharp, LP Cacophonorgy, Furry Heart Records, 2014.

Se il progetto fosse stato americano, magari avrebbe già trovato una grande etichetta e un successo assicurato. Invece, nonostante nomi e titolo, è tutto italiano. Ed è rimasto un prodotto di nicchia. Italianissimo l’autore, Doctor Luden Looksharp ossia Luca Collivasone. Italianissima l’etichetta, Furry Heart Records. Italianissimo lo strumento utilizzato, un cacofonatore, ossia l’erede dell’intonarumori ideato da Luigi Russolo giusto un secolo fa. Russolo, che aderì con entusiasmo all’ultimo movimento artistico tutto italiano, il Futurismo, fu l’unico a proiettare la visione futurista nel campo musicale. In quello che viene concordemente ritenuto il manifesto della musica futurista, L’arte dei rumori (1913), sostenne la possibilità di “intonare e regolare armonicamente e ritmicamente” i più svariati rumori e diede concretezza alla sua tesi con l’invenzione di un sistema di mezzi fonici che chiamò appunto intonarumori. La serie di concerti che tenne a Milano nel corso del 1914 suscitò clamori e dissensi, ma anche interessamento da parte di grandi nomi come Ravel e Stravinskij che restarono impressionati dalla sua composizione per frusciatore, gorgogliatore, gracidatore.

Se con Russolo siamo in bilico tra la bizzarria e la provocazione, tipiche del Futurismo, in questo progetto di Doc. Looksharp la ricerca si fa sistematica, fonde il tributo a Russolo con le innovazioni d’avanguardia dei nastri magnetici di Luciano Berio e Luigi Nono, con ritmi tribali, con rielaborazioni elettroniche decisamente attuali, compreso l’utilizzo della voce umana modificata da un distorsore. Al tempo stesso, con l’arma dell’ironia, si scaglia contro la vocazione ormai prettamente commerciale dell’industria discografica e contro la sua scarsa attenzione per la sperimentazione e per l’invenzione musicale.

Ma cos’è questo cacofonatore. In primo luogo è uno strumento filosofico con vocazione ecologista, ossia un assemblaggio di materiali ormai usciti dal ciclo produttivo ma che racchiudono un potenziale di riutilizzo che solo un’artista sa riconoscere. C’è l’amore per l’oggetto rigenerato, il rispetto per qualsiasi tipo di materia messa a disposizione dalla natura, l’avversione per gli sprechi. Una specie di Arte povera con fini esclusivamente musicali. Doc. Looksharp è partito dalla carcassa di una macchina per cucire Singer del 1940 per realizzare una macchina per suoni. Il progetto e il processo di costruzione sono descritti in un filmato on-line che si può visionare liberamente su YouTube, qui.

vinile contenutoDavvero suggestivo è l’utilizzo narrativo che Doc. Looksharp riesce a sviluppare in alcune composizioni, prima fra tutte At the monuntains of madness (Alle montagne della follia), dove l’atmosfera del noto racconto di Lovecraft è creata magistralmente. Certo, bisogna aver letto il testo. Ma per chi l’ha fatto, sonorità e ritmi straordinari generano un habitat musicale dove si rivede tutta la storia: le infinite distese di ghiaccio dell’Antartide, l’immensa (e immaginaria) catena montuosa con le tracce di civiltà arcaiche, i misteri delle strane creature ibernate (gli “Antichi” di Lovecraft), i bastioni della gigantesca città abbandonata, i tunnel scavati sotto le montagne, insomma tutto l’insieme di visioni che conduce il narratore sull’abisso della follia: “L’emozione più antica e profonda del genere umano è la paura e la paura più arcaica e violenta è quella dell’ignoto”, scrive Lovecraft. Per chi vuole farsene un’idea più precisa, Doc. Looksharp ha reso disponibile un bel video sempre su YouTube, qui.

Cacophonorgy, che raccoglie sei composizioni per cacofonatore, non poteva certo uscire in CD, tanto meno esclusivamente come musica liquida. Ecco dunque la scelta di un vinile a trentatré giri, stampato su un supporto verde trasparente e con tradizionale copertina in cartoncino. Eccentricità da futurista? Tutt’altro, il vinile – gli appassionati lo sanno bene – garantisce toni più caldi e maggiore fedeltà al suono, caratteristiche essenziali per la voce di un cacofonatore.

Intonarumori & cacofonatori è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Do you remember Marilyn?

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Quando registrammo la Marilyn di PPP con Laura Betti

di

Luigi Cinque

La generale di “Una disperata vitalità” di PPP era già iniziata. La prima sensazione, quando entrai in teatro, camminando nel buio lungo la parete, fu la precisione con cui Laura, tra versi e canzoni, attraversava il testo. Era in scena da sola, coraggiosamente obesa, tirata, livida, sotto quegli occhi e il nasino dispettoso da bambolotta. Tre quattro persone in platea con il regista Mario Martone. Rimango in piedi.

Che Laura fosse soprattutto la sua voce, lo sapevo già. L’avevo conosciuta, dal vivo, molti anni prima, frequentando alla Sapienza un corso di cinema e letteratura tenuto da PPP. In una delle quattro straordinarie lezioni lei era venuta a leggere e cantare dei versi. Lo stesso PPP ne aveva esaltato le doti di interprete. Ma provo lo stesso fastidio di allora quando esibisce quella risata sguaiata romanesca da straniera, da emiliana, un po’ forzata, in quel suo cantare certe volte alla maniera della Ferri cogliendone solo ingenuamente il verso senza andare al profondo della tuttità romana, di quell’insieme inimitabile di“altoalto e bassobasso” che è la canzone popolare ebreo/romanesca. Ora avrei voluto dirle: – “guarda che “la Toppa” o lo sai cantà o non la sai cantà! Inutile che ce fai… e poi te manca la periferia, che voi capì dar salotto de nonna ( così Laura chiamava Moravia, me lo aveva detto Carmen sua organizzatrice dello spettacolo e nostra comune amica ).

Mi siedo in platea. In terza fila a destra del palco. Lei è un tutt’uno con quel leggìo ancora troppo alto, e grande, da direttore d’orchestra, e l’insieme, da giù, con le sbavature di luci ancora da sistemare, dà l’idea di una botte scura al centro del palco con sopra una faccia e i capelli annodati in un ciuffo in su che “facevano pensare allo spruzzo di una balena o al pennacchio di un ananas psicotico” ( sto citando a memoria il particolare dal bel romanzo di Emanuele Trevi “Qualcosa di scritto”). Sono previste le riprese televisive. L’aiutoregista – le chiede, in una pausa, se si terrà così i capelli o magari avrà un cappellino di qualche colore. – “ No tesoro…proprio così…biondo mignotta… “ – gli risponde dal palco, e si morde sul labbro una risata infame. Laura non lo sopporta, mi dice Carmen. E guai a cadere nelle sue grinfie. Poteva essere terribile. Sapevo anche questo. Riprende a provare.

Nel canto, meglio ancora, nel recitarcantato, nello sprechgesang, la sua voce, giocava in casa, aveva un’intonazione naturalmente perfetta. Sembrava esserci nata in quell’ espressionismo popolare. Riempiva la parola di straordinarie microintonazioni. Nessuna ansia dello scorrere del tempo musicale. Le bastava parlare per esserci, in musica s’intende. Respirare per prendere il tempo. Le grandi voci sono grandi per questo, perché danno l’idea di parlare mentre cantano e modulano.

Laura con la sua voce, rauca, fumosa, budellare, gelida, razionalBrecthiana, mirava direttamente al cuore e questo era anche dovuto al fatto che – avrei dedotto più tardi – era perfettamente – “cattivamente” – onesta con se stessa e con gli altri. La voce recitarcantante non perdona. E’ un elemento di rilevazione primario. Ti espone. Non ti permette di fare alcuna poesia, racconto, canzone, senza un rapporto risolto con te stesso, quantomeno con la tua di verità. Non giudica. Ti fotografa e stampa fuori come una vecchia Polaroid. Se l’anima esiste è certamente nel suono della voce. I civilissimi aborigeni australiani – quelli che inventavano il boomerang quando noi eravamo alla ben più terrena e violenta ruota – sostengono che se fai perfettamente il verso di una rana o altro animale sei quell’animale.

Comunque nel nostro caso non c’era bisogno di cercare chissà quale animale. Laura era laura perché faceva la voce di Laura. Per questo comunicava quel senso di precisione. Tranne, ripeto, per quell’accentazzo romanesco che assumeva in alcune canzoni e che la rendevano ridicola; che, come diceva PPP, la inchiodavano “ alla qualità di fossile con la sua maschera inalterabile di pupattola bionda…a mostrare il sadismo di una provinciale che giunta al Centro dove abitano gli idoli si traveste goffamente da nativa per mitizzarli, profanarli e dissacrarli meglio”.

A metà della filata Laura si ferma. Ha bisogno di una pausa. La segretaria di produzione annuncia a tutti i trenta minuti. Carmen mi accompagna nel camerino. Dobbiamo accordarci per la Marilyn di PPP da musicare e registrare per una compilation di canzoni pasoliniane in occasione del ventennale del suo assassinio.

Si sta cambiando abito. Faticosamente. Ci fa entrare. Ha un problema con il vestito. L’elastico, credo. Guardo altrove. Scruto un palazzo antico che si vede dalla finestrella. Alla fine si accende una sigaretta e mi dice – “ciao”.

Credo che con lei valesse una specie di energia animale immediata per cui: o come se ci si fosse sempre conosciuti oppure…oppure niente. Detestava qualsiasi tipo di presentazione. Nel caso, poteva reagire anche male. Mi accoglie come uno che conosceva. Non so. Fu molto gentile con me. Una questione di odori oppure che la musica la intimidiva. Ovviamente non ci fu modo di parlare del lavoro. Avrei capito a breve che non ne voleva sapere. Restammo d’accordo che con Carmen saremmo passati da lei in via di Montoro vicino Campo de Fiori. Faccio per uscire. “ Pierpaolo amava molto questa poesia “ – mi dice. Già, Pierpaolo. C’è una sottile linea di confine a Roma oltre la quale puoi ancora trovare quelli che parlano del poeta chiamandolo Pierpaolo e non Pasolini. Dacia, Piera, i Citti, Ninetto e qualcun altro. Nel tempo mi è capitato di incontrarli. Di sentirli che lo chiamavano così. Segnavano un appartenenza. Un codice. Ma Laura quel nome lo pronunciava in un modo “più” speciale. Assoluto. Primitivo. Infantile. Esclusivo.

Due giorni dopo mi presentai a casa sua. In via di Montoro, Campo de Fiori. Avevo preparato uno schema. Un primo aleatorio nel quale accogliere il testo e la voce a suo piacere. Dovevo solo verificare con lei un paio di appuntamenti sonori, del tipo: incontrarci tutti al riff e fare insieme quel pezzo di melodia in quattro che avevo pensato. Ho con me nello zaino una tastierina giocattolo. Tanto per non dover cantare. E pure il sax, il soprano. Non c’è l’ascensore o non lo trovo. Faccio le scale a piedi. Appena arrivato, sulla porta, Carmen mi chiede sorridendo: Sai fare le iniezioni?. Beh, Si! – dico. Entra in scena Laura, non mi saluta, ha una vestaglia da basso impero Mogul, fiori blù su fondo rosa. Mi dice: – non sarai una fighetta che s’impressiona e sviene? –

Mi indica una busta di plastica poggiata sullo sgabello. Dentro due siringhe e una dose di pennicillina gigante. Mi lavo le mani. Preparo il tutto. Siamo ancora nell’ingresso. Ho la siringa pronta in mano e lo zaino ancora in spalla. Confesso subito che non mi viene bene a fare le iniezioni in piedi. Preferisco il paziente sdraiato. Laura si avvia verso una stanzetta con un letto singolo. – Perfetto – dico –… e se poi abbassi un po’…”

Lei si stende e mi dice serissima: non è che me te voi fà…?” La pugnalo con la siringa.

Passiamo la serata di giugno in terrazza. Mi piaceva moltissimo quella terrazza, così non tanto grande. Fuori da ogni sguardo. Siamo a un centinaio di metri in linea d’aria dal fiume. Decine e decine di gabbiani entrano ed escono nel cono dell’interno condominio, silenzioso, mezzo deserto/barocco e mezzo abitato, galleggiano in cima, perlustrano con un’occhiata e riprendono l’onda gridando.

C’è un vino bianco di marca e un piatto raffinato di pesce e pasta fredda. Non parliamo ovviamente del brano da registrare. Si capisce che non c’è nessuna intenzione di farlo. Anche per un fatto artistico, mettiamola così. Come si suole, diciamo, tra improvvisatori. Dico l’improvvisazione come l’arte sublime della performance. La poetica del mettere le mani sulla materia in tempo reale. Laura ne fa un breve accenno. Colgo al volo. Da qui il discorso devia, un po’ tra l’altro, ma non tanto, quando parte con tutta la sua vestaglia in una risata secca. Ce l’ha con i poeti stonati che leggono le loro poesie con “quella bocca che sembra un culetto e gli occhi sulla pagina scritta e mai a fuoco con il microfono”. E se poi c’è la musica e il ritmo la cosa si fa persino imbarazzante. “Non lo sanno, le zoccolette, che la poesia si fa con le orecchie? Che l’intonazione è tutto per un poeta. Fuori e dentro. E poi non hanno un briciolo di rabbia, solo la posa dei leccaculo, questo sì.” Qualche tempo prima, l’avevano portata a un premio di poesia. Quell’avanguardia vecchia che si sa con Pierpaolo ce l’aveva a morte. Un astio, in molti casi, ingiustificato, da far pensare che non gli perdonavano il successo e la vitalità, che non sapevano davvero cosa voleva dire essere “un gatto bruciato vivo, pestato dal copertone di un autotreno…ma almeno con sei delle sue sette vite davanti “. Il bello è che quelli odiavano pure Sandro Penna che non si può dire avesse tutto questo seguito popolare.

E a proposito ci racconta della Morante ( che invece ne capiva tanto, dice ) che una sera a casa, sentendo un gran rumore di clacson e torme urlanti slogan incomprensibili chè forse la Roma aveva vinto il derby, commentò dicendo: “ deve essere perché Sandro Penna ha preso il premio Strega e lo stanno festeggiando… “.

Infine qualcosa me la dice a proposito della Marilyn. Capisco che lei ama questo testo. Aggiunge: – “che non si perda mai un lontano odore di jazz. Ma nello stesso tempo sarebbe ridicolo farne un brano jazz. Tutto solo sulla sfumatura…sulle intenzioni…niente accordini e terzinati pùmpapa pùmpapa… niente fighettate da solisti”-

Non volle ovviamente sapere la formazione che avrei portato in sala. Meglio così. Non avrei saputo cosa rispondere. La registrazione era fissata al giovedì della settimana dopo.

Le parti erano pronte. Ma servivano a poco, c’era invece da organizzare più che altro un’emozione discreta e univoca che fosse in grado di contenere la “belva”. Chiamai tre vecchi amici con grande esperienza di real time, come si dice, di interplay che poi in ultima analisi vuol dire di sana capacità di ascolto ancor prima che di emissione di suono. Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, Massimo Coen al violino.

Il giovedì di registrazione cominciò con una piece teatrale di gesti e rumori degna del miglior Becket. Siamo in una via del quartiere Prati. Una traversa tra due arterie cittadine. Un via decisamente stretta considerando che ci passa il bus. Il portone di un palazzo di solido stile umbertino che dà in un ampio cortile circolare con diverse saracinesche aperte e vetrine con attività varie. Ricordo un parrucchiere per signora. Giù in fondo, al centro, proprio di fronte al portone, l’ingresso dello studio di registrazione. Noi, da buoni turnisti, eravamo già lì con i nostri strumenti. Alle dieci Laura era in forte ritardo. Apparve dopo mezz’ora. La vedemmo entrare nel cortile, gelida, gli occhialoni da sole tondi e grandi, livida, con le labbra serrate, un borsone portatutto con dentro sicuramente la bomba, una camiciona celeste che la conteneva alla meglio. Non aveva tempo di salutare. Si ferma davanti al produttore ch’era lì con noi. Lo brucia con uno sguardo e platealmente fa cadere la chiave dell’auto dentro una grata ch’era sotto i nostri piedi. La cosa sul principio non ci impressionò ma subito dopo percepimmo che la signora aveva parcheggiato in seconda fila e la sua Golf già bloccava l’autobus e una fila infinita di automobili.

Furono momenti di panico. Laura se ne frega. Nessuno osa parlarle. Entra in sala, chiede al fonico qual è il suo microfono e si siede in postazione. Fuori arriva trafelato il portiere dello stabile armato di una grossa barra di ferro. Insieme al produttore, ( reo di aver dimenticato di andare a prendere la furiosa a casa, da qui la punizione ), ed altri tre o quattro, riescono a sollevare la grata. Siamo invasi dal suono di un’orchestra di clacson. Massimo il violinista mi dice che è il miglior Cage che abbia mai ascoltato. Il gruppetto infine raccoglie nel secco di fogliame e carte la chiave. E sarà il produttore stesso che rischia la vita ( per espiare evidentemente! ) uscendo a spostare la Golf tra una folla di automobilisti e passeggeri inferociti. Entrammo e ci mettemmo ai nostri posti. Dopotutto la furiosa aveva ragione. Quel suo special di teatro del dispetto era l’unica possibile reazione verso l’insensibilità e grossonalità, mista a finta gentilezza, del produttore Si capiva da lontano che quello era al posto sbagliato. Che era il tipo di persona che, anche inconsapevolmente, impedisce che si stabilisca un patto importante tra artisti e pubblico.

In sala, Laura parlava solo con me. Quando ci mettemmo le cuffie e tutti ci ascoltavamo in interfonico mi toccò la ridicola parte di tradurre dall’italiano all’italiano le sue indicazioni. Non conosceva il pezzo. Alla fine chiese solo di avere gli attacchi chiari. Si era improvvisamente ammorbidita. Ora, la furiosa, era a suo agio. Attentissima. In grado di cogliere ogni spostamento di intonazione e ritmo. Ubbidiente al flusso di note. Reattiva.

Dopo una prima passata per regolare meglio gli ascolti registrammo l’unica versione del brano. Un solo take. Laura era della vecchia scuola. Del tempo in cui il nastro era prezioso. Nessun vezzo, si usava così. Si riascoltava e se non andava si cancellava e se ne faceva un altro. Comunque lei approvò già il primo e per noi andava bene.

Ho riascoltato diverse volte la Marilyn. C’è qualcosa di intrigante nella dinamica parola suono. Un piccolo teatro nascosto. Laura comincia stranamente con un’intonazione separata che la pone, in disparte, con un’altra impedenza elettrica, in altorilievo rispetto alle costellazioni sonore che componiamo via via. Si mantiene sempre una terza minore sotto il galleggiamento atonale del brano. Lo fa per istinto, si capisce. Per pigrizia, forse. O, per mantenere dispettosamente la sua di intonazione. Si contrappone. Brechtianamente si estrania. Ma nello stesso tempo depensa. Esce dalla ragione di interprete. Si fa medium. Laura non credo lo sapesse (non faceva parte del suo bagaglio ) ma fanno lo stesso i cantanti di Druphad, l’antichissimo e straordinario canto sanscrito indiano. Riescono a giocare con la vibrazione molecolare della base uscendo e rientrando dalla consonanza e regolando in questo modo, tra intonazione e disintonazione, l’effetto drammatico della voce e, di conseguenza, il rilievo poetico della parola.

Laura era, da questo punto di vista, una sorta di modello originale e non aveva niente da invidiare, nell’essenza vocale, a Carmelo Bene, per esempio, e alla “carmelobenica” del tempo. Aggiungo, faceva istintivamente e con l’esperienza straordinaria che aveva, quel che altri coprivano, velavano, vestivano, machistamente, di superbe e fumose teorie prima di rivelarsi. La sua vocalità riusciva ad essere esibizione, aggressione e dall’altro interiorità manifestata: andava dall’interiore all’esteriore legando continuamente due esistenze. In questo senso, per dirla proprio alla Bene, Laura era il capolavoro. Così grossa e sformata ormai era una piccola Marilyn.

Nella seconda strofa si avvicina sempre più all’intonazione complessiva degli strumenti. Entra più dentro. Cessa di essere un altorilievo. E diventa soprattutto una voce ritmica. Il tutto dentro un normale parlato. Gioca naturalmente, al servizio dell’insieme e delle parole soprattutto, sul battere e levare, dialogando magistralmente con il basso e il pianoforte. Nelle sfumature dunque. In una condizione non assertiva. Per frammenti che sono piccole implosioni di jazz, webernismo, oral poetry. E’ straordinario infine come nella terza strofa faccia suo l’andamento swing del basso pur restando tranquillamente nel testo. In realtà, in apparente monotonia, Laura, sotto, canta continuamente qualcosa e in questo senso – rifacendomi a Paul Zunthor e il suo bel saggio “La presenza della voce “ – dico che la vocalità della Betti, in questo piccolo brano, è parola senza parole, ha un tratto sciamanico. Una voce che le parole vengono ad abitare, ma che veramente non parla e non pensa, ma ripercorre e fa sopravvivere la memoria della primaria mancanza sensoriale in ognuno di noi”.

foto di Roger Salloch

foto di Roger Salloch

Marilyn

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro i fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,

tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.

Il mondo te l’ha insegnata,
Così la tua bellezza divenne sua.

Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro
era rimasta sola la bellezza, e tu
te la sei portata dietro come un sorriso obbediente.
L’obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,
il darsi agli altri, troppi allegri sguardi
che chiedono la loro pietà! Così
ti sei portata via la tua bellezza.
Sparì come un pulviscolo d’oro.

Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.

E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci ragazze del tuo mondo…
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì come una colombella d’oro.
Il mondo te l’ha insegnata,
e così la tua bellezza non fu più bellezza.

Ma tu continuavi a essere bambina,
sciocca come l’antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal Potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca colomba d’oro.

La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne un male mortale.

Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte

versione della poesia tratta dal film La rabbia – I parte (1963), scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini;

Do you remember Marilyn? è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Bastava saperlo prima

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bd(Alberto Tonti – architetto, scrittore, critico, talent scout, persino cantante a Sanremo – ha conosciuto tutti nella vita. Sono anni che gli dico di scrivere un resoconto dettagliato dei suoi infiniti incontri, perché quando me li racconta al bar mi fa morire dal ridere. Dopo mia insistenza, a modo suo è uomo pudico, ha deciso di mantenere la promessa. Quello che vi pubblico oggi è il primo – e mi auguro non ultimo – di quelli che lui ha voluto chiamare Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Lo ringrazio fin d’ora e aspetto sue nuove a prestissimo. G.B.)

di Alberto Tonti

Primo tempo

Il concerto è finito da poco fra le migliaia di fiammelle tremolanti al vento della notte fredda, nonostante luglio. Grandi emozioni, brividi per tutti: finalmente è tornato quello di un tempo, quello che speravamo di ritrovare dopo la lunga sbandata durante la quale, come un qualsiasi suffragetto, non ha fatto altro che cantare le lodi al Signore, accanto a quattro sgarrambone di colore, manco fosse entrato a far parte di un coro invasato di una qualsiasi setta religiosa della Georgia o dell’Alabama. Ma amen tutto passato, stasera è stato grande, grandissimo e Milano per la prima volta lo ha accolto ed acclamato come merita.

Imbacuccato alla bene meglio, strisciando lentamente le suole mi avvicino intirizzito, ma soddisfatto, verso gli sfoghi delle uscite. Appena fuori dai cancelli di San Siro un oceano di auto mi costringe a slalom veloci alla volta della mia auto, posteggiata di traverso, proprio dietro alla bancarella puzzolente delle salsicce alla piastra. Una retromarcia furiosa, un paio di controsensi pirata, qualche colpo di clacson nervosetto e via, lontano dalla pazza folla, ottanta all’ora verso casa a preparare in fretta l’Evento, anche se non si tratta del Diluvio Universale, né tanto meno della consegna delle Tavole a Mosè (due fra i pochissimi accadimenti che possono a ragion veduta definirsi Eventi).

Se è OK, ti avverto per telefono” ha detto David Zard, prima di salutarmi nel backstage. Con i pochi prescelti che ho invitato a casa mia nell’attesa parliamo di tutto, mantenendo un contegno distratto, svogliato, quasi a nascondere la sottile eccitazione che aleggia nella stanza. Sul piatto del giradischi gira alla solita velocità un bel vinile di Ben E. King che canta Around The Corner, perché Stand By Me sa troppo di banale. La porta finestra che dà sul giardino è spalancata, il vicino di casa, anche se non fa caldo per niente, ha purtroppo riattivato il suo maledetto rumoroso condizionatore che scassa non poco i maroni. Il ghiaccio tintinna nei bicchieri lasciando scie oleose di bourbon, i portacenere in un’ora sono già pieni di cicche, la stanchezza e la strisciante delusione stanno prendendo tutti quando il telefono si mette a squillare: “Va bene, fra mezz’ora siamo lì…” “Giura!” dico. “Giuro!” risponde. Gli sguardi di tutti sono puntati su di me. “Vengono….viene…forse bisogna andare a comprare qualcosa, c’è poco da bere”.

Nel giro di venti minuti Elio Fiorucci, il grande, riesce a procurarsi una cassa di liquori, per lo più whisky, gin e Martini, una di coca-cola, una di aranciata, una di birra, più tre enormi pizze calde e profumate. Nessuno riesce a spiegarsi come abbia fatto, dato che è passata da un pezzo l’una di notte, ma il tempo per domandarglielo non c’è, tutto deve essere predisposto e in perfetto ordine per la visita.

Giusto perché non sto più nella pelle, mi metto alla finestra: lui non arriva scalzo, a dorso di asino, con un ramoscello d’olivo in mano, come qualcuno di noi ha fantasticato, ma seduto dentro una grossa Citroen nera. Il campanello vibra, scorgo attraverso la porta a vetri dell’ingresso la sua inconfondibile sagoma, la vista mi si annebbia, sbando di lato, giro la maniglia con la palma improvvisamente sudata e solo allora mi appare in tutto il suo splendore.

Alla classica frase di convenienza genere “nice to meet you” mi stringe debolmente la mano emanando un grugnito sordo, lo stesso fa con tutti gli altri che, nel frattempo, si sono avvicinati in estasi, sorridenti ed emozionati, per sincerarsi della sua reale presenza.

Non si toglie il cappello di paglia che gli incornicia i riccioli rossi-castani: indossa una camicia giavanese verde smeraldo, con palme gialle, aperta fino al penultimo bottone a mostrare un petto glabro, un pantalone in origine bianco e un paio di stivaletti crema di simil pelle, smangiati in punta, da cui sporgono calze da tennis slabbrate. La barba è del giorno prima o forse di più, gli occhi sono tristi e indagatori, l’incedere sospettoso.

Tanto per metterlo a proprio agio, conoscendo i suoi gusti (preparato sono preparato), sul grande tavolo, proprio sotto lo scaffale dei dischi, ho appoggiato in ordine sparso qualche LP degli Everly Brothers, quasi fossero lì per caso. La mossa si rivela quella giusta per rompere il ghiaccio, anche perché so perfettamente che una volta ebbe a dire “senza gli Everly non sarebbe esistito nessuno di noi”.

Lui si piazza seduto davanti al giradischi. Prende in mano il primo album, poi il secondo e il terzo, chiama a sé Mick Taylor, sì proprio lui l’ex chitarrista dei Rolling Stones assoldato per il tour, e comincia a parlottare. Poi fa segno, con l’unghia lunga listata a lutto, di procedere all’ascolto del Greatest Hits dei fratellini. Tramite il mio buon vecchio Thorens, obbedisco. Del resto non chiedo di meglio. Quando Bird Dog attacca, lui e Mick riprendono a mormorare robe sugli accordi, sugli arrangiamenti, sui riff di chitarra. Più volte mi fa capire di tornare indietro di qualche solco così che Taylor possa risentire un passaggio fondamentale mentre continua a mugugnare parole incomprensibili. Tornare indietro di qualche solco è in assoluto la cosa che so fare meglio nella vita, non ho fatto altro dai dodici anni in poi, con la puntina ci so fare. Lui sembra apprezzare. Tanto che ho la sensazione di cogliere persino un abbozzo di sorriso riconoscente, ma probabilmente vaneggio.

Nel frattempo, la maggior parte dei presenti assume un atteggiamento distratto, quasi che nulla di straordinario stia avvenendo in questa casa, a notte fonda, in una domenica di metà luglio, a Milano. Nessuno osa rivolgergli la parola o ha il coraggio di accennare una chiacchiera, una timida parvenza di battuta. Un continuo, febbrile movimento ci porta tutti fra la cucina e il soggiorno: un po’ per offrire da bere, un po’ perché pervasi dall’imbarazzo, un po’ perché proprio nessuno riesce a star fermo.

Lui non schioda le chiappe neppure per un istante, non rivolge verbo ad alcuno, su varie sollecitazioni di normale amministrazione tipo “vuoi un piatto di spaghetti o un pezzo di pizza?”, “vieni di là che c’è un juke-box con vecchi 45 giri!”, “vuoi uscire in giardino a prendere una boccata d’aria?”, reagisce solo con uno sguardo bicolore noia-disprezzo. Poi, finalmente, con accanto un fido galoppino, si muove lentamente verso la biblioteca, sbircia i testi sacri di rock and roll, si sofferma a lungo su qualche foto appoggiata alla costa dei libri, si immerge a decifrare i titoli col capo reclino e, d’un tratto, chiama a sé l’accompagnatore, gli bisbiglia qualcosa all’orecchio e l’ometto fa cenno di avvicinarmi.

Vuole sapere perché ci sono tutti questi libri sul Partito Comunista!” esclama, puntandomi addosso i suoi occhi acquosi e inquisitori.

Sono sulla storia del Partito Comunista Italiano, ci sono altri libri di storia qui, la storia mi interessa molto” affermo, recitando la parte di quello che, con orgoglio, difende la propria libertà intellettuale. Annuiscono entrambi brontolando qualcosa, ma certo la risposta non li ha soddisfatti per niente.

Cosa volete bere?” mi affretto a dire tanto per cambiar discorso. “What do you wanna drink” ripete l’ometto.

Brandy” biascica il maestro. Un dubbio atroce mi attraversa la mente per rivelarsi immediatamente realtà. “No brandy, sorry”, dico. “Vodka” sospira di rimando. “Neppure quella, sono veramente spiacente” replico. “Coffee” ruggisce. “Coffee, certamente si!” esclamo terrorizzato e, al contempo, sgravato da un peso insopportabile. Girando velocemente i tacchi, come appena fuori da un incubo mi affaccio in cucina per ordinare un espresso lungo in tazza grande. La richiesta cade come un fulmine a ciel sereno. “Da ieri la macchinetta è senza guarnizione” sentenzia la mia ragazza “verrà uno schifo! Ma chissenefrega tanto è americano, mica sa com’è fatto un buon caffè”.

Senza guarnizione, l’acqua bolle in un attimo e tocca a me tornare da lui, appoggiargli delicatamente una mano sulla spalla e domandargli con fare cameratesco: “Quanto zucchero, Bob?”. Alzando due dita come Churchill, per la prima e ultima volta mi dice: “Thank you”.

Solo in quell’istante mi rendo conto che non gli si può stare vicino, è come se non avesse fatto la doccia da quando ha deciso di passare dall’acustico all’elettrico e sono passati un bel po’ di anni. Oltre a tutto non sorride mai, non si capisce se si rompe le palle, se si sta rilassando, se odia o, al massimo, sopporta la situazione, insomma un mezzo disastro.

Ciononostante mi rendo conto che sto parlando col signor Zimmerman in persona, che gli ho toccato una spalla, che ho quasi chiacchierato con lui di politica, che mi ha risposto a monosillabi ma mi ha risposto, che sono soddisfatto del mio scarso inglese e, soprattutto, che sia stato ad un palmo da me per almeno un’ora e mezza.

L’odore del mito resta impregnato nell’imbottitura per almeno un paio di giorni poi, dato che non va via, decido di porre rimedio interpellando il tappezziere al quale, comunque, chiedo di aggiungere una piccola targa. Adesso sulla spalliera della poltroncina che ha accolto le sue natiche c’è scritto: “Qui si è seduto Bob Dylan”.

Secondo tempo

Passano alcuni anni e Bob torna a Milano, stavolta all’Arena. Il solito Zard mi propone un altro dopo concerto. Memore di quanto mi è costato il tappezziere organizzo, in fretta e furia, una bella cena in una ricca casa di un ricco editore.

Verso la solita una di notte, arriva. E’ vestito come l’altra volta e non si è mai neppure lavato dall’altra volta.

Al suo passaggio gli invitati si aprono come le acque del Mar Rosso, tutti gli sorridono quasi accennando un inchino come se fosse la Madonna di Lourdes o la Regina Elisabetta. Lui si piazza direttamente a tavola, a capo tavola. Fa un cenno al solito galoppino per far capire che ha fame, quindi che si dia inizio alle portate.

Stavolta si svolge tutto in maniera più veloce e molto più irritante: non apre bocca se non per infilarci porzioni esagerate di cibo, grugnisce saltuariamente qualcosa, qualcuno interpreta quei suoni come continui apprezzamenti ma io, conoscendo my chicken, ne dubito.

Quelle poche volte che qualche intrepido gli rivolge la parola, continuando a masticare, lo fissa come se gli avesse chiesto un prestito.

Arrivati alla frutta, purtroppo, mi scappa di chiedergli se desidera qualcos’altro: mi risponde secco “yes, a taxi!”.

Per quanto mi riguarda è fin troppo, mi trattengo dal mandarlo a fare in culo, anche perché come potrebbe mai un povero fan come me mandare a quel paese un genio come lui? Eppure sfioro l’incidente diplomatico. La padrona di casa se ne accorge e con estrema gentilezza, prima che Mr. Tambourine Man si allontani definitivamente dalla nostra vista e dal nostro olfatto oltraggiato, gli fa persino omaggio di una splendida stampa antica, che viene immediatamente agguantata senza cenno di ringraziamento.

Solo qualche settimana dopo mi capita di leggere su un mensile musicale una sua intervista: “Non voglio mai incontrare chi mi adora, loro sanno tutto di me e io non so niente di loro. Loro sono cresciuti con me. Ma io sono un estraneo.”

Bastava saperlo prima.

Bastava saperlo prima è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.


GERMAINE TILLION “Le Verfügbar aux Enfers” Ravensbrück [inverno 1944-1945]

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[ per i sottotitoli click on sub ]
da Germaine Tillion à Ravensbrück
di David Unger [2008]

di Orsola Puecher

Germaine Tillion in Algeria

Germaine Tillion in Algeria

Germaine Tillion [ Allègre, 30 maggio 1907 – Saint-Mandé, 19 aprile 2008 ] lavora come etnologa nel Sud dall’Algeria fra il 1934 e il 1940. Tornata in Francia si impegna subito fra le file della Resistenza. Arrestata nel 1942, deportata a Ravensbrück nel ’43, ne uscirà dopo la liberazione del campo nell’Aprile del ’45. Proseguirà poi i suoi studi e le spedizioni in Africa del Nord e in Medio Oriente come Direttrice dell’École pratique des hautes études, impegnandosi nella conservazionde della memoria dei crimini del Nazifascismo, contro la guerra d’Algeria e per i diritti delle donne. Nella parabola della sua lunga vita attraversa i drammi del ‘900 da lucida e razionale testimone della storia del secolo, perché “fare uso della ragione umana è qualcosa che è un bisogno, ma un bisogno è una forza“. Alla razionalità intellettuale unisce una visione ironica delle cose, uno humor imprescindibile, che le scintilla acuto nello sguardo e nel sorriso: “anche nelle situazioni più tragiche, si può ridere fino all’ultimo minuto. E’ un elemento rivivificante“. germaine tillion Come nelle due curiose fotografie che la ritraggono bambina, ma abbigliata da accademica in erba, in toga e tocco con un gran librone davanti, Germaine sa inforcare gli occhiali analitici e le lenti della ragione, ma senza perdere mai quel sorriso, ancora uguale dopo quasi 100 anni, che le solleva gli angoli della bocca e le fa brillare gli occhi all’idea che il venerdì 13, data del suo arresto, sarebbe per antonomasia “un giorno che porta fortuna” e che “oggi dio è buono con i coccodrilli“, come nella storiella comica che le viene in mente in quel momento drammatico, in cui due africani sono incerti se attraversare il fiume Niger infestato di coccodrilli, nel dubbio se, dato che “Dio è buono”, buono lo possa essere con loro, permettendogli di arrivare sani e salvi sull’altra riva, o invece non lo possa magari essere con le bestiacce, lasciando che li divorino, mentre nuotano.
1940 Germaine con la madre Émilie Cussac

1940 Germaine con la madre Émilie Cussac

A Ravensbrück il 30 gennaio 1944 sarà internata anche la madre di Germaine Émilie Cussac [1876-1945], scrittrice, storica dell’arte, redattrice con il marito Lucien Tillion [1867-1925], giudice di pace, di alcune Guides bleus per l’editore Hachette. Verrà uccisa con il gas il 2 marzo 1945 perché anziana e inadatta al lavoro. Il campo di Ravensbrück, costruito nel 1938 per ordine del Reichsführer delle SS Heinrich Himmler a 90 km da Berlino, vicino al lago Fürstenberg/Havel, sulle rive malsane di una palude, era un campo di concentramento solo femminile, con prevalenza di detenute politiche, i triangoli rossi; non ci furono camere a gas fino al gennaio del 1945, c’era solo un forno crematorio, un secondo viene costruito alla fine del ’44. Le internate lavoravano per la Siemens, per una fabbrica tessile, c’era una sartoria, un laboratorio di calzoleria, di pellicceria. Molte venivano mandate in altri campi, laddove occorreva mano d’opera. Tante donne arrivavano con i loro bambini, eliminati subito o morti in breve tempo per inedia, o incinte, costrette ad abortire, o ad assistere all’annegamento dei neonati, in un secchio, subito dopo il parto. Nella Revier, l’infermeria, si curavano solo le più giovani e robuste per rimandarle al lavoro. Su alcune soprannominate Kaninchen, le conigliette [da laboratorio] venivano praticati terribili e spesso mortali esperimenti “scientifici”, inoculando in ferite procurate chirurgicamente sulle gambe i germi della cancrena gasssosa, con il pretesto di trovare una cura per i soldati feriti al fronte.
 

Quel mondo di orrore ci appariva anche come un mondo di incoerenza, più terrificante delle visioni di Dante e più assurdo del gioco dell’oca.

Germaine Tillion
Ravensbrück
[Édition du Seuil, 1972, 1988]
Fazi Editore [2012]
[pag. 274]

 
Ma fin dai primi momenti, superata la sensazione di morte e il terrore per questa specie di altro mondo incomprensibile, Germaine Tillion indaga sul funzionamento del campo, riuscendo a individuare il meccanismo economico in atto, “perché il fatto di comprendere un sistema, anche un sistema che vi schiaccia” è una forma di resistenza morale e spirituale.
 

Comprendere un meccanismo che vi schiaccia, dimostrarne razionalmente gli ingranaggi, rappresentarsi nel dettaglio una situazione apparentemente disperata, aiuta moltissimo a trovare sangue freddo, serenità e forza d’animo. Niente è più spaventoso dell’assurdo. Con questa caccia ai fantasmi sapevo di aiutare moralmente le migliori di noi.

[ibidem pag. 193]

 
Le “esecuzioni economiche (gente sfinita a morte dal lavoro per la Germania“, si affiancano e si sovrappongono alle “esecuzioni politiche (nemici della Germania)“.
 

Un certo proprietario di terreni incolti di nome Himmler rendeva a un tal Himmler, capo della polizia, il servizio di liberarlo definitivamente dai suoi nemici. In cambio, l’Himmler capo della polizia forniva, a tempo indefinito, all’Himmler proprietario dei bei dividendi sotto forma di bestiame umano, per sostituire quello che lui consumava a ritmo accelerato. Che meraviglioso utilizzo di terreni incolti e paludosi per un capitalista: dove non cresce niente basta installare un campo di concentramento ed ecco una vera e propria miniera d’oro!

[ibidem pag.191]

 
E l’analisi del meccanismo diventa anche strumento di verità e di memoria per il futuro.
 

Poi c’era la nostra indignazione, l’ardente desiderio che essa ci sopravvivesse, che una tale mole di crimini non diventasse un “crimine perfetto”. Era già piuttosto chiaro che ben poche di noi sarebbero sopravvissute. Questo pensiero della verità da salvare mi ha ossessionata fin dal giorno del mio arrivo a Ravensbrück.

[ibidem pag.193]

 
E Germaine sopravvive.
 

Se sono sopravvissuta lo devo soprattutto al caso, poi alla rabbia, alla volontà di rivelare quei crimini e infine, all’impegno delle mie amiche, perché avevo perso la voglia di vivere.

[ibidem pag.25]

 
All’inizio dell’Aprile del ’45 300 francesi vengono evacuate dalla Croce Rossa internazionale, ma le prigioniere NN, Nacht und Nebel, come Germaine ne sono escluse. Tuttavia un po’ più avanti, in seguito a dei negoziati fra il diplomatico svedese Folke Bernadotte e Heinrich Himmler, nel suo delirante progetto di sopravvivere a Hitler trattando la resa, fu permesso a un altro gruppo di detenute francesi, di cui Germaine questa volta fece parte, di essere evacuate dalla Croce Rossa svedese.
 

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Il 24 Aprile, su dei pullman bianchi furono condotte a Padborg in Danimarca e poi in ospedale a Göteborg, fra ali di folla festante.
Nel dopo guerra Germaine Tillion inizia a scrivere le sue testimonianze. Viene scelta dalle associazioni delle deportate francesi per assistere, come unica osservatrice consentita dal tribunale inglese, al primo processo sul campo di Ravensbrück, che ha luogo ad Amburgo nel Dicembre 1946.
 
1-processo  2-processo
3-processo  4-processo

 

Durante le sospensioni delle sedute, la sala si svuotava, e io restavo a guardarli in silenzio, sopraffatta dal dolore di fronte a quegli esseri che avevano fatto tanto male e che ora, allineati a qualche metro da me, dovevano rispondere di quelle migliaia di assassinii, compiuti a sangue freddo su delle donne indifese.
[…]
Si può chiamare odio quel dolore cupo, troppo accorto per non includere una straziante compassione?
[…]
Loro erano lì, ben vestiti, curati, puliti: dignitosi. Un dentista, dei medici, un ex tipografo, delle infermirere, qualche modesto impiegato. Nessun precedente penale, studi normali, infanzia normale…
Gente comune.

[ibidem pag.124-125]

 
Nella fretta della partenza dal campo Germaine dimentica un piccolo libretto un po’ squinternato, non rilegato, vergato con una bella scrittura regolare, metodica e ordinata.
 
le verfugbar aux enfers

[ disegno di France Audoul ]

 
Un’amica lo trova e riesce a riportarglielo. Lei lo chiude in un cassetto. E là resterà dimenticato fino alla terza edizione di Ravensbrück, nel 1988, in cui sono riportati alcuni stralci. E’ il manoscritto di Le Verfügbar aux Enfers, la piccola operette revue scritta da Germaine nell’Inverno 1944-1945, nascosta in una cassa da imballaggio di cartone dello scalo merci del campo, con la carta e le penne rubate da un’amica che lavorava negli uffici amministrativi. Tre atti, il terzo rimasto incompiuto, che descrivono con graffiante ironia, spesso vero e proprio humor nero e con un’epica vagamente brechtiana, la vita delle Verfügbar, le “disponibili”, l’ultimo gradino delle lavoratrici del campo, che, nascondendosi dopo l’appello, non venivano inviate ai vari laboratori, ma restavano disponibili per i lavori più umili e pesanti di scavo, sterro, spianamento con un rullo delle strade, pulizia delle latrine. Faticavano al freddo per dodici ore, con l’orgoglio di non prestare la loro opera al Reich, alle sue merci e ai suoi commerci. Una durissima forma di segreta protesta e di sabotaggio. Il soggetto dell’operetta è un ipotetico Naturalista che descrive in una specie di conferenza scientifica l’animale Verfügbar, la sua fisiologia, la sua vita, i suoi usi e costumi, il tutto alternato a canzoni sulla musica di arie d’opera e operetta, motivi famosi negli anni ’30, da Strauss a Bizet, da J’ai perdu mon Euridice di Gluck, alla Chanson triste di Duparc, le Roy d’Is di Lalo, Ciboulette di Hahn, ma con altre parole, frutto spesso di un’ opera poetica collettiva. Con il vantaggio di poter esser cantate durante le marce, o il lavoro, senza che SS e sorveglianti ne capissero i testi in francese, pesantemente accusatori e antinazisti. La piccola opera non verrà mai rappresentata, ma passa di mano in mano clandestinamente. Si cantano le sue canzoni. Viene letta in segreto alla sera nelle baracche, con la compiacenza di qualche capo blocco. La sola forza delle parole riesce a evocare immagini e sogni in un luogo che voleva togliere ogni possibilità di sognare immagini e parole. Il piccolo libro di Germaine porta avanti la sua missione dissacratoria e vivificante, per contrastare la tendenza ad assopire il proprio spirito fino ad accelerare la morte del corpo. “Ridevamo… ridevamo.“, ricorda Germaine. Ridevano di loro stesse, della magrezza, della fame, della nostalgia della vita di prima, della paura della morte e delle botte, della ottusa cattiveria dei loro carnefici. Ridevano catarticamente per uccidere di risate la paura e la morte. Un po’ come fu con ⇨ Brundibár di Hans Krása nel campo di Terezin.

In questi ultimi anni Le Verfügbar aux Enfers è stata rappresentata in Francia in molte versioni, ⇨ qui una integrale a Nantes, ma ho scelto di proporre alcuni estratti di una messa in scena della regista Danielle Stéfan, che mi è sembrata molto fedele allo spirito del testo, musicalmente semplice con pochi strumenti, non orchestrale. Una grande lavagna nera sullo sfondo raccoglie frammenti di testo e di voci, di segni. Il Naturalsita è interpretato da una delle deportate, come avrebbe potuto verosimilmente essere, il gruppo delle donne raggiunge una coralità molto intensa. I momenti di umorismo e di commozione compongono un mosaico indivisibile. E’difficile rappresentare cinematograficamente o teatralmente un campo di concentramento, il rischio della retorica, di un certo fastidioso bozzettismo stereotipato, dell’estetica del dolore e di una visione edulcorata sono sempre in agguato.

Ho tradotto le scene dal testo Germaine Tillion Une operette a Ravensbrück Édition de la Martiniere [2005], che, con alcune piccole varianti, sono riscontrabili nello spettacolo teatrale.

Non ci sono troppe parole in più da dire di fronte a queste scene, di fronte a “Mi hanndo detto che bisogna resistere“, cantata del Coro delle giovani e delle vecchie Verfügbar, ascoltando la canzone siparietto da rivista delle Nacht und Nebel, o il commovente canto della Speranza che brilla in segreto nel cuore di Marguerite, o la lunga rabelaisiana lista di pietanze solo immaginate della gita gastronomica, o l’assalto del dolore dei ricordi della vita di prima con la certezza autoillusoria di tornare presto a casa. L’universo concentrazionario acquista nuove sfacettature della sua complessità istituzionale, ma soprattutto di quella umana, perché non si allontani nella tenebra della Storia e del Tempo che sfugge via la memoria della sofferenza di ogni singola voce e del suo sacrificio. Queste donne sono ancora qui con noi. La forza di questo testo così raro e inconsueto riprende vita in ogni singola parola e nota, lasciando al sorriso, certo molto amaro, il compito di asciugare le lacrime.
 

Quando l’ultimo campo di concentramento tedesco ha aperto le sue porte, quell'”altro mondo” ha cessato di ergersi fisicamente nello spazio reale per porsi tra i fantasmi della “dimensione storica”, ma li raggiungeva senza bagagli, nudo come i suoi morti.

[ibidem pag.274-275]

 


 
Le Verfügbar aux enfers 1
Germaine Tillion
UNE OPERÉTTE A RAVENSBRÜCK
Edition de la Martinière [2005]

 
Atto I Primavera [pag. 36-38]
Il naturalista Vi presento Nénette, giovane Verfügbar, dell’età di quindici giorni… Che cosa facevi nella tua vita precedente?
Nénette Ero presidente di una filiale della Società Protettrice degli Animali, per la Liberazione dei Canarini…
Il naturalista Ed è per questo che sei qui?
Nénette Ho anche una marito che è stato generale di divisione…
Il naturalista Questa, è una ragione…
Nénette Questa è la ragione… la sola ragione. [Pausa] Infine… resti del tutto fra di noi. [Canta]

[opera collettiva]
Avevo una grande casa, 2
dove nascondevo senza precauzione,
ebrei dai nasi troppo lunghi,
e gente di tutte le condizioni…
C’erano anche delle armi
cadute per caso da un aereo…
Non sapevo che cose ne sarebbe derivato…
E’ forse per questo che sono qui…

[Va a prendere per mano Lise. 25 anni, alta, bionda]
Facevi una vita da vagabonda
tre volte al giorno cambiando nome,
annotando senza permesso
falsi documenti e biglietti
ornatii di belle fototessere
per gente senza fissa dimora…
Ma tutto andava di male in peggio…
E’ forse per questo che tu sei qui…

[Entrambe si voltano verso Titine, 40 anni,
bruna, aveva un piccolo caffé vicino a Perpignon
]
Lei portava al di là dei monti
dei giovani ragazzi rudi e buoni
che sfuggivano agli ordini teutonici
per non costruire armi.
Dividevano anche la loro razione
di pane bigio e salsiccia…
Lei non diceva nulla a suo marito…
E’ per questo forse che è qui.

[Tutte e tre si girano verso il coro.]
Voi facevate per dei birboni
una quantità di commissioni.
Passavate i vostri migliori filoni
a degli eroi senza pretese,
che facevano saltare dei camion
dei piloni e delle stazioni…
Un giorno il colpo non è partito…
E’ forse per questo che voi siete qui.

[Il resto del coro viene in avanti e canta.]
Andavamo da Nantes a Mentone
per un messaggio di Londra…
Fornivamo di grossi cannoni
i partigiani in rivoluzione,
di plastico e grafite
che facevano saltare mucchi di case
Noi ci dicevamo “occhio non vede, cuore non duole”…
E’ forse per questo che siamo qui.

 


 
Atto I Primavera [pag. 43-46]
 
Il naturalista Nel secondo periodo della sua vita, detto multicellulare (vale a dire, intendiamoci, molti corpuscoli per una cellula e non molte cellule per un corpuscolo), i segnali di intelligenza aumentano: gioca a briscola, comunica con l’esterno e migliora sensibilmente la sua alimentazione, fino ad allora costituita principalmente da torsoli di cavolo e semi di zucca…
Arriviamo al terzo e ultimo periodo, Romanvillese e Compiegnuanese. Nel corso di questo periodo (per altro facoltativo) l’animale dà dei segni di gaiezza, di socialità, dimostra un certo gusto per i colori chiari, i pigiama fantasia e anche talvolta ingrassa (fatto che merita di essere menzionato).
Questo periodo è interrotto brutalmente dall’agitazione prenatale, che comincia con un appello generale e numerosi insulti…

Coro delle giovani Verfügbar. [Cantano.] 3
Mi hanno detto “bisogna resistere”…
Ho detto “sì” quasi senza pensare…
E’ così che su un treno della linea del Nord,
Mi hanno caricata, guardata a vista, e senza fatica,
E quando il treno si è fermato,
non mi hanno chiesto il biglietto…
Ma malgrado il piacere delle novità
avrei proprio voluto scappare…

 
Coro delle vecchie.
Ascolta! Giovane Verfügbar,
l’aria che i prigionieri
cantano sulla strada…
E’ su quest’aria, vedi,
che tu mi sei apparsa…
La notte cade già
soffocando i tuoi passi sul suolo ghiacciato.
Cani e guardiani abbaiano.

 
Coro delle giovani.
Mi hanno detto… non mi hanno detto niente.
E non ho potuto nemmeno dire sì.
Attonita e pesta, uscendo dal furgone,
ho sentito per prima cosa degli insulti..
Ho visto poi i nostri guardiani,
avevano dei frustini in mano…
Malgrado la differenza dei vocabolari,
ho capito subito cosa ci vorrebbero fare!

 
Coro delle vecchie.
In una grande sala ghiacciata,
ti hanno spogliata,
poi ti hanno dato un numero…
Poi ti hanno fatto star ferma
per ben acclimatarti,
eppure non hai pianto…

 
Coro delle giovani.
Per prima cosa hanno preso i gioielli,
la valigia e la borsa di cuoio rosso,
le piccole provviste, il pezzetto di salsiccia,
la camicia e i pantaloni…
Credevo che mi avessero preso tutto,
e speravo che fosse finita…
come un bambino neonato mi hanno spogliato
ed è allora che mi hanno rasato!

 
Coro delle vecchie.
Hanno preso i tuoi capelli
per legare mozzi,
lavorerai,
non mangerai…
Quando non ce la farai più,
ti finiranno,
ti bruceranno.
E il tuo grasso ancora servirà…

 


 
Atto I Primavera [pag. 69-70]
 
Il naturalista Dal punto di vista giuridico e amministrativo, la situazione della Verfügbar è tutto tranne che chiara.
Un triangolo nero [con accento marcato] Lavora, los, schnell, aufzehrin…
Il coro [con disinvoltura]… me ne frego.
Triangolo Nero Ti mandiamo ai trasporti….
Il coro [con aria decisa] Io non parto con i trasporti.
Triangolo nero [impressionata] Perché?
Il coro Perché sono del blocco 32…
Triangolo Nero Perché sei del blocco 32?
Il coro Perché sono N N:
Triangolo nero Cosa vuol dire N N?
Il coro Vuol dire che non parto con i trasporti.
Triangolo nero Ma perché sei N N?
Il coro Perché sono del blocco 32. [grande silenzio meditativo]
Triangolo nero N N questo vuol dire sicuramente qualcosa…
Il coro Certo… Vuol dire Nacht und Nebel, notte e nebbia…
Il coro [canta]

Non sappiamo cosa pensare 4
Non sappiamo cosa dire
Il segreto della nostra esistenza
La Gestapo non l’ha svelato…

 


 
Atto I Primavera [pag. 70-72]
 
Il naturalista La Verfügbar da prova di una grande ingegnosità per la trasformazione e l’utilizzazione di tutto ciò che le capita sotto mano. La famosa canzone ben conosciuta dai letterati:

Ho un cane che urla tutto il tempo 5
e una donna che fa altrettanto.
Amo la strada e il Cordon Bleu

E’ stata certamente scritta per un lontano antenato della Verfügbar, che riesce a procurarsi al Bekleidung, il piatto piano e l’attizzatoio necessari per l’igiene…

Per lavarmi le zampe
Non ho che un piatto piano.
Mi pettino con un attizzatoio.
Mi lavo la faccia quando piove.

Bene…. cantiamo…

Che m’importa! Io sono elegante!
Ho un bastone; oui, Madame !
Che m’importa! Io sono elegante!
Ho un bastone e dei guanti

Oltre allo spirito organizzativo di cui arriveremo a parlare la Verfügbar non ha che tre risorse fisse…
Nénette …la sveltezza, la furbizia
Il Naturalista… e l’appello delle carte rosa…
Il coro Non dimenticate qualcosa signor naturalista…
Il naturalista [con aria di superiorità.] Non è mia abitudine… di che cosa si tratta?
Il coro Indovinate, signor naturalista…
Il naturalista Vediamo un po’… è grosso, è pesante… aiutatemi…
Il coro E’ molto grosso, molto grande e non occupa alcun posto… ed è leggero, leggero, leggero come una Verfügbar a cui non resta che un “giorno-sindaco”…

Marguerite [Si alza e canta.]
Nel mio cuore c’è una stella 6
che mi inonda con i suoi raggi
e brilla nei miei occhi pallidi,
e risplende sotto i miei stracci…
I grandi muri allora spariscono,
il mio paese mi appare all’improvviso
sotto il suo bel cielo pieno di tenerezza…
I suoi baci saranno per l’indomani,
e’ la Speranza che la mia anima nasconde,
sfidando i mostri infernali,
sorride quando la loro voce è infuriata…
sotto il frustino,
e sotto la sferza si leva più in alto…
 
Un canto molto dolce, pieno di allegria,
sale dal mio corpo smagrito.
Dolce Speranza
calma il mio sconforto
sempre così pesante sotto questo cielo grigio!

 


 
Atto II Estate [pag. 88-93]
 
Titine Ho fame!
Nénette Anch’io…
Havas Bene! Andiamo a pranzo? Tocca a te Titine…
Titine Eravamo ad Avignone…
Rosine Partivamo in auto al mattino, non troppo tardi…
Marmotte Nemmeno troppo presto… le levatacce tremando e le corsette notturne nella notte livida sono finite, finite… Non prenderò mai più un treno di mattina e se non ce ne sarà che uno al giorno, resterò a casa…
Rosine Partiamo in auto, al mattino non troppo presto…
Marmotte Va bene!
Rosine Verso mezzogiorno arriviamo a Gordes per pranzo…
Marmotte No, verso le undici…
Rosine Perché le undici?
Marmotte Ho fame e mi annoia aspettare fino a mezzogiorno per mangiare…Visto che sono libera, avrò ben il diritto di pranzare alle undici, mi sembra?
Rosine [Molto conciliante] Ma tu non avrai fame prima. Ti ricordi che hai fatto colazione da Dédé di Avignone che ti ha offerto una enorme scodella di cioccolata, con burro, pane abbrustolito, biscotti alla marmellata e un plum cake…
Marmotte [vacillando] Credi?
Rosine [con fermezza] Ne sono sicura!
Marmotte Allora alle 11 e mezza…
Rosine Ve bene. La specialità di Gordes è la selvaggina. Ordineremo pernice arrostita su canapé di pane al burro, paté di lepre con insalata, e un sufflé alla marmellata…
Marmotte Come? Niente entré, niente antipasto? E il pesce? E la verdura?
Rosine Questa non è la specialità di Gordes… se vuoi puoi prendere degli champignon alla greca come entré…
Havas Questo sarebbe piuttosto un antipasto…
Marmotte Per una volta passi; con una bella insalata di pomodori e cetrioli, per finire un formaggino di capra… E come vino?
Il coro [in coro] Châteauneuf-du-Pape…
Marmotte Ma l’abbiamo già bevuto ieri…
Rosine Appunto, ci abbiamo preso gusto.
Marmotte E dopo?
Rosine [cantando.]

1. Abbiamo fatto buon viaggio, 7
Disdegnando auto e treni,
Un tubo come unico bagaglio,
sempre verso ovest, viaggiamo…

Abbiamo degustato
del burro e del paté,
della panna di Normandia,
e del formaggio a Brie…
A Riec assaporato
Molluschi e ostriche belon
Benedicendo Mélanie
e la sua tavola ben imbandita…

2) Abbiamo fatto un bel viaggio,
fermandoci a ogni piè sospinto,
e gustando in ogni villaggio
del buon vino e dei buoni pasti…

Mangiammo con gioia
il fois gras di Strasburgo
e quello d’Aquitania,
poi la quiche lorraine…
sulla costa atlantica,
abbiamo cenato con l’astice…
Il Riesling rende poetici
al Trois-Tetes, a Colmar…

3. Abbiamo fatto un bel viaggio
in tutti i graziosi angoli della Francia…
IL sorriso su tutti i visi
facendo gioiosamente bisboccia…

Abbiamo degustato
Tutte le specialità:
A Vire il salame,
a Nizza la ratatouille
a Aix i calisson
A Lione il salsiccione
Madleinette a Commercy,
Bergamotti a Nancy…

4. Abbiamo fatto un bel viaggio
folleggiando nei dintorni,
riparandoci all’ombra
sognando dall’alba al tramonto…

Con del Romanée
abbiamo pranzato
con lesso alla bourguignonne
prosciutto di Bayonne
gratin dauphinois
e polli di Bresse,
oche di Rouen,
prugne di Agen.

5. Abbiamo fatto un bel viaggio
sedute al bordo dell’acqua
ascoltando sotto il verde fogliame
il vento frusciare fra le rose.

Gustando presso l’Admiral
il suo pomodoro provenzale,
A Bar le marmellate,
All’Aisne una frittura,
la trota in riva al Gave
e del miele a Uriage,
champagne a Èpernay
vino rosso a Bordelais

6. Abbiamo fatto un bel viaggio
visitando città e musei…
e lasciando l’auto in garage,
per le strade abbiamo bighellonato.

Abbiano assaporato
gallette imburrate
e sidro schiumante
molto famoso ad Haras …
abbiamo paragonato
senza poterci pronunciare
l’acqua vite di Cognac
e quella d’Armagnac…

 


 
Atto II Estate [pag. 102-105]

 
Nénette Rosine cantaci qualcosa…
Rosine Non ne ho cuore…
[Silenzio.]
Lulu de Belleville Ho sognato di mamma stanotte…
Bébé Ero nel giardino di mio nonno. Raccoglievo delle prugne…. Quando mi sono svegliata e mi sono vista qui, non ho potuto impedirmi di piangere…
Havas Ho visto bene che avevi una faccia strana stamattina…
Marmotte E’ sempre al risveglio che è più dura…
Havas Si è tutte rammollite dalla notte, si è ritrovata la propria anima di prima e si vedono con i nostri veri occhi tutti gli orrori del campo… e poi in fretta si ritrova la propria corazza…
Lulu de Colmar Bisogna sempre tenerla sotto mano…
Lulu de Belleville Io no mi abituerò mai.
Havas Non bisogna abituarsi. Abituarsi è accettare. Noi non accettiamo, noi subiamo…
Lulu de Belleville Non avrei mai creduto di rimpiangere la prigione.
Marmotte E’strano: per le cose veramente terribili non si piange.
Lulu de Belleville Quando mi hanno arrestata, non ho versato una lacrima e quando mi hanno interrogata nemmeno…
Nénette Ti hanno picchiata?
Lulu de Belleville Eccome! Botte, non il bagno… Ma ho dovuto lo stesso passare tre mesi in infermeria, dopo. Hanno arrestato Papà, ma non mamma. Era nel ’41. Nel ’43 l’avranno arrestata, e forse anche il mio fratellino, che ha 6 anni…
Nénette Quando mi hanno detto che mio figlio era stato fucilato, non sono riuscita a piangere. E’ 6 mesi dopo quando ho riconosciuto la sua scrittura sull’etichetta del mio pacco, a Fresnes quando ho capito che era vivo e libero… non ho potuto più fermarmi.
Lulu de Belleville Un giorno alla Siemens, ho pronunciato il nome del più piccolo dei miei fratelli, così, senza pensarci…. Mi sono messa a piangere, non riuscivo più a fermarmi…
Titine Dite, signora Nénette, saremo a casa per Natale?
Nénette Ma naturalmente!
Hava Di quale anno?
Titine Non si deve scherzare su questo.
Havas Nel ’42, già, eravamo così sicure a Fresnes…
Marmotte Com’è lunga!
Titine Ma cosa fanno gli Americani! Ma cos’è che fanno? Che mi venga un colpo… metterci tutto questo tempo…
Lulu de Belleville Se mai avessi un innamorato a New York, sta sicura che non gli darei un appuntamento davanti a una stazione del metrò… Ne ho abbastanza di stare in piedi!
Nénette In una sala da tè ben riscaldata, con una bella poltrona, del porto e un mucchio di piccoli pasticcini…
Lulu de Belleville Preferisco quelli grossi!
Nénette Dovrai spiegarlo al tuo americano…
Havas La conversazione devia…
Marmotte E’ sempre così…
Titine E’ troppo dura; siamo stanche dopo tutto…
Bébé Voglio la mamma…
Marmotte Avrai la tua mamma… Ancora un po’ di pazienza…
Bébé Ma quando? Prima di Natale?
Havas Certo! Che domanda! Torneremo a casa l’11 novembre…
Titine Se me lo dici tu, ci credo.


 
*Le immagini di Germaine Tillion sono state prese dal sito ⇨ www.germaine-tillion.org, la pagina del manoscritto da ⇨ http://bpsgm.fr/temoignage-jacqueline-hourcabie/, i footage dal documentario ⇨ Ravensbrück Concentration Camp.
 

NOTE

 

  1. Une opérette à Ravensbrück, le verfügbar aux enfers
    Marseille [France]: le Gyptis – 08-02-2011
    regia di Danielle Stéfan
    arrangiamento musicale Alain Aubis
    scene di Christian Geschvindermann
    costumi di Virginie Breger
    luci di Nanouk Marty
    coproduzione Femmes et Résistance, Théâtre Gyptis à Marseille, Théâtre Antoine Vitez d’Aix-en-Provence… [et al.] ; con le cantanti Amandine Buixeda, Alice Mora, Murielle Tomao… [et al.]
    con Magali Braconnot [violino] e Aurélie Lombard [fisarmonica]
  2. cantata sulla scala diatonica e poi sull’aria della Carmen di Bizet ⇨ L’amour est un oiseau rebelle
  3. sull’aria della canzone ⇨ Sans y penser
  4. sull’aria ⇨ Je ne suis pas ce que l’on pense, je ne suis pas ce que l’on dit dall’operetta Trois Valsee di Oscar Strauss
  5. sull’aria della canzone ⇨ Un canne e des gants
  6. sull’aria di ⇨ Dans ton coeur dort un claire de lune di Duparc
  7. sull’aria ⇨ Nous avons fait un beau voyage da Ciboulette di Reynaldo Hahn

GERMAINE TILLION “Le Verfügbar aux Enfers” Ravensbrück [inverno 1944-1945] è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Due calci al pallone

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palloni_calcio(il più breve, e a modo suo malinconico, fra gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi raccontati fin’ora. G.B.)

di Alberto Tonti

Quando entro da Mauro il Bolognese sono già tutti a tavola da una buona mezz’ora. Le proteste per il ritardo si sprecano, mi giustifico raccontando che la riunione a Torino è durata più del previsto, che sull’autostrada c’era traffico, che ci ho messo venti minuti a trovare parcheggio, ma nessuno ci crede. Occupo la sedia vuota e ordino tortellini al ragù, una coca cola e, in attesa del primo, un po’ di mortadella a tocchetti.

Laura mi presenta un paio di sue amiche senza ricordarsi che una già la conosco: molto affascinante ma anche molto sprucida ( se volessi usare un termine del lessico personale) scostante per farmi comprendere meglio. Purtroppo il posto libero che ho occupato è quello accanto a lei e la cosa mi mette di cattivo umore.

Beh, almeno racconta cosa ci facevi a Torino.”

E’ lei che, sorridendo amabilmente, mi rivolge per prima la parola. Mi meraviglio per due motivi: il fatto che abbia aperto bocca e che, rispetto al nostro unico incontro, il suo atteggiamento sia esattamente l’opposto.

Quando non mastico, fra un boccone di pane e uno di mortadella, spiego in sintesi cosa ci faccio a Torino e tento di cambiar discorso, ma lei incalza e, sempre con un delizioso sorriso, mi invita ad approfondire perché dice: “mi interessa.”

Tiro un lungo sgarbato sospiro e racconto tutto nei minimi particolari e, alla fine, mentre loro sono già alla frutta, mi avvento sui tortellini. I discorsi a tavola si intrecciano e scopro lentamente che la signorina non è affatto indisponente e, soprattutto, mi guarda come raramente qualcuna mi ha guardato.

Che bello l’orologio che hai al polso, cos’è? Posso vederlo?” mi dice sfiorandomi la mano.

E’ un Citizen, tutta plastica, ma ha un design nuovo ed è subacqueo” le dico mentre slaccio il cinturino per porgerglielo.

Molto carino” dice mentre lo immerge nel suo bicchier d’acqua. “Vediamo se è veramente waterproof!”

La reazione spontanea sarebbe quella di dirle “che cazzo fai!” ma, siccome mi fido ciecamente della tecnologia giapponese, abbozzo un mezzo sorriso e, quando lo tira fuori dall’acqua, lo asciuga per bene col tovagliolo e me lo rimette al polso, ringraziandola le do un bacetto sulla guancia. Diventa rossa in viso e solo allora capisco che non è sprucida, è solo molto timida e, va detto, mi piace un sacco.

Per la verità da qualche settimana mi sono invaghito di una stupenda giornalista, che è ancora indecisa se mettersi con un famoso scrittore bruttino o con uno sconosciuto architetto molto meno brutto, e non mi sembra il caso di mettermi a fare lo scemo proprio adesso con un’altra, ma la serata dopo cena scivola via in maniera travolgente e si conclude a casa sua dove mi ritrovo la mattina seguente senza neppure lo spazzolino da denti.

Mentre la stupenda giornalista opta decisamente per lo scrittore, accanto alla mia nuova ragazza nel corso del tempo riesco ad allargare il giro delle mie amicizie e a conoscere persone molto interessanti, con le quali ancora oggi sono in stretto e affettuoso contatto. Il nostro rapporto prosegue a lungo fra alti e bassi, più bassi che alti a dir la verità. In compenso va tutto per il meglio con le nuove conoscenze, a cominciare dai suoi fratelli coi quali decidiamo di metter su una squadra di calcio e di sfidarne altre nell’ambito strettamente amatoriale. Con loro, più che con lei, passo la maggior parte del tempo a parlare di politica e, soprattutto, di Inter, nostra passione predominante.

red starGabriele Giulini, il più “anziano”, decide che, in onore del nostro esposto filo-comunismo, Stella Rossa sarà il nome dei magnifici undici e allora io propongo che il motto debba per forza essere: Falciate e Martellate. Motto che suscita entusiasmo e che convince tutti ad acquistare magliette, pantaloncini e calzettoni rosso sangue.

All’inizio ci si allena a Trenno, a due passi da San Siro. Ci ritroviamo lì la domenica mattina non più tardi delle otto. Anzi a turno ognuno di noi si presenta sul posto, nebbia e non nebbia, gelo e non gelo, verso le sette per “occupare” uno dei migliori campetti a disposizione. Ogni volta che tocca a me l’alzataccia mi domando chi me lo fa fare, ma la passione è tanta e alla fine mi convinco che ne vale proprio la pena. Tra l’altro, oltre che giocare fra noi, incontriamo altri pazzi che si allenano in vista di confrontarsi su un vero campo regolamentare. Insomma il giro, in breve, si allarga a macchia d’olio.

Della nostra straordinaria compagine fanno parte giocatori che vanno dai quindici ai trent’anni e passa. Fra gli altri: i tre fratelli Giulini, Daniele Abbado e addirittura Claudio Abbado, grazie al quale entra in squadra anche un fantastico violinista della Scala, Simion Vasinca.

Mentre Daniele è la nostra punta di diamante, suo padre, quelle poche volte che gli impegni scaligeri glielo permettono, passa la maggior parte del tempo in panchina.

Le occasionali partite che riusciamo ad organizzare ci vedono protagonisti di ottime prestazioni. In porta il titolare è Piero Candelora che, non è proprio Ghezzi, ma se la cava niente male. In difesa tre mastini duri e puri: Camillo Cantaluppi, Giorgio Soana e Carlo Guglielmi (il più cattivo dei tre). A centro campo spiccano Gabriele Giulini, Lazzaro Raboni e Franco Ferrarini. In attacco Paolo Giulini, Simion Vasinca, il fenomenale Daniele Abbado e il sottoscritto. Al grido di “Falciate e Martellate” facciamo sicuramente paura agli avversari e, ad onor del vero, giochiamo come dei forsennati, dotati più di cuore che di tecnica. Dopo aver inanellato una serie di vittorie cominciamo ad avere anche un certo seguito, al punto da accumulare persino sei o sette spettatori fissi, fra amici e fidanzate.

Nel frattempo la vita di tutti i giorni scorre piacevolmente. Durante la settimana di giorno il lavoro non manca, di sera le occasioni cosiddette mondane si sprecano. Nel week-end si va tutti ad Oltrona, a casa Cantaluppi che ci accoglie sempre in maniera straordinaria ed è lì, finalmente, che Claudio riesce a tirare due calci in libertà, anche perché il luogo è sprovvisto di panchine.

abbado_giovaneAltri campi che lo vedono protagonista indiscusso sono quelli in Engadina dove, soprattutto in estate, organizziamo partitelle nei prati davanti le belle case dei vari amici che ci ospitano.

La voce che la Stella Rossa è diventata la squadra da battere arriva anche all’orecchio di Mauro il Bolognese che, appena mi siedo a uno de suoi tavoli, mi lancia la sfida per la prima domenica del mese.

Mi hanno detto che siete forti ma noi non siamo da meno. Staremo a vedere”. Sembra quasi una minaccia e forse lo è.

L’appuntamento è per le sette di sera sul campo dell’Associazione Sportiva Barona. Fa un freddo boia e, prima di entrare negli spogliatoi, la nebbia è già bella fitta. Causa alcune defezioni, al gelo della stanza riservata alla squadra-ospite, siamo solo in dodici. Di nascosto faccio segno a Daniele di far entrare suo padre al posto mio, scuote la testa e mi fa capire che non ci pensa nemmeno. Ora, anche se non è proprio quel che si dice un campione, a guardarlo seduto in attesa di poter entrare in campo mi si stringe il cuore ogni volta. Lui, uno dei più grandi direttori d’orchestra apparsi su questa terra, abituato a dirigere a bacchetta (è proprio il caso di dirlo) una caterva di eccezionali professionisti a livello internazionale, non può e non deve restare in disparte. Ma suo figlio è inamovibile: “gioca solo se si fa male qualcuno!”.

Così entriamo in campo mezzi assiderati e ci rendiamo conto che ormai la visuale si aggira sui trenta-quaranta metri al massimo. Sugli spalti i nostri pochi e soliti spettatori eroici, intabarrati come esquimesi, urlano e battono le mani più per riscaldarsi che per altro. Il Maestro si siede in panchina in attesa fiduciosa di essere chiamato prima o poi a combattere la sua battaglia. Già dai primi scambi ci rendiamo conto che gli avversari sono delle belve, così come è abbastanza evidente che l’arbitro parteggia spudoratamente per loro. Si gioca più che altro a metà campo, raramente i portieri toccano palla. Minuto dopo minuto la partita si trasforma in una accanita lotta greco-romana, i calcioni si sprecano, le gomitate pure e, complice la nebbia, i colpi bassi si susseguono fra urla di dolore e veementi proteste. Verso la fine del primo tempo non so come riesco a passare una palla d’oro a Daniele che s’infila fra due difensori e si ritrova da solo di fronte alla porta, tira e mette in rete ma, nel frattempo, quel cornuto che dirige la gara fischia il fuori gioco. Apriti cielo! Si scatena una rissa furibonda. Mauro il Bolognese ed io tentiamo di dividerli ma riusciamo solo a beccarci sberle e spintoni. A quel punto Claudio, pacifista di natura, scatta in piedi per far cessare la rissa ma viene bloccato e dissuaso da un paio dei nostri: oltre ad essere rimasto in panchina ci mancherebbe altro che si facesse male per colpa nostra. Capitan Giulini ordina il ritiro della squadra così, fra insulti e gestacci irrepetibili, prima di morire congelati ci avviamo verso gli spogliatoi. I nostri sugli spalti ci applaudono ma non hanno capito che alla fine ci siamo arresi. Nella stanza gelida ci rivestiamo in fretta, tranne il Maestro che non ha fatto in tempo neppure a toccare una palla.

Da quella maledetta serata la squadra ha iniziato a sfaldarsi fino allo scioglimento ufficiale non senza lasciare in tutti noi grande amarezza e infiniti rimpianti.

Alle 8.30 del 20 gennaio del 2014, la mezz’ala meno utilizzata della Stella Rossa lascia questa terra per andare da un’altra parte a dirigere, come solo lui era in grado di fare, la sua straordinaria orchestra e, nel tempo libero, tirare due calci al pallone, in pace.

Due calci al pallone è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Musica delle sfere

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di Sergio Pasquandrea

Monk non è niente male, a ping-pong. È proprio come quando suona il piano: la racchetta arriva quando meno te l’aspetti. Ti prende alla sprovvista. Il suo ritmo ti prende alla sprovvista, perché colpisce la palla all’ultimo momento. Il ping-pong ha un suo ritmo: ping-pong-pada-bong, boom–boom. Ma Monk non fa boom-boom, Monk fa bapp! Ti aspetta al varco. (Charles Mingus)

Il gran sacerdote del bebop?

Le poche volte che la critica dell’epoca si occupava di Monk, amava definirlo «il Gran Sacerdote del Bebop» (pare che la definizione risalga ad Alfred Lion, il manager della Blue Note). E in effetti Monk esercitò un ruolo decisivo nella nascita di quello stile: era il pianista fisso del Minton’s, godeva del rispetto di Dizzy Gillespie, Art Blakey, Miles Davis. Bud Powell fu un suo protegé e Kenny Clarke affermò di aver escogitato i suoi celebri controtempi sulla batteria (le «bombe», come venivano chiamate all’epoca) ascoltando il modo in cui Monk accompagnava al pianoforte. Brani suoi, come 52nd Street Theme, Epistrophy, ‘Round Midnight entrarono stabilmente nel repertorio dei boppers. Gli anni del Minton’s furono anche quelli in cui il suo stile raggiunse la maturità: se si confronta il Monk del 1941 con quello che nel 1944 incide alcune tracce insieme a Coleman Hawkins, si ravvisa chiaramente l’evoluzione da uno strumentista dotato ma ancora acerbo a un musicista già dotato di una propria spiccata personalità.
Sta di fatto, però, che quando a metà anni Quaranta il bebop esplose come la new thing del jazz, le copertine dei giornali furono tutte per Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Monk faticava persino a trovare lavoro e rimase, per almeno altri dieci anni, una figura misconosciuta, un musicians’ musician largamente ignoto al pubblico e snobbato persino dalla critica specializzata. Le prime registrazioni a suo nome furono realizzate nel 1947, quando aveva già trent’anni; ma bisognerà aspettare la fine del decennio successivo prima che la sua statura artistica sia riconosciuta in tutta la sua grandezza.
Ciò pone il problema del suo effettivo legame con il bebop. E a ben guardare, il suo stile maturo sembra avere ben poco da spartire con l’eccitazione cinetica e l’esacerbazione tecnica del bop. Vi si possono senz’alto individuare somiglianze: il gusto per la dissonanza e per le linee melodiche angolose, la predilezione per le forme AABA, con il tema esposto all’inizio e ricapitolato alla fine. Ma per molti altri aspetti Monk sembra l’esatto opposto del bop: dove i boppers esaltavano la velocità, Monk accentuava le pause, i silenzi, lo spazio vuoto.
Non si tratta tanto di “mancanza di tecnica”, della quale spesso Monk veniva accusato, quanto di una volontaria rinuncia ad essa. Invece di esibire la propria tecnica, Monk sembrava mirare a scarnificarla. «Certe volte suonavamo come fulmini per tutta la notte al Minton’s», affermò in un’intervista del 1965. «Poi mi sono stufato di suonare sempre veloce. Finisce che diventa una cosa automatica e alla fine non sei più capace di suonare diversamente». Durante un blindfod test per la rivista Downbeat, gli fu proposto un suo brano, Rhythm-A-Ning, eseguito dal quintetto di Art Pepper: «Sembravano assoli lenti accelerati (slow solos speeded up)», commentò con il suo solito humour sottile.
Stefano Zenni ha parlato efficacemente di «gesti del bebop […] isolati e resi iperbolici, così da rovesciare lo stilema in dettaglio idiosincratico»: e in effetti ciò che nel bebop diventa facilmente cliché – l’intervallo di quinta diminuita, le melodie zigzaganti, la frase iperveloce – in Monk viene adoperato come elemento di un’estetica che fa dell’assoluta originalità la propria condizione irrinunciabile.

L’angolo giusto
«Va indiscutibilmente evitata quella disgraziatissima posizione colle dita tese e rigide, tuttora prescritta da troppi insegnanti che meglio meriterebbero il nome di ciarlatani, vergognoso pseudo-insegnamento del quale ognuno di noi può oggi ancora constatare ovunque gli infelici e quasi sempre irreparabili risultati». Così s’indignava Alfredo Casella, a pagina 97 del suo – peraltro interessantissimo e tuttora validissimo – libro Il pianoforte.
Esistono numerosi filmati che mostrano Monk suonare (molti di essi sono disponibili su YouTube). Ebbene, ciò che salta all’occhio è la posizione delle mani: esattamente quella deplorata da Casella, «con le dita tese e rigide». Di più: Monk colpisce i tasti cadendovi sopra quasi in verticale, adoperando l’intero avambraccio, con un attacco aspramente percussivo. Siamo all’esatto opposto di quell’economia di movimenti che è l’obiettivo principale della tecnica classica, la quale ha come scopo – secondo le parole del pianista e didatta Gyorgy Sandor – di «imparare a sincronizzar[e i muscoli] nel modo che comporti il minore sforzo possibile», in modo da evitare gli «inconvenienti (tendiniti, borsiti, ecc.) che nascono da modi errati di studiare, quali il continuo abuso dei muscoli, il forzare e l’irrigidire e giunture, l’eccessiva pressione sulla tastiera».
Laurent DeWilde ha paragonato l’impostazione di Monk a quella di un vibrafonista, cogliendo così l’aspetto sostanzialmente percussivo del suo stile. E in effetti, se si volesse cogliere la matrice generativa della musica monkiana, essa sarebbe da ricercare da una parte nel suono, dall’altra nell’impulso ritmico, che è sempre netto, tagliente, assolutamente infallibile. Milton Stewart si è spinto oltre, sostenendo che nell’impostazione di Monk risalirebbero alla luce memorie ancestrali della mbira, l’antico «piano a pollici» africano, con il quale sarebbero rintracciabili precisi parallelismi esecutivi.
Nel caso di Monk, l’impostazione corporea è inseparabile dalla concezione timbrica. Il suono di Monk, anche come risultato di quella posizione delle dita così antiaccademica, è aspro, tagliente, e allo stesso tempo luminoso, come un brillante le cui sfaccettature riflettano e moltiplichino la luce. Brilliant Corners («spigoli brillanti»), titolo di una sua composizione, è anche una descrizione perfetta del suo suono.
Quel sound, del resto, fa parte di una più generale propensione monkiana verso la dissonanza elevata ad elemento strutturale. Intervalli dissonanti come seconde minori, none minori, tritoni sono da lui usati senza la preparazione e risoluzione che la teoria musicale classica riterrebbe indispensabile. Gli stessi accordi sono spesso disposti in posizioni (voicings, secondo la terminologia jazzistica) non ortodosse, studiate in modo da creare deliberati urti fra note all’apparenza incompatibili l’una con l’altra. In ciò, egli si riallaccia da una parte a una precisa tradizione stride (in James P. Johnson e in Duke Ellington, tanto per fare due nomi, si possono ritrovare tecniche analoghe), dall’altra a una più ampia concezione sonora tipica del jazz. Scrive Stefano Zenni:

Un pianista jazz concepisce tocco, armonia e colore fusi in un unico gesto. È un procedimento opposto a quello dell’interprete classico, che ricerca il tocco più adeguato per rendere le armonie di una partitura. Nel jazz invece domina una concezione olistica in cui non è possibile scindere la disposizione degli accordi, l’immaginazione timbrica e il tocco sullo strumento: il mondo percussivo e risonante di Monk e le vibrazioni tattili e sensuali di Bill Evans sono lì a dimostrarlo. La sintassi armonica del jazz è anzitutto un flusso di colori.

Del resto, proprio quegli aspri urti sonori gli permettono di esaltare gli armonici interni di ogni accordo, amplificandone la sonorità (come afferma DeWilde: «[nel]la musica di Monk […] crediamo sempre di sentire più note di quante ne stia veramente suonando. Dobbiamo continuamente chiederci: la suona veramente, quella, oppure ho semplicemente l’impressione di sentirla?»). Una tecnica che richiede un’assoluta padronanza del tocco e dei registri strumentali, e che fra l’altro gli consente di risolvere uno dei più annosi problemi del pianoforte jazz: la resa delle blue note. Monk usa spesso una soluzione peculiare, che consiste nel percuotere simultaneamente due note a distanza di semitono, rilasciandone poi una: l’effetto evoca in maniera straordinariamente precisa il bending, ossia quel modo di «piegare» le note tipico dei cantanti e dei chitarristi blues (uno degli esempi più chiari è il Just A Gigolo inciso in piano solo sul disco MISTERIOSO, Riverside 1958).

In altri termini, Monk impiega il tipo di approccio al pianoforte necessario ad ottenere il tipo di risultato sonoro che egli ha in mente. E lo fa in maniera assolutamente consapevole e pianificata. Del resto, fu proprio Bill Evans – pianista all’apparenza del tutto opposto rispetto a lui – ad affermare che Monk «sa esattamente che cosa sta facendo, dal punto di vista teorico: è organizzato, probabilmente, secondo una terminologia personale, ma comunque fortemente organizzato. […] Monk si accosta al pianoforte – e, aggiungerei, anche alla musica – come da un angolo, ed è l’angolo giusto per lui».

tratto da Breve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e nero, Arcana, 2015

Musica delle sfere è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Muro di casse

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di Vanni Santoni

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…e dalle case di pietra sotto cui passi prima di arrivare, le vecchie sbirciano; sulla strada i vigili danno mano, addirittura. È esistita un’epoca, ricordo adesso, in cui sui giornali si potevano prendere per quello che erano, semplificando al massimo, quei ragazzi: appassionati di musica, solo un po’ strani. Tra i lampi tremolanti dei fari di chi cerca di far manovra incroci facce che vengono da lontano e altre che invece arrivano certamente giù da basso; per un Claust di Innsbruck e una Marystelle di Roubaix ecco un Baldo, un Colle, una Sarina.
E seguirò proprio te, Sarina: tu che procedi all’apparenza sicura verso il monte, con le calze smagliate e gli scaldamuscoli rivoltati sopra le scarpe da skate, con la felpetta nera su cui hai cucito, o lo hai fatto fare a tua mamma?, una toppa col logo dei Narkotek, quante volte hai fatto su e giù, in questa settimana? Chi ti ha dato uno strappo fino a mezza strada, stavolta? Che fai, ti metti da parte, ti fermi a giocare con un cane? Se fai così ti supero…
Servono capsule?
O Sara, sono Iacopo, il Gori.
Ah mi’, ciao Iacopo. Vuoi capsule?
Con tutto il ben di dio che ci sarà lassù…
Bo vabbè cioè te le mettevo a dieci, è md francese…
Immagino.
Senti Iacopo… Che ce l’hai mica una sigaretta?
Tieni, Sarina, e prende la sigaretta, se la mette sull’orecchio, poi ci ripensa, la accende, intanto arrivano altri tre, piccoli come lei, due ragazzine e un tizietto con una visiera da tennis sulle ventitré.
Ciao… Lucy?, fa alla prima del gruppo, ci prende, ottiene riconoscimento; si affianca, allora, e ritrova la voglia, finalmente, di fare strada: ti seguo, Sara, hai visto cosa hanno messo su? Proprio qui da noi. Tu che per la prima volta hai visto una vera festa cinque settimane fa, che dalla loia impestata del campeggio di Arezzo Wave qualcuno ti ha caricata su, e ti ha portata all’In the wood, al confine con l’Umbria, e lì sì che hai visto i tuoni e i fulmini e i diavoli che uscivano a mazzi dalla terra, e ora puoi ben fare come se bazzicassi questi sentieri da sempre, e come se questi sentieri per sempre dovessero esistere: non è così, Saruccia, vorrei dirti oggi, ma intanto ecco i primi tuoni, e i primi camper scassati e coperti di adesivi, ecco che sbirci quelle lucine che sembrano di lanterne a olio, lì nel riflesso di quegli interni di legno o simillegno,  e c’è chi vende sebbene l’ora non sia tarda, te lo figuri a dire Veggano, veggano che fiore di mercante! Qui v’è di tutto; e son nullameno tutte cose rarissime e senza eguali in terra, oppure oh raga serve qualcosa, e allora tu sbircia e salta qua e là, Sara! Altro che le capsule con cui ti bulli di smerciare anche tu, che ti sei preparata sbriciolando un grammo di md presa ieri e dividendola dentro gli involucri svuotati di qualche medicina di tua madre; qui, Saretta, c’è ogni cosa, stasera da Castiglion Fibocchi passa la Via della Seta,
ecco Odilon con l’oppio andaluso
e Kirsten con le superman bianche (tutte anfetamina)
e quel gruppo da Marsiglia con gli acidi marca Timothy, che sta per Timothy Leary, l’hai mai sentito, Sara? non prenderne più di mezzo, si raccomanda uno di loro, sono da trecentosessanta microgrammi
da trecentosessanta microgrammi
e il Falacci (lui, be’, lo conosciamo) che è venuto da Reggello e ha un mezzo chilo di nero
e Rocamadour con Sayfa che hanno lo speed base, senti come odora, e la ketch indiana appena cucinata, e se vuoi anche le paste, smile blu, lo so c’è tanta md in giro,  ma queste son buone davvero, guarda, te le metto a cinque, a quattro
e al camper col graffito di Luigi (quello di Super Mario) affettano panette di zero zero
ma hanno anche la ganja olandese
e alla tenda, quella con la bandiera dei pirati, hanno le micropunte e il 2C-B, addirittura
raga serve oppio, serve md
ora che si formano le prime stradelle, ora che i tuoni e i lampi si aggregano in nodi e nubi sui crinali ecco anche nascere i crocevia coi loro mercanti, ognuno una lampadina al collo o sulla testa, qualcuno il cane, c’è chi si è portato una sedia da picnic
trip?
fumo?
serve speed ragazzi?
funghetti? guardalo, col cappello da cowboy e i sandali e il torso magro e nudo su cui penzola un rosario di legno, da dove sei arrivato tu, dall’accento potresti venire da qualunque posto, essere qualunque cosa
funghetti mezzicani ragàz?
Sarina, quasi ci hai ripensato? Buoni i funghetti, ma ti sei già comprata due Timothy, stai tranquilla, che se davvero sono da trecentosessanta microgrammi, mezzo ti basta e ti avanza
GHB?
erba?
volete birre ragazzi?
fresche nella bacinella da bucato riempita d’acqua di fonte
un bicchiere di vino cinquanta centesimi!
cecina, piade, magliette,
per caso vi serve mica un generatore usato, raga? funziona eh
Si sarebbe detto poi in Valdarno, Sara, che dopo quella festa ti eri messa con un francese di una tribe, e che ti avevano ritrovata lacera e perduta su un marciapiede di Marsiglia, sembrava una storia primi anni ’80, di quelle a fosche tinte; la verità è solo che avevi rivisto questo tipo incontrato all’In the wood (che poi, di lì a dire che quel Pascal, un devastato in canotta aggregatosi all’ultimo ai Sikotronik, fosse “uno di una tribe”, ce ne correva), e ci avevi pomiciato e gli avevi fatto una sega e ti eri ficcata in testa di metterti con lui, ma lui mica voleva troppo, ed eri arrivata a infilarti nel loro furgone, e allora lui, va là che non si butta via niente, il viaggio è lungo e una scopata ci sta, ti aveva presa su, ma arrivati a Marsiglia si erano tutti rotti il cazzo di Pascal e quindi figuriamoci di te (alle prime beghe peraltro subito disconosciuta), e arrivati su era chiaro pure che nessuno ti avrebbe portata in giro – neanche ti parlavano! – e così, senza neanche provarci, ad andare alla festa che dovevano organizzare qualche giorno più in là in certi hangar del porto sud, te l’eri fatta all’indietro, elemosinando e facendoti buttar fuori dai controllori treno dopo treno, e alla fine eri riapparsa qua, un po’ scossa e sbattuta, ma nulla di terribile, e però si sa, in paese ogni storia appena anomala si gonfia e sfugge di mano… Ma adesso siamo in quota, Pratomagno 2004, tutto questo non è ancora accaduto e grandi sono gli spazi bui tra i sound e possenti i tuoni, e farai bene ad approfittarne, a saltare e correre di qua e di là secondo il ritmo incessante che si alza a ogni orizzonte, ogni spiazzo è un mondo e dietro ogni crinale c’è un sound più grosso, e io stesso ti perdo, tu svalli mentre mi fermo a girarmi una sigaretta, approccio un sound che manda breakbeat, cos’è quel fagotto lì sotto, ah no aspetta è una persona… Oh mi’ c’è i’ Futre. Vomita, i’ Futre.
Ciao Futre, che fai, sgori?
Urg, hei Iacopo, um…
Ecco un esempio di quelle improvvise fluttuazioni verso il basso del pensiero cosciente che si hanno mentre sale l’effetto della ketamina. Ad alcuni poi, l’avvio causa una certa nausea, per l’effetto anestetico. Specie se, a giudicare da quanto il Futre sta rimettendo sull’erba bagnata, si viene da una corpata di spaghetti all’amatriciana e vin cattivo. Ma l’ho del resto visto vomitare una mezza dozzina di volte, ai tempi del liceo, quando era punk e bene declinava tale appartenenza. E sì che proprio lui allora cantava inni contro i “discotecari dai capelli colorati”, sebbene al Fitzcarraldo di Terranuova Bracciolini o al Mulino di Figline Valdarno, che erano le uniche discoteche che avessimo mai visto, nessuno avesse i capelli colorati – c’erano in effetti le stesse persone che incrociavamo ogni mattina durante l’intervallo. Si trattava forse di una sovrapposizione tra i discotecari di casa nostra e quelli che a volte facevano capolino sui giornali o in TV, in un servizio sulla Love Parade di Berlino (o sul The West di Venturina, che faceva 07:00-17:00 anche se ai tempi la parola rave in Italia neanche esisteva: quelli erano gli afterhour), i quali poi volendo erano ben più sovversivi di un gruppo di punk di paese, ma capisco l’equivoco, sono solidale: non era facile capire che ballare poteva essere qualcosa di sensato. Ti approcci al ballo la prima volta alle feste delle medie (ma se serve vi porto i dischi/così potrete ballare i lenti), è un orrore, poi al biennio c’è la discoteca della domenica, peggio ancora se non per il fatto che permette di tornare a casa la sera sfondati di cocktail e cenare di ottimo umore e solo un po’ giallastri coi genitori prima di svenire sul letto, né sono migliori quei dancefloor del mare, messi su in spiaggia alle 21:30 con tre faretti colorati; e pure quando cominci a rovistare le librerie dell’usato in cerca di quei “mille lire” di Stampa Alternativa con le interviste a Albert Hofmann o i suoi carteggi con Huxley, Jünger, Leary e Vogt, quando insomma cominci ad aprirti a una cultura che col ballo confina dai tempi dei tamburelli degli sciamani, ti capita fra le mani (nella stessa collana, in effetti) Anche le oche sanno sgambettare, e insomma, Don Milani non sarà Hofmann ma dato che conferma quello che già pensi è difficile non dargli ascolto, anche se il pogo, quello che fai ai concertucci punk, non è forse un ballo? Servirà ancora una fase di transizione, in quei postacci tipo Blue Kaos o Duplé dove per via della “progressive” la più turpe ottica da discoteca si mescolava con un primo, possibile, gusto del ballare per ballare (ma sempre con la testa sul fatto che ti stanno guardando, sul come ballare, sul cercare di non essere ridicolo, sul quando-avvicinare-quella-che-hai-puntato-prima), prima di capire che ballare è bello, anzi che il ballo è celebrazione, è rito, è il più elementare abbandono dell’io, i bambini lo sanno, basta che li metti davanti a una cassa e ballano, i bambini senza che nessuno glielo insegni girano su se stessi fino a stordirsi. Quanto ho girato! Facevo le feste già a tre anni, a casa della nonna: non mi si biasimi allora se remo sotto cassa.

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Vanni Santoni, Muro di casse, Laterza 2015

Muro di casse è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

InRitiro: Soggiorni di Studio sull’Appennino

Sax in the city

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Ho chiesto a Franco Bergoglio, polemista e attento studioso del jazz, di presentare il suo ultimo libro Sassofoni e pistole. Quello che leggerete è uno spin-off su uno dei mille mondi che non hanno trovato dimora nel lavoro. (effeffe)

Il Crime jazz al cinema
di
Franco Bergoglio

L’immaginario noir del jazz è sterminato: concentrandomi su quello “letterario” dei romanzi e dei racconti brevi, ho lasciato volutamente fuori il fumetto e il cinema. Verso il cinema il mio pudore è doppio: se per analizzare i romanzi ho impiegato otto anni, il cinema mi avrebbe portato via almeno il doppio. E poi David Butler ha scritto un bel libro sul tema, Jazz Noir (Praeger, 2002); invece del rapporto tra romanzi noir e jazz non se ne era occupato ancora nessuno in termini tanto ampi. Un vero cold case da detective melomane! Senza concorrenza, e senza tema di farsi sbranare da cinefili super-competenti ma sanguinari. Ovviamente l’immaginario “giallo-nero” legato al jazz finisce per rendere labili i confini tra pagina scritta e celluloide. Ieri flirtavano con il cinema Hammett e Chandler, oggi lo fanno Ellroy o Patterson. Molti lettori precoci del libro mi chiedono continuamente di parlare di cinema, di indicare pellicole, di stilare classifiche…nonostante io continui a ribadire che NON sono in grado di affrontare anche quest’indagine. Allora da detective passo al ruolo di testimone e semino alcuni indizi. Dice James Ellroy: il romanzo noir è come il jazz: gli americani lo fanno meglio. Elenco quindi quattro scene memorabili tratte da altrettante pellicole. Tutti film rigorosamente americani –Ellroy oblige- e non tutti capolavori (quello di Altman, forse sì). Il jazz vi gioca un grande ruolo. Entra nella trama, detta le atmosfere e solo uno, Il lungo addio, è emanazione diretta di un romanzo-capolavoro. Non ho saputo resistere. Après moi le déluge diceva qualcuno più importante del sottoscritto; spero solo, lasciando campo libero a curiosi ed esperti, di non trovarmi sommerso da tuoni, fulmini e chicchi di grandine.

Collateral (2004), diretto da Michael Mann.
La scena nel Jazz Club è un tributo a Miles Davis: l’improvvisazione del trombettista arriva da Spanish Key, tratta dall’album Bitches Brew e il divino principe della tromba viene evocato più volte nel teso dialogo che occupa la sequenza. Un Tom Cruise assai cool veste i panni di un killer/esperto di jazz quasi tarantiniano (Critici: non picchiatemi!).

American Hustle – L’apparenza inganna (2013), diretto da David O. Russell.

Tutta la colonna sonora di questo disco è una miniera di preziosi, ma a noi interessa la scena dell’incontro tra i due protagonisti interpretati da Amy Adams e Christian Bale, un gioiello che rasenta l’assoluto cinematografico: i movimenti di macchina seguono fedeli i pensieri dei due e le musiche (e pensieri, gesti e musiche si trovano sullo stesso piano!). Il party anni Settanta ha il suono dei Chicago con Does Anybody Really Know What Time It Is. Seguono due minuti indimenticabili con Jeep’s blues di Duke Ellington. La versione è quella del Live at Newport 1956, come mostra bene la copertina del disco inquadrata dalla camera. La canzone entra prepotente e scava “da dentro” la trama.

Johnny Staccato-The Naked Truth (1959), diretto da Joseph Pevney

I telefilm hanno fornito tanto materiale al cliché jazz-noir. Qui gli esperti di televisione mi tireranno le pietre, ma tra tanto materiale scelgo il primo episodio della serie: didascalico nel presentare l’ambiente e I personaggi. Il detective suona il piano, il suo ufficio è un jazz club. La presenza di John Cassavetes nei panni del protagonista sigilla il quadro, mentre sul palco stanno come figuranti Pete Candoli, Barney Kessel, Shelly Manne, Red Mitchell, Red Norvo…

The Long Goodbye/Il lungo addio (1973), diretto da Robert Altman

La colonna sonora del film consiste in due sole canzoni, la prima Urrà per Hollywood e un’altra intitolata The Long Goodbye. Ogni volta che si sente, c’è una variazione nell’arrangiamento del tema composto da John Williams. La vita di questo Marlowe è intrisa di una solitudine che si rinnova, come un refrain. La canzone torna, sempre lei, ma sempre diversa. La vita è sempre maledettamente uguale, ma sempre diversa. Elliott Gould incarna questo Marlowe esistenzialista indossandone alla perfezione le note musicali.

Sax in the city è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Intonarumori & cacofonatori

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viniledi Romano A. Fiocchi

Doc. Looksharp, LP Cacophonorgy, Furry Heart Records, 2014.

Se il progetto fosse stato americano, magari avrebbe già trovato una grande etichetta e un successo assicurato. Invece, nonostante nomi e titolo, è tutto italiano. Ed è rimasto un prodotto di nicchia. Italianissimo l’autore, Doctor Luden Looksharp ossia Luca Collivasone. Italianissima l’etichetta, Furry Heart Records. Italianissimo lo strumento utilizzato, un cacofonatore, ossia l’erede dell’intonarumori ideato da Luigi Russolo giusto un secolo fa. Russolo, che aderì con entusiasmo all’ultimo movimento artistico tutto italiano, il Futurismo, fu l’unico a proiettare la visione futurista nel campo musicale. In quello che viene concordemente ritenuto il manifesto della musica futurista, L’arte dei rumori (1913), sostenne la possibilità di “intonare e regolare armonicamente e ritmicamente” i più svariati rumori e diede concretezza alla sua tesi con l’invenzione di un sistema di mezzi fonici che chiamò appunto intonarumori. La serie di concerti che tenne a Milano nel corso del 1914 suscitò clamori e dissensi, ma anche interessamento da parte di grandi nomi come Ravel e Stravinskij che restarono impressionati dalla sua composizione per frusciatore, gorgogliatore, gracidatore.

Se con Russolo siamo in bilico tra la bizzarria e la provocazione, tipiche del Futurismo, in questo progetto di Doc. Looksharp la ricerca si fa sistematica, fonde il tributo a Russolo con le innovazioni d’avanguardia dei nastri magnetici di Luciano Berio e Luigi Nono, con ritmi tribali, con rielaborazioni elettroniche decisamente attuali, compreso l’utilizzo della voce umana modificata da un distorsore. Al tempo stesso, con l’arma dell’ironia, si scaglia contro la vocazione ormai prettamente commerciale dell’industria discografica e contro la sua scarsa attenzione per la sperimentazione e per l’invenzione musicale.

Ma cos’è questo cacofonatore. In primo luogo è uno strumento filosofico con vocazione ecologista, ossia un assemblaggio di materiali ormai usciti dal ciclo produttivo ma che racchiudono un potenziale di riutilizzo che solo un’artista sa riconoscere. C’è l’amore per l’oggetto rigenerato, il rispetto per qualsiasi tipo di materia messa a disposizione dalla natura, l’avversione per gli sprechi. Una specie di Arte povera con fini esclusivamente musicali. Doc. Looksharp è partito dalla carcassa di una macchina per cucire Singer del 1940 per realizzare una macchina per suoni. Il progetto e il processo di costruzione sono descritti in un filmato on-line che si può visionare liberamente su YouTube, qui.

vinile contenutoDavvero suggestivo è l’utilizzo narrativo che Doc. Looksharp riesce a sviluppare in alcune composizioni, prima fra tutte At the monuntains of madness (Alle montagne della follia), dove l’atmosfera del noto racconto di Lovecraft è creata magistralmente. Certo, bisogna aver letto il testo. Ma per chi l’ha fatto, sonorità e ritmi straordinari generano un habitat musicale dove si rivede tutta la storia: le infinite distese di ghiaccio dell’Antartide, l’immensa (e immaginaria) catena montuosa con le tracce di civiltà arcaiche, i misteri delle strane creature ibernate (gli “Antichi” di Lovecraft), i bastioni della gigantesca città abbandonata, i tunnel scavati sotto le montagne, insomma tutto l’insieme di visioni che conduce il narratore sull’abisso della follia: “L’emozione più antica e profonda del genere umano è la paura e la paura più arcaica e violenta è quella dell’ignoto”, scrive Lovecraft. Per chi vuole farsene un’idea più precisa, Doc. Looksharp ha reso disponibile un bel video sempre su YouTube, qui.

Cacophonorgy, che raccoglie sei composizioni per cacofonatore, non poteva certo uscire in CD, tanto meno esclusivamente come musica liquida. Ecco dunque la scelta di un vinile a trentatré giri, stampato su un supporto verde trasparente e con tradizionale copertina in cartoncino. Eccentricità da futurista? Tutt’altro, il vinile – gli appassionati lo sanno bene – garantisce toni più caldi e maggiore fedeltà al suono, caratteristiche essenziali per la voce di un cacofonatore.

Intonarumori & cacofonatori è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.


Do you remember Marilyn?

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Quando registrammo la Marilyn di PPP con Laura Betti

di

Luigi Cinque

La generale di “Una disperata vitalità” di PPP era già iniziata. La prima sensazione, quando entrai in teatro, camminando nel buio lungo la parete, fu la precisione con cui Laura, tra versi e canzoni, attraversava il testo. Era in scena da sola, coraggiosamente obesa, tirata, livida, sotto quegli occhi e il nasino dispettoso da bambolotta. Tre quattro persone in platea con il regista Mario Martone. Rimango in piedi.

Che Laura fosse soprattutto la sua voce, lo sapevo già. L’avevo conosciuta, dal vivo, molti anni prima, frequentando alla Sapienza un corso di cinema e letteratura tenuto da PPP. In una delle quattro straordinarie lezioni lei era venuta a leggere e cantare dei versi. Lo stesso PPP ne aveva esaltato le doti di interprete. Ma provo lo stesso fastidio di allora quando esibisce quella risata sguaiata romanesca da straniera, da emiliana, un po’ forzata, in quel suo cantare certe volte alla maniera della Ferri cogliendone solo ingenuamente il verso senza andare al profondo della tuttità romana, di quell’insieme inimitabile di“altoalto e bassobasso” che è la canzone popolare ebreo/romanesca. Ora avrei voluto dirle: – “guarda che “la Toppa” o lo sai cantà o non la sai cantà! Inutile che ce fai… e poi te manca la periferia, che voi capì dar salotto de nonna ( così Laura chiamava Moravia, me lo aveva detto Carmen sua organizzatrice dello spettacolo e nostra comune amica ).

Mi siedo in platea. In terza fila a destra del palco. Lei è un tutt’uno con quel leggìo ancora troppo alto, e grande, da direttore d’orchestra, e l’insieme, da giù, con le sbavature di luci ancora da sistemare, dà l’idea di una botte scura al centro del palco con sopra una faccia e i capelli annodati in un ciuffo in su che “facevano pensare allo spruzzo di una balena o al pennacchio di un ananas psicotico” ( sto citando a memoria il particolare dal bel romanzo di Emanuele Trevi “Qualcosa di scritto”). Sono previste le riprese televisive. L’aiutoregista – le chiede, in una pausa, se si terrà così i capelli o magari avrà un cappellino di qualche colore. – “ No tesoro…proprio così…biondo mignotta… “ – gli risponde dal palco, e si morde sul labbro una risata infame. Laura non lo sopporta, mi dice Carmen. E guai a cadere nelle sue grinfie. Poteva essere terribile. Sapevo anche questo. Riprende a provare.

Nel canto, meglio ancora, nel recitarcantato, nello sprechgesang, la sua voce, giocava in casa, aveva un’intonazione naturalmente perfetta. Sembrava esserci nata in quell’ espressionismo popolare. Riempiva la parola di straordinarie microintonazioni. Nessuna ansia dello scorrere del tempo musicale. Le bastava parlare per esserci, in musica s’intende. Respirare per prendere il tempo. Le grandi voci sono grandi per questo, perché danno l’idea di parlare mentre cantano e modulano.

Laura con la sua voce, rauca, fumosa, budellare, gelida, razionalBrecthiana, mirava direttamente al cuore e questo era anche dovuto al fatto che – avrei dedotto più tardi – era perfettamente – “cattivamente” – onesta con se stessa e con gli altri. La voce recitarcantante non perdona. E’ un elemento di rilevazione primario. Ti espone. Non ti permette di fare alcuna poesia, racconto, canzone, senza un rapporto risolto con te stesso, quantomeno con la tua di verità. Non giudica. Ti fotografa e stampa fuori come una vecchia Polaroid. Se l’anima esiste è certamente nel suono della voce. I civilissimi aborigeni australiani – quelli che inventavano il boomerang quando noi eravamo alla ben più terrena e violenta ruota – sostengono che se fai perfettamente il verso di una rana o altro animale sei quell’animale.

Comunque nel nostro caso non c’era bisogno di cercare chissà quale animale. Laura era laura perché faceva la voce di Laura. Per questo comunicava quel senso di precisione. Tranne, ripeto, per quell’accentazzo romanesco che assumeva in alcune canzoni e che la rendevano ridicola; che, come diceva PPP, la inchiodavano “ alla qualità di fossile con la sua maschera inalterabile di pupattola bionda…a mostrare il sadismo di una provinciale che giunta al Centro dove abitano gli idoli si traveste goffamente da nativa per mitizzarli, profanarli e dissacrarli meglio”.

A metà della filata Laura si ferma. Ha bisogno di una pausa. La segretaria di produzione annuncia a tutti i trenta minuti. Carmen mi accompagna nel camerino. Dobbiamo accordarci per la Marilyn di PPP da musicare e registrare per una compilation di canzoni pasoliniane in occasione del ventennale del suo assassinio.

Si sta cambiando abito. Faticosamente. Ci fa entrare. Ha un problema con il vestito. L’elastico, credo. Guardo altrove. Scruto un palazzo antico che si vede dalla finestrella. Alla fine si accende una sigaretta e mi dice – “ciao”.

Credo che con lei valesse una specie di energia animale immediata per cui: o come se ci si fosse sempre conosciuti oppure…oppure niente. Detestava qualsiasi tipo di presentazione. Nel caso, poteva reagire anche male. Mi accoglie come uno che conosceva. Non so. Fu molto gentile con me. Una questione di odori oppure che la musica la intimidiva. Ovviamente non ci fu modo di parlare del lavoro. Avrei capito a breve che non ne voleva sapere. Restammo d’accordo che con Carmen saremmo passati da lei in via di Montoro vicino Campo de Fiori. Faccio per uscire. “ Pierpaolo amava molto questa poesia “ – mi dice. Già, Pierpaolo. C’è una sottile linea di confine a Roma oltre la quale puoi ancora trovare quelli che parlano del poeta chiamandolo Pierpaolo e non Pasolini. Dacia, Piera, i Citti, Ninetto e qualcun altro. Nel tempo mi è capitato di incontrarli. Di sentirli che lo chiamavano così. Segnavano un appartenenza. Un codice. Ma Laura quel nome lo pronunciava in un modo “più” speciale. Assoluto. Primitivo. Infantile. Esclusivo.

Due giorni dopo mi presentai a casa sua. In via di Montoro, Campo de Fiori. Avevo preparato uno schema. Un primo aleatorio nel quale accogliere il testo e la voce a suo piacere. Dovevo solo verificare con lei un paio di appuntamenti sonori, del tipo: incontrarci tutti al riff e fare insieme quel pezzo di melodia in quattro che avevo pensato. Ho con me nello zaino una tastierina giocattolo. Tanto per non dover cantare. E pure il sax, il soprano. Non c’è l’ascensore o non lo trovo. Faccio le scale a piedi. Appena arrivato, sulla porta, Carmen mi chiede sorridendo: Sai fare le iniezioni?. Beh, Si! – dico. Entra in scena Laura, non mi saluta, ha una vestaglia da basso impero Mogul, fiori blù su fondo rosa. Mi dice: – non sarai una fighetta che s’impressiona e sviene? –

Mi indica una busta di plastica poggiata sullo sgabello. Dentro due siringhe e una dose di pennicillina gigante. Mi lavo le mani. Preparo il tutto. Siamo ancora nell’ingresso. Ho la siringa pronta in mano e lo zaino ancora in spalla. Confesso subito che non mi viene bene a fare le iniezioni in piedi. Preferisco il paziente sdraiato. Laura si avvia verso una stanzetta con un letto singolo. – Perfetto – dico –… e se poi abbassi un po’…”

Lei si stende e mi dice serissima: non è che me te voi fà…?” La pugnalo con la siringa.

Passiamo la serata di giugno in terrazza. Mi piaceva moltissimo quella terrazza, così non tanto grande. Fuori da ogni sguardo. Siamo a un centinaio di metri in linea d’aria dal fiume. Decine e decine di gabbiani entrano ed escono nel cono dell’interno condominio, silenzioso, mezzo deserto/barocco e mezzo abitato, galleggiano in cima, perlustrano con un’occhiata e riprendono l’onda gridando.

C’è un vino bianco di marca e un piatto raffinato di pesce e pasta fredda. Non parliamo ovviamente del brano da registrare. Si capisce che non c’è nessuna intenzione di farlo. Anche per un fatto artistico, mettiamola così. Come si suole, diciamo, tra improvvisatori. Dico l’improvvisazione come l’arte sublime della performance. La poetica del mettere le mani sulla materia in tempo reale. Laura ne fa un breve accenno. Colgo al volo. Da qui il discorso devia, un po’ tra l’altro, ma non tanto, quando parte con tutta la sua vestaglia in una risata secca. Ce l’ha con i poeti stonati che leggono le loro poesie con “quella bocca che sembra un culetto e gli occhi sulla pagina scritta e mai a fuoco con il microfono”. E se poi c’è la musica e il ritmo la cosa si fa persino imbarazzante. “Non lo sanno, le zoccolette, che la poesia si fa con le orecchie? Che l’intonazione è tutto per un poeta. Fuori e dentro. E poi non hanno un briciolo di rabbia, solo la posa dei leccaculo, questo sì.” Qualche tempo prima, l’avevano portata a un premio di poesia. Quell’avanguardia vecchia che si sa con Pierpaolo ce l’aveva a morte. Un astio, in molti casi, ingiustificato, da far pensare che non gli perdonavano il successo e la vitalità, che non sapevano davvero cosa voleva dire essere “un gatto bruciato vivo, pestato dal copertone di un autotreno…ma almeno con sei delle sue sette vite davanti “. Il bello è che quelli odiavano pure Sandro Penna che non si può dire avesse tutto questo seguito popolare.

E a proposito ci racconta della Morante ( che invece ne capiva tanto, dice ) che una sera a casa, sentendo un gran rumore di clacson e torme urlanti slogan incomprensibili chè forse la Roma aveva vinto il derby, commentò dicendo: “ deve essere perché Sandro Penna ha preso il premio Strega e lo stanno festeggiando… “.

Infine qualcosa me la dice a proposito della Marilyn. Capisco che lei ama questo testo. Aggiunge: – “che non si perda mai un lontano odore di jazz. Ma nello stesso tempo sarebbe ridicolo farne un brano jazz. Tutto solo sulla sfumatura…sulle intenzioni…niente accordini e terzinati pùmpapa pùmpapa… niente fighettate da solisti”-

Non volle ovviamente sapere la formazione che avrei portato in sala. Meglio così. Non avrei saputo cosa rispondere. La registrazione era fissata al giovedì della settimana dopo.

Le parti erano pronte. Ma servivano a poco, c’era invece da organizzare più che altro un’emozione discreta e univoca che fosse in grado di contenere la “belva”. Chiamai tre vecchi amici con grande esperienza di real time, come si dice, di interplay che poi in ultima analisi vuol dire di sana capacità di ascolto ancor prima che di emissione di suono. Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, Massimo Coen al violino.

Il giovedì di registrazione cominciò con una piece teatrale di gesti e rumori degna del miglior Becket. Siamo in una via del quartiere Prati. Una traversa tra due arterie cittadine. Un via decisamente stretta considerando che ci passa il bus. Il portone di un palazzo di solido stile umbertino che dà in un ampio cortile circolare con diverse saracinesche aperte e vetrine con attività varie. Ricordo un parrucchiere per signora. Giù in fondo, al centro, proprio di fronte al portone, l’ingresso dello studio di registrazione. Noi, da buoni turnisti, eravamo già lì con i nostri strumenti. Alle dieci Laura era in forte ritardo. Apparve dopo mezz’ora. La vedemmo entrare nel cortile, gelida, gli occhialoni da sole tondi e grandi, livida, con le labbra serrate, un borsone portatutto con dentro sicuramente la bomba, una camiciona celeste che la conteneva alla meglio. Non aveva tempo di salutare. Si ferma davanti al produttore ch’era lì con noi. Lo brucia con uno sguardo e platealmente fa cadere la chiave dell’auto dentro una grata ch’era sotto i nostri piedi. La cosa sul principio non ci impressionò ma subito dopo percepimmo che la signora aveva parcheggiato in seconda fila e la sua Golf già bloccava l’autobus e una fila infinita di automobili.

Furono momenti di panico. Laura se ne frega. Nessuno osa parlarle. Entra in sala, chiede al fonico qual è il suo microfono e si siede in postazione. Fuori arriva trafelato il portiere dello stabile armato di una grossa barra di ferro. Insieme al produttore, ( reo di aver dimenticato di andare a prendere la furiosa a casa, da qui la punizione ), ed altri tre o quattro, riescono a sollevare la grata. Siamo invasi dal suono di un’orchestra di clacson. Massimo il violinista mi dice che è il miglior Cage che abbia mai ascoltato. Il gruppetto infine raccoglie nel secco di fogliame e carte la chiave. E sarà il produttore stesso che rischia la vita ( per espiare evidentemente! ) uscendo a spostare la Golf tra una folla di automobilisti e passeggeri inferociti. Entrammo e ci mettemmo ai nostri posti. Dopotutto la furiosa aveva ragione. Quel suo special di teatro del dispetto era l’unica possibile reazione verso l’insensibilità e grossonalità, mista a finta gentilezza, del produttore Si capiva da lontano che quello era al posto sbagliato. Che era il tipo di persona che, anche inconsapevolmente, impedisce che si stabilisca un patto importante tra artisti e pubblico.

In sala, Laura parlava solo con me. Quando ci mettemmo le cuffie e tutti ci ascoltavamo in interfonico mi toccò la ridicola parte di tradurre dall’italiano all’italiano le sue indicazioni. Non conosceva il pezzo. Alla fine chiese solo di avere gli attacchi chiari. Si era improvvisamente ammorbidita. Ora, la furiosa, era a suo agio. Attentissima. In grado di cogliere ogni spostamento di intonazione e ritmo. Ubbidiente al flusso di note. Reattiva.

Dopo una prima passata per regolare meglio gli ascolti registrammo l’unica versione del brano. Un solo take. Laura era della vecchia scuola. Del tempo in cui il nastro era prezioso. Nessun vezzo, si usava così. Si riascoltava e se non andava si cancellava e se ne faceva un altro. Comunque lei approvò già il primo e per noi andava bene.

Ho riascoltato diverse volte la Marilyn. C’è qualcosa di intrigante nella dinamica parola suono. Un piccolo teatro nascosto. Laura comincia stranamente con un’intonazione separata che la pone, in disparte, con un’altra impedenza elettrica, in altorilievo rispetto alle costellazioni sonore che componiamo via via. Si mantiene sempre una terza minore sotto il galleggiamento atonale del brano. Lo fa per istinto, si capisce. Per pigrizia, forse. O, per mantenere dispettosamente la sua di intonazione. Si contrappone. Brechtianamente si estrania. Ma nello stesso tempo depensa. Esce dalla ragione di interprete. Si fa medium. Laura non credo lo sapesse (non faceva parte del suo bagaglio ) ma fanno lo stesso i cantanti di Druphad, l’antichissimo e straordinario canto sanscrito indiano. Riescono a giocare con la vibrazione molecolare della base uscendo e rientrando dalla consonanza e regolando in questo modo, tra intonazione e disintonazione, l’effetto drammatico della voce e, di conseguenza, il rilievo poetico della parola.

Laura era, da questo punto di vista, una sorta di modello originale e non aveva niente da invidiare, nell’essenza vocale, a Carmelo Bene, per esempio, e alla “carmelobenica” del tempo. Aggiungo, faceva istintivamente e con l’esperienza straordinaria che aveva, quel che altri coprivano, velavano, vestivano, machistamente, di superbe e fumose teorie prima di rivelarsi. La sua vocalità riusciva ad essere esibizione, aggressione e dall’altro interiorità manifestata: andava dall’interiore all’esteriore legando continuamente due esistenze. In questo senso, per dirla proprio alla Bene, Laura era il capolavoro. Così grossa e sformata ormai era una piccola Marilyn.

Nella seconda strofa si avvicina sempre più all’intonazione complessiva degli strumenti. Entra più dentro. Cessa di essere un altorilievo. E diventa soprattutto una voce ritmica. Il tutto dentro un normale parlato. Gioca naturalmente, al servizio dell’insieme e delle parole soprattutto, sul battere e levare, dialogando magistralmente con il basso e il pianoforte. Nelle sfumature dunque. In una condizione non assertiva. Per frammenti che sono piccole implosioni di jazz, webernismo, oral poetry. E’ straordinario infine come nella terza strofa faccia suo l’andamento swing del basso pur restando tranquillamente nel testo. In realtà, in apparente monotonia, Laura, sotto, canta continuamente qualcosa e in questo senso – rifacendomi a Paul Zunthor e il suo bel saggio “La presenza della voce “ – dico che la vocalità della Betti, in questo piccolo brano, è parola senza parole, ha un tratto sciamanico. Una voce che le parole vengono ad abitare, ma che veramente non parla e non pensa, ma ripercorre e fa sopravvivere la memoria della primaria mancanza sensoriale in ognuno di noi”.

foto di Roger Salloch

foto di Roger Salloch

Marilyn

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro i fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,

tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.

Il mondo te l’ha insegnata,
Così la tua bellezza divenne sua.

Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro
era rimasta sola la bellezza, e tu
te la sei portata dietro come un sorriso obbediente.
L’obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,
il darsi agli altri, troppi allegri sguardi
che chiedono la loro pietà! Così
ti sei portata via la tua bellezza.
Sparì come un pulviscolo d’oro.

Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.

E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci ragazze del tuo mondo…
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì come una colombella d’oro.
Il mondo te l’ha insegnata,
e così la tua bellezza non fu più bellezza.

Ma tu continuavi a essere bambina,
sciocca come l’antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal Potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca colomba d’oro.

La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne un male mortale.

Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte

versione della poesia tratta dal film La rabbia – I parte (1963), scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini;

Do you remember Marilyn? è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Bastava saperlo prima

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bd(Alberto Tonti – architetto, scrittore, critico, talent scout, persino cantante a Sanremo – ha conosciuto tutti nella vita. Sono anni che gli dico di scrivere un resoconto dettagliato dei suoi infiniti incontri, perché quando me li racconta al bar mi fa morire dal ridere. Dopo mia insistenza, a modo suo è uomo pudico, ha deciso di mantenere la promessa. Quello che vi pubblico oggi è il primo – e mi auguro non ultimo – di quelli che lui ha voluto chiamare Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Lo ringrazio fin d’ora e aspetto sue nuove a prestissimo. G.B.)

di Alberto Tonti

Primo tempo

Il concerto è finito da poco fra le migliaia di fiammelle tremolanti al vento della notte fredda, nonostante luglio. Grandi emozioni, brividi per tutti: finalmente è tornato quello di un tempo, quello che speravamo di ritrovare dopo la lunga sbandata durante la quale, come un qualsiasi suffragetto, non ha fatto altro che cantare le lodi al Signore, accanto a quattro sgarrambone di colore, manco fosse entrato a far parte di un coro invasato di una qualsiasi setta religiosa della Georgia o dell’Alabama. Ma amen tutto passato, stasera è stato grande, grandissimo e Milano per la prima volta lo ha accolto ed acclamato come merita.

Imbacuccato alla bene meglio, strisciando lentamente le suole mi avvicino intirizzito, ma soddisfatto, verso gli sfoghi delle uscite. Appena fuori dai cancelli di San Siro un oceano di auto mi costringe a slalom veloci alla volta della mia auto, posteggiata di traverso, proprio dietro alla bancarella puzzolente delle salsicce alla piastra. Una retromarcia furiosa, un paio di controsensi pirata, qualche colpo di clacson nervosetto e via, lontano dalla pazza folla, ottanta all’ora verso casa a preparare in fretta l’Evento, anche se non si tratta del Diluvio Universale, né tanto meno della consegna delle Tavole a Mosè (due fra i pochissimi accadimenti che possono a ragion veduta definirsi Eventi).

Se è OK, ti avverto per telefono” ha detto David Zard, prima di salutarmi nel backstage. Con i pochi prescelti che ho invitato a casa mia nell’attesa parliamo di tutto, mantenendo un contegno distratto, svogliato, quasi a nascondere la sottile eccitazione che aleggia nella stanza. Sul piatto del giradischi gira alla solita velocità un bel vinile di Ben E. King che canta Around The Corner, perché Stand By Me sa troppo di banale. La porta finestra che dà sul giardino è spalancata, il vicino di casa, anche se non fa caldo per niente, ha purtroppo riattivato il suo maledetto rumoroso condizionatore che scassa non poco i maroni. Il ghiaccio tintinna nei bicchieri lasciando scie oleose di bourbon, i portacenere in un’ora sono già pieni di cicche, la stanchezza e la strisciante delusione stanno prendendo tutti quando il telefono si mette a squillare: “Va bene, fra mezz’ora siamo lì…” “Giura!” dico. “Giuro!” risponde. Gli sguardi di tutti sono puntati su di me. “Vengono….viene…forse bisogna andare a comprare qualcosa, c’è poco da bere”.

Nel giro di venti minuti Elio Fiorucci, il grande, riesce a procurarsi una cassa di liquori, per lo più whisky, gin e Martini, una di coca-cola, una di aranciata, una di birra, più tre enormi pizze calde e profumate. Nessuno riesce a spiegarsi come abbia fatto, dato che è passata da un pezzo l’una di notte, ma il tempo per domandarglielo non c’è, tutto deve essere predisposto e in perfetto ordine per la visita.

Giusto perché non sto più nella pelle, mi metto alla finestra: lui non arriva scalzo, a dorso di asino, con un ramoscello d’olivo in mano, come qualcuno di noi ha fantasticato, ma seduto dentro una grossa Citroen nera. Il campanello vibra, scorgo attraverso la porta a vetri dell’ingresso la sua inconfondibile sagoma, la vista mi si annebbia, sbando di lato, giro la maniglia con la palma improvvisamente sudata e solo allora mi appare in tutto il suo splendore.

Alla classica frase di convenienza genere “nice to meet you” mi stringe debolmente la mano emanando un grugnito sordo, lo stesso fa con tutti gli altri che, nel frattempo, si sono avvicinati in estasi, sorridenti ed emozionati, per sincerarsi della sua reale presenza.

Non si toglie il cappello di paglia che gli incornicia i riccioli rossi-castani: indossa una camicia giavanese verde smeraldo, con palme gialle, aperta fino al penultimo bottone a mostrare un petto glabro, un pantalone in origine bianco e un paio di stivaletti crema di simil pelle, smangiati in punta, da cui sporgono calze da tennis slabbrate. La barba è del giorno prima o forse di più, gli occhi sono tristi e indagatori, l’incedere sospettoso.

Tanto per metterlo a proprio agio, conoscendo i suoi gusti (preparato sono preparato), sul grande tavolo, proprio sotto lo scaffale dei dischi, ho appoggiato in ordine sparso qualche LP degli Everly Brothers, quasi fossero lì per caso. La mossa si rivela quella giusta per rompere il ghiaccio, anche perché so perfettamente che una volta ebbe a dire “senza gli Everly non sarebbe esistito nessuno di noi”.

Lui si piazza seduto davanti al giradischi. Prende in mano il primo album, poi il secondo e il terzo, chiama a sé Mick Taylor, sì proprio lui l’ex chitarrista dei Rolling Stones assoldato per il tour, e comincia a parlottare. Poi fa segno, con l’unghia lunga listata a lutto, di procedere all’ascolto del Greatest Hits dei fratellini. Tramite il mio buon vecchio Thorens, obbedisco. Del resto non chiedo di meglio. Quando Bird Dog attacca, lui e Mick riprendono a mormorare robe sugli accordi, sugli arrangiamenti, sui riff di chitarra. Più volte mi fa capire di tornare indietro di qualche solco così che Taylor possa risentire un passaggio fondamentale mentre continua a mugugnare parole incomprensibili. Tornare indietro di qualche solco è in assoluto la cosa che so fare meglio nella vita, non ho fatto altro dai dodici anni in poi, con la puntina ci so fare. Lui sembra apprezzare. Tanto che ho la sensazione di cogliere persino un abbozzo di sorriso riconoscente, ma probabilmente vaneggio.

Nel frattempo, la maggior parte dei presenti assume un atteggiamento distratto, quasi che nulla di straordinario stia avvenendo in questa casa, a notte fonda, in una domenica di metà luglio, a Milano. Nessuno osa rivolgergli la parola o ha il coraggio di accennare una chiacchiera, una timida parvenza di battuta. Un continuo, febbrile movimento ci porta tutti fra la cucina e il soggiorno: un po’ per offrire da bere, un po’ perché pervasi dall’imbarazzo, un po’ perché proprio nessuno riesce a star fermo.

Lui non schioda le chiappe neppure per un istante, non rivolge verbo ad alcuno, su varie sollecitazioni di normale amministrazione tipo “vuoi un piatto di spaghetti o un pezzo di pizza?”, “vieni di là che c’è un juke-box con vecchi 45 giri!”, “vuoi uscire in giardino a prendere una boccata d’aria?”, reagisce solo con uno sguardo bicolore noia-disprezzo. Poi, finalmente, con accanto un fido galoppino, si muove lentamente verso la biblioteca, sbircia i testi sacri di rock and roll, si sofferma a lungo su qualche foto appoggiata alla costa dei libri, si immerge a decifrare i titoli col capo reclino e, d’un tratto, chiama a sé l’accompagnatore, gli bisbiglia qualcosa all’orecchio e l’ometto fa cenno di avvicinarmi.

Vuole sapere perché ci sono tutti questi libri sul Partito Comunista!” esclama, puntandomi addosso i suoi occhi acquosi e inquisitori.

Sono sulla storia del Partito Comunista Italiano, ci sono altri libri di storia qui, la storia mi interessa molto” affermo, recitando la parte di quello che, con orgoglio, difende la propria libertà intellettuale. Annuiscono entrambi brontolando qualcosa, ma certo la risposta non li ha soddisfatti per niente.

Cosa volete bere?” mi affretto a dire tanto per cambiar discorso. “What do you wanna drink” ripete l’ometto.

Brandy” biascica il maestro. Un dubbio atroce mi attraversa la mente per rivelarsi immediatamente realtà. “No brandy, sorry”, dico. “Vodka” sospira di rimando. “Neppure quella, sono veramente spiacente” replico. “Coffee” ruggisce. “Coffee, certamente si!” esclamo terrorizzato e, al contempo, sgravato da un peso insopportabile. Girando velocemente i tacchi, come appena fuori da un incubo mi affaccio in cucina per ordinare un espresso lungo in tazza grande. La richiesta cade come un fulmine a ciel sereno. “Da ieri la macchinetta è senza guarnizione” sentenzia la mia ragazza “verrà uno schifo! Ma chissenefrega tanto è americano, mica sa com’è fatto un buon caffè”.

Senza guarnizione, l’acqua bolle in un attimo e tocca a me tornare da lui, appoggiargli delicatamente una mano sulla spalla e domandargli con fare cameratesco: “Quanto zucchero, Bob?”. Alzando due dita come Churchill, per la prima e ultima volta mi dice: “Thank you”.

Solo in quell’istante mi rendo conto che non gli si può stare vicino, è come se non avesse fatto la doccia da quando ha deciso di passare dall’acustico all’elettrico e sono passati un bel po’ di anni. Oltre a tutto non sorride mai, non si capisce se si rompe le palle, se si sta rilassando, se odia o, al massimo, sopporta la situazione, insomma un mezzo disastro.

Ciononostante mi rendo conto che sto parlando col signor Zimmerman in persona, che gli ho toccato una spalla, che ho quasi chiacchierato con lui di politica, che mi ha risposto a monosillabi ma mi ha risposto, che sono soddisfatto del mio scarso inglese e, soprattutto, che sia stato ad un palmo da me per almeno un’ora e mezza.

L’odore del mito resta impregnato nell’imbottitura per almeno un paio di giorni poi, dato che non va via, decido di porre rimedio interpellando il tappezziere al quale, comunque, chiedo di aggiungere una piccola targa. Adesso sulla spalliera della poltroncina che ha accolto le sue natiche c’è scritto: “Qui si è seduto Bob Dylan”.

Secondo tempo

Passano alcuni anni e Bob torna a Milano, stavolta all’Arena. Il solito Zard mi propone un altro dopo concerto. Memore di quanto mi è costato il tappezziere organizzo, in fretta e furia, una bella cena in una ricca casa di un ricco editore.

Verso la solita una di notte, arriva. E’ vestito come l’altra volta e non si è mai neppure lavato dall’altra volta.

Al suo passaggio gli invitati si aprono come le acque del Mar Rosso, tutti gli sorridono quasi accennando un inchino come se fosse la Madonna di Lourdes o la Regina Elisabetta. Lui si piazza direttamente a tavola, a capo tavola. Fa un cenno al solito galoppino per far capire che ha fame, quindi che si dia inizio alle portate.

Stavolta si svolge tutto in maniera più veloce e molto più irritante: non apre bocca se non per infilarci porzioni esagerate di cibo, grugnisce saltuariamente qualcosa, qualcuno interpreta quei suoni come continui apprezzamenti ma io, conoscendo my chicken, ne dubito.

Quelle poche volte che qualche intrepido gli rivolge la parola, continuando a masticare, lo fissa come se gli avesse chiesto un prestito.

Arrivati alla frutta, purtroppo, mi scappa di chiedergli se desidera qualcos’altro: mi risponde secco “yes, a taxi!”.

Per quanto mi riguarda è fin troppo, mi trattengo dal mandarlo a fare in culo, anche perché come potrebbe mai un povero fan come me mandare a quel paese un genio come lui? Eppure sfioro l’incidente diplomatico. La padrona di casa se ne accorge e con estrema gentilezza, prima che Mr. Tambourine Man si allontani definitivamente dalla nostra vista e dal nostro olfatto oltraggiato, gli fa persino omaggio di una splendida stampa antica, che viene immediatamente agguantata senza cenno di ringraziamento.

Solo qualche settimana dopo mi capita di leggere su un mensile musicale una sua intervista: “Non voglio mai incontrare chi mi adora, loro sanno tutto di me e io non so niente di loro. Loro sono cresciuti con me. Ma io sono un estraneo.”

Bastava saperlo prima.

Bastava saperlo prima è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

GERMAINE TILLION “Le Verfügbar aux Enfers” Ravensbrück [inverno 1944-1945]

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[ per i sottotitoli click on sub ]
da Germaine Tillion à Ravensbrück
di David Unger [2008]

di Orsola Puecher

Germaine Tillion in Algeria

Germaine Tillion in Algeria

Germaine Tillion [ Allègre, 30 maggio 1907 – Saint-Mandé, 19 aprile 2008 ] lavora come etnologa nel Sud dall’Algeria fra il 1934 e il 1940. Tornata in Francia si impegna subito fra le file della Resistenza. Arrestata nel 1942, deportata a Ravensbrück nel ’43, ne uscirà dopo la liberazione del campo nell’Aprile del ’45. Proseguirà poi i suoi studi e le spedizioni in Africa del Nord e in Medio Oriente come Direttrice dell’École pratique des hautes études, impegnandosi nella conservazionde della memoria dei crimini del Nazifascismo, contro la guerra d’Algeria e per i diritti delle donne. Nella parabola della sua lunga vita attraversa i drammi del ‘900 da lucida e razionale testimone della storia del secolo, perché “fare uso della ragione umana è qualcosa che è un bisogno, ma un bisogno è una forza“. Alla razionalità intellettuale unisce una visione ironica delle cose, uno humor imprescindibile, che le scintilla acuto nello sguardo e nel sorriso: “anche nelle situazioni più tragiche, si può ridere fino all’ultimo minuto. E’ un elemento rivivificante“. germaine tillion Come nelle due curiose fotografie che la ritraggono bambina, ma abbigliata da accademica in erba, in toga e tocco con un gran librone davanti, Germaine sa inforcare gli occhiali analitici e le lenti della ragione, ma senza perdere mai quel sorriso, ancora uguale dopo quasi 100 anni, che le solleva gli angoli della bocca e le fa brillare gli occhi all’idea che il venerdì 13, data del suo arresto, sarebbe per antonomasia “un giorno che porta fortuna” e che “oggi dio è buono con i coccodrilli“, come nella storiella comica che le viene in mente in quel momento drammatico, in cui due africani sono incerti se attraversare il fiume Niger infestato di coccodrilli, nel dubbio se, dato che “Dio è buono”, buono lo possa essere con loro, permettendogli di arrivare sani e salvi sull’altra riva, o invece non lo possa magari essere con le bestiacce, lasciando che li divorino, mentre nuotano.
1940 Germaine con la madre Émilie Cussac

1940 Germaine con la madre Émilie Cussac

A Ravensbrück il 30 gennaio 1944 sarà internata anche la madre di Germaine Émilie Cussac [1876-1945], scrittrice, storica dell’arte, redattrice con il marito Lucien Tillion [1867-1925], giudice di pace, di alcune Guides bleus per l’editore Hachette. Verrà uccisa con il gas il 2 marzo 1945 perché anziana e inadatta al lavoro. Il campo di Ravensbrück, costruito nel 1938 per ordine del Reichsführer delle SS Heinrich Himmler a 90 km da Berlino, vicino al lago Fürstenberg/Havel, sulle rive malsane di una palude, era un campo di concentramento solo femminile, con prevalenza di detenute politiche, i triangoli rossi; non ci furono camere a gas fino al gennaio del 1945, c’era solo un forno crematorio, un secondo viene costruito alla fine del ’44. Le internate lavoravano per la Siemens, per una fabbrica tessile, c’era una sartoria, un laboratorio di calzoleria, di pellicceria. Molte venivano mandate in altri campi, laddove occorreva mano d’opera. Tante donne arrivavano con i loro bambini, eliminati subito o morti in breve tempo per inedia, o incinte, costrette ad abortire, o ad assistere all’annegamento dei neonati, in un secchio, subito dopo il parto. Nella Revier, l’infermeria, si curavano solo le più giovani e robuste per rimandarle al lavoro. Su alcune soprannominate Kaninchen, le conigliette [da laboratorio] venivano praticati terribili e spesso mortali esperimenti “scientifici”, inoculando in ferite procurate chirurgicamente sulle gambe i germi della cancrena gasssosa, con il pretesto di trovare una cura per i soldati feriti al fronte.
 

Quel mondo di orrore ci appariva anche come un mondo di incoerenza, più terrificante delle visioni di Dante e più assurdo del gioco dell’oca.

Germaine Tillion
Ravensbrück
[Édition du Seuil, 1972, 1988]
Fazi Editore [2012]
[pag. 274]

 
Ma fin dai primi momenti, superata la sensazione di morte e il terrore per questa specie di altro mondo incomprensibile, Germaine Tillion indaga sul funzionamento del campo, riuscendo a individuare il meccanismo economico in atto, “perché il fatto di comprendere un sistema, anche un sistema che vi schiaccia” è una forma di resistenza morale e spirituale.
 

Comprendere un meccanismo che vi schiaccia, dimostrarne razionalmente gli ingranaggi, rappresentarsi nel dettaglio una situazione apparentemente disperata, aiuta moltissimo a trovare sangue freddo, serenità e forza d’animo. Niente è più spaventoso dell’assurdo. Con questa caccia ai fantasmi sapevo di aiutare moralmente le migliori di noi.

[ibidem pag. 193]

 
Le “esecuzioni economiche (gente sfinita a morte dal lavoro per la Germania“, si affiancano e si sovrappongono alle “esecuzioni politiche (nemici della Germania)“.
 

Un certo proprietario di terreni incolti di nome Himmler rendeva a un tal Himmler, capo della polizia, il servizio di liberarlo definitivamente dai suoi nemici. In cambio, l’Himmler capo della polizia forniva, a tempo indefinito, all’Himmler proprietario dei bei dividendi sotto forma di bestiame umano, per sostituire quello che lui consumava a ritmo accelerato. Che meraviglioso utilizzo di terreni incolti e paludosi per un capitalista: dove non cresce niente basta installare un campo di concentramento ed ecco una vera e propria miniera d’oro!

[ibidem pag.191]

 
E l’analisi del meccanismo diventa anche strumento di verità e di memoria per il futuro.
 

Poi c’era la nostra indignazione, l’ardente desiderio che essa ci sopravvivesse, che una tale mole di crimini non diventasse un “crimine perfetto”. Era già piuttosto chiaro che ben poche di noi sarebbero sopravvissute. Questo pensiero della verità da salvare mi ha ossessionata fin dal giorno del mio arrivo a Ravensbrück.

[ibidem pag.193]

 
E Germaine sopravvive.
 

Se sono sopravvissuta lo devo soprattutto al caso, poi alla rabbia, alla volontà di rivelare quei crimini e infine, all’impegno delle mie amiche, perché avevo perso la voglia di vivere.

[ibidem pag.25]

 
All’inizio dell’Aprile del ’45 300 francesi vengono evacuate dalla Croce Rossa internazionale, ma le prigioniere NN, Nacht und Nebel, come Germaine ne sono escluse. Tuttavia un po’ più avanti, in seguito a dei negoziati fra il diplomatico svedese Folke Bernadotte e Heinrich Himmler, nel suo delirante progetto di sopravvivere a Hitler trattando la resa, fu permesso a un altro gruppo di detenute francesi, di cui Germaine questa volta fece parte, di essere evacuate dalla Croce Rossa svedese.
 

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Il 24 Aprile, su dei pullman bianchi furono condotte a Padborg in Danimarca e poi in ospedale a Göteborg, fra ali di folla festante.
Nel dopo guerra Germaine Tillion inizia a scrivere le sue testimonianze. Viene scelta dalle associazioni delle deportate francesi per assistere, come unica osservatrice consentita dal tribunale inglese, al primo processo sul campo di Ravensbrück, che ha luogo ad Amburgo nel Dicembre 1946.
 
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Durante le sospensioni delle sedute, la sala si svuotava, e io restavo a guardarli in silenzio, sopraffatta dal dolore di fronte a quegli esseri che avevano fatto tanto male e che ora, allineati a qualche metro da me, dovevano rispondere di quelle migliaia di assassinii, compiuti a sangue freddo su delle donne indifese.
[…]
Si può chiamare odio quel dolore cupo, troppo accorto per non includere una straziante compassione?
[…]
Loro erano lì, ben vestiti, curati, puliti: dignitosi. Un dentista, dei medici, un ex tipografo, delle infermirere, qualche modesto impiegato. Nessun precedente penale, studi normali, infanzia normale…
Gente comune.

[ibidem pag.124-125]

 
Nella fretta della partenza dal campo Germaine dimentica un piccolo libretto un po’ squinternato, non rilegato, vergato con una bella scrittura regolare, metodica e ordinata.
 
le verfugbar aux enfers

[ disegno di France Audoul ]

 
Un’amica lo trova e riesce a riportarglielo. Lei lo chiude in un cassetto. E là resterà dimenticato fino alla terza edizione di Ravensbrück, nel 1988, in cui sono riportati alcuni stralci. E’ il manoscritto di Le Verfügbar aux Enfers, la piccola operette revue scritta da Germaine nell’Inverno 1944-1945, nascosta in una cassa da imballaggio di cartone dello scalo merci del campo, con la carta e le penne rubate da un’amica che lavorava negli uffici amministrativi. Tre atti, il terzo rimasto incompiuto, che descrivono con graffiante ironia, spesso vero e proprio humor nero e con un’epica vagamente brechtiana, la vita delle Verfügbar, le “disponibili”, l’ultimo gradino delle lavoratrici del campo, che, nascondendosi dopo l’appello, non venivano inviate ai vari laboratori, ma restavano disponibili per i lavori più umili e pesanti di scavo, sterro, spianamento con un rullo delle strade, pulizia delle latrine. Faticavano al freddo per dodici ore, con l’orgoglio di non prestare la loro opera al Reich, alle sue merci e ai suoi commerci. Una durissima forma di segreta protesta e di sabotaggio. Il soggetto dell’operetta è un ipotetico Naturalista che descrive in una specie di conferenza scientifica l’animale Verfügbar, la sua fisiologia, la sua vita, i suoi usi e costumi, il tutto alternato a canzoni sulla musica di arie d’opera e operetta, motivi famosi negli anni ’30, da Strauss a Bizet, da J’ai perdu mon Euridice di Gluck, alla Chanson triste di Duparc, le Roy d’Is di Lalo, Ciboulette di Hahn, ma con altre parole, frutto spesso di un’ opera poetica collettiva. Con il vantaggio di poter esser cantate durante le marce, o il lavoro, senza che SS e sorveglianti ne capissero i testi in francese, pesantemente accusatori e antinazisti. La piccola opera non verrà mai rappresentata, ma passa di mano in mano clandestinamente. Si cantano le sue canzoni. Viene letta in segreto alla sera nelle baracche, con la compiacenza di qualche capo blocco. La sola forza delle parole riesce a evocare immagini e sogni in un luogo che voleva togliere ogni possibilità di sognare immagini e parole. Il piccolo libro di Germaine porta avanti la sua missione dissacratoria e vivificante, per contrastare la tendenza ad assopire il proprio spirito fino ad accelerare la morte del corpo. “Ridevamo… ridevamo.“, ricorda Germaine. Ridevano di loro stesse, della magrezza, della fame, della nostalgia della vita di prima, della paura della morte e delle botte, della ottusa cattiveria dei loro carnefici. Ridevano catarticamente per uccidere di risate la paura e la morte. Un po’ come fu con ⇨ Brundibár di Hans Krása nel campo di Terezin.

In questi ultimi anni Le Verfügbar aux Enfers è stata rappresentata in Francia in molte versioni, ⇨ qui una integrale a Nantes, ma ho scelto di proporre alcuni estratti di una messa in scena della regista Danielle Stéfan, che mi è sembrata molto fedele allo spirito del testo, musicalmente semplice con pochi strumenti, non orchestrale. Una grande lavagna nera sullo sfondo raccoglie frammenti di testo e di voci, di segni. Il Naturalsita è interpretato da una delle deportate, come avrebbe potuto verosimilmente essere, il gruppo delle donne raggiunge una coralità molto intensa. I momenti di umorismo e di commozione compongono un mosaico indivisibile. E’difficile rappresentare cinematograficamente o teatralmente un campo di concentramento, il rischio della retorica, di un certo fastidioso bozzettismo stereotipato, dell’estetica del dolore e di una visione edulcorata sono sempre in agguato.

Ho tradotto le scene dal testo Germaine Tillion Une operette a Ravensbrück Édition de la Martiniere [2005], che, con alcune piccole varianti, sono riscontrabili nello spettacolo teatrale.

Non ci sono troppe parole in più da dire di fronte a queste scene, di fronte a “Mi hanndo detto che bisogna resistere“, cantata del Coro delle giovani e delle vecchie Verfügbar, ascoltando la canzone siparietto da rivista delle Nacht und Nebel, o il commovente canto della Speranza che brilla in segreto nel cuore di Marguerite, o la lunga rabelaisiana lista di pietanze solo immaginate della gita gastronomica, o l’assalto del dolore dei ricordi della vita di prima con la certezza autoillusoria di tornare presto a casa. L’universo concentrazionario acquista nuove sfacettature della sua complessità istituzionale, ma soprattutto di quella umana, perché non si allontani nella tenebra della Storia e del Tempo che sfugge via la memoria della sofferenza di ogni singola voce e del suo sacrificio. Queste donne sono ancora qui con noi. La forza di questo testo così raro e inconsueto riprende vita in ogni singola parola e nota, lasciando al sorriso, certo molto amaro, il compito di asciugare le lacrime.
 

Quando l’ultimo campo di concentramento tedesco ha aperto le sue porte, quell'”altro mondo” ha cessato di ergersi fisicamente nello spazio reale per porsi tra i fantasmi della “dimensione storica”, ma li raggiungeva senza bagagli, nudo come i suoi morti.

[ibidem pag.274-275]

 


 
Le Verfügbar aux enfers 1
Germaine Tillion
UNE OPERÉTTE A RAVENSBRÜCK
Edition de la Martinière [2005]

 
Atto I Primavera [pag. 36-38]
Il naturalista Vi presento Nénette, giovane Verfügbar, dell’età di quindici giorni… Che cosa facevi nella tua vita precedente?
Nénette Ero presidente di una filiale della Società Protettrice degli Animali, per la Liberazione dei Canarini…
Il naturalista Ed è per questo che sei qui?
Nénette Ho anche una marito che è stato generale di divisione…
Il naturalista Questa, è una ragione…
Nénette Questa è la ragione… la sola ragione. [Pausa] Infine… resti del tutto fra di noi. [Canta]

[opera collettiva]
Avevo una grande casa, 2
dove nascondevo senza precauzione,
ebrei dai nasi troppo lunghi,
e gente di tutte le condizioni…
C’erano anche delle armi
cadute per caso da un aereo…
Non sapevo che cose ne sarebbe derivato…
E’ forse per questo che sono qui…

[Va a prendere per mano Lise. 25 anni, alta, bionda]
Facevi una vita da vagabonda
tre volte al giorno cambiando nome,
annotando senza permesso
falsi documenti e biglietti
ornatii di belle fototessere
per gente senza fissa dimora…
Ma tutto andava di male in peggio…
E’ forse per questo che tu sei qui…

[Entrambe si voltano verso Titine, 40 anni,
bruna, aveva un piccolo caffé vicino a Perpignon
]
Lei portava al di là dei monti
dei giovani ragazzi rudi e buoni
che sfuggivano agli ordini teutonici
per non costruire armi.
Dividevano anche la loro razione
di pane bigio e salsiccia…
Lei non diceva nulla a suo marito…
E’ per questo forse che è qui.

[Tutte e tre si girano verso il coro.]
Voi facevate per dei birboni
una quantità di commissioni.
Passavate i vostri migliori filoni
a degli eroi senza pretese,
che facevano saltare dei camion
dei piloni e delle stazioni…
Un giorno il colpo non è partito…
E’ forse per questo che voi siete qui.

[Il resto del coro viene in avanti e canta.]
Andavamo da Nantes a Mentone
per un messaggio di Londra…
Fornivamo di grossi cannoni
i partigiani in rivoluzione,
di plastico e grafite
che facevano saltare mucchi di case
Noi ci dicevamo “occhio non vede, cuore non duole”…
E’ forse per questo che siamo qui.

 


 
Atto I Primavera [pag. 43-46]
 
Il naturalista Nel secondo periodo della sua vita, detto multicellulare (vale a dire, intendiamoci, molti corpuscoli per una cellula e non molte cellule per un corpuscolo), i segnali di intelligenza aumentano: gioca a briscola, comunica con l’esterno e migliora sensibilmente la sua alimentazione, fino ad allora costituita principalmente da torsoli di cavolo e semi di zucca…
Arriviamo al terzo e ultimo periodo, Romanvillese e Compiegnuanese. Nel corso di questo periodo (per altro facoltativo) l’animale dà dei segni di gaiezza, di socialità, dimostra un certo gusto per i colori chiari, i pigiama fantasia e anche talvolta ingrassa (fatto che merita di essere menzionato).
Questo periodo è interrotto brutalmente dall’agitazione prenatale, che comincia con un appello generale e numerosi insulti…

Coro delle giovani Verfügbar. [Cantano.] 3
Mi hanno detto “bisogna resistere”…
Ho detto “sì” quasi senza pensare…
E’ così che su un treno della linea del Nord,
Mi hanno caricata, guardata a vista, e senza fatica,
E quando il treno si è fermato,
non mi hanno chiesto il biglietto…
Ma malgrado il piacere delle novità
avrei proprio voluto scappare…

 
Coro delle vecchie.
Ascolta! Giovane Verfügbar,
l’aria che i prigionieri
cantano sulla strada…
E’ su quest’aria, vedi,
che tu mi sei apparsa…
La notte cade già
soffocando i tuoi passi sul suolo ghiacciato.
Cani e guardiani abbaiano.

 
Coro delle giovani.
Mi hanno detto… non mi hanno detto niente.
E non ho potuto nemmeno dire sì.
Attonita e pesta, uscendo dal furgone,
ho sentito per prima cosa degli insulti..
Ho visto poi i nostri guardiani,
avevano dei frustini in mano…
Malgrado la differenza dei vocabolari,
ho capito subito cosa ci vorrebbero fare!

 
Coro delle vecchie.
In una grande sala ghiacciata,
ti hanno spogliata,
poi ti hanno dato un numero…
Poi ti hanno fatto star ferma
per ben acclimatarti,
eppure non hai pianto…

 
Coro delle giovani.
Per prima cosa hanno preso i gioielli,
la valigia e la borsa di cuoio rosso,
le piccole provviste, il pezzetto di salsiccia,
la camicia e i pantaloni…
Credevo che mi avessero preso tutto,
e speravo che fosse finita…
come un bambino neonato mi hanno spogliato
ed è allora che mi hanno rasato!

 
Coro delle vecchie.
Hanno preso i tuoi capelli
per legare mozzi,
lavorerai,
non mangerai…
Quando non ce la farai più,
ti finiranno,
ti bruceranno.
E il tuo grasso ancora servirà…

 


 
Atto I Primavera [pag. 69-70]
 
Il naturalista Dal punto di vista giuridico e amministrativo, la situazione della Verfügbar è tutto tranne che chiara.
Un triangolo nero [con accento marcato] Lavora, los, schnell, aufzehrin…
Il coro [con disinvoltura]… me ne frego.
Triangolo Nero Ti mandiamo ai trasporti….
Il coro [con aria decisa] Io non parto con i trasporti.
Triangolo nero [impressionata] Perché?
Il coro Perché sono del blocco 32…
Triangolo Nero Perché sei del blocco 32?
Il coro Perché sono N N:
Triangolo nero Cosa vuol dire N N?
Il coro Vuol dire che non parto con i trasporti.
Triangolo nero Ma perché sei N N?
Il coro Perché sono del blocco 32. [grande silenzio meditativo]
Triangolo nero N N questo vuol dire sicuramente qualcosa…
Il coro Certo… Vuol dire Nacht und Nebel, notte e nebbia…
Il coro [canta]

Non sappiamo cosa pensare 4
Non sappiamo cosa dire
Il segreto della nostra esistenza
La Gestapo non l’ha svelato…

 


 
Atto I Primavera [pag. 70-72]
 
Il naturalista La Verfügbar da prova di una grande ingegnosità per la trasformazione e l’utilizzazione di tutto ciò che le capita sotto mano. La famosa canzone ben conosciuta dai letterati:

Ho un cane che urla tutto il tempo 5
e una donna che fa altrettanto.
Amo la strada e il Cordon Bleu

E’ stata certamente scritta per un lontano antenato della Verfügbar, che riesce a procurarsi al Bekleidung, il piatto piano e l’attizzatoio necessari per l’igiene…

Per lavarmi le zampe
Non ho che un piatto piano.
Mi pettino con un attizzatoio.
Mi lavo la faccia quando piove.

Bene…. cantiamo…

Che m’importa! Io sono elegante!
Ho un bastone; oui, Madame !
Che m’importa! Io sono elegante!
Ho un bastone e dei guanti

Oltre allo spirito organizzativo di cui arriveremo a parlare la Verfügbar non ha che tre risorse fisse…
Nénette …la sveltezza, la furbizia
Il Naturalista… e l’appello delle carte rosa…
Il coro Non dimenticate qualcosa signor naturalista…
Il naturalista [con aria di superiorità.] Non è mia abitudine… di che cosa si tratta?
Il coro Indovinate, signor naturalista…
Il naturalista Vediamo un po’… è grosso, è pesante… aiutatemi…
Il coro E’ molto grosso, molto grande e non occupa alcun posto… ed è leggero, leggero, leggero come una Verfügbar a cui non resta che un “giorno-sindaco”…

Marguerite [Si alza e canta.]
Nel mio cuore c’è una stella 6
che mi inonda con i suoi raggi
e brilla nei miei occhi pallidi,
e risplende sotto i miei stracci…
I grandi muri allora spariscono,
il mio paese mi appare all’improvviso
sotto il suo bel cielo pieno di tenerezza…
I suoi baci saranno per l’indomani,
e’ la Speranza che la mia anima nasconde,
sfidando i mostri infernali,
sorride quando la loro voce è infuriata…
sotto il frustino,
e sotto la sferza si leva più in alto…
 
Un canto molto dolce, pieno di allegria,
sale dal mio corpo smagrito.
Dolce Speranza
calma il mio sconforto
sempre così pesante sotto questo cielo grigio!

 


 
Atto II Estate [pag. 88-93]
 
Titine Ho fame!
Nénette Anch’io…
Havas Bene! Andiamo a pranzo? Tocca a te Titine…
Titine Eravamo ad Avignone…
Rosine Partivamo in auto al mattino, non troppo tardi…
Marmotte Nemmeno troppo presto… le levatacce tremando e le corsette notturne nella notte livida sono finite, finite… Non prenderò mai più un treno di mattina e se non ce ne sarà che uno al giorno, resterò a casa…
Rosine Partiamo in auto, al mattino non troppo presto…
Marmotte Va bene!
Rosine Verso mezzogiorno arriviamo a Gordes per pranzo…
Marmotte No, verso le undici…
Rosine Perché le undici?
Marmotte Ho fame e mi annoia aspettare fino a mezzogiorno per mangiare…Visto che sono libera, avrò ben il diritto di pranzare alle undici, mi sembra?
Rosine [Molto conciliante] Ma tu non avrai fame prima. Ti ricordi che hai fatto colazione da Dédé di Avignone che ti ha offerto una enorme scodella di cioccolata, con burro, pane abbrustolito, biscotti alla marmellata e un plum cake…
Marmotte [vacillando] Credi?
Rosine [con fermezza] Ne sono sicura!
Marmotte Allora alle 11 e mezza…
Rosine Ve bene. La specialità di Gordes è la selvaggina. Ordineremo pernice arrostita su canapé di pane al burro, paté di lepre con insalata, e un sufflé alla marmellata…
Marmotte Come? Niente entré, niente antipasto? E il pesce? E la verdura?
Rosine Questa non è la specialità di Gordes… se vuoi puoi prendere degli champignon alla greca come entré…
Havas Questo sarebbe piuttosto un antipasto…
Marmotte Per una volta passi; con una bella insalata di pomodori e cetrioli, per finire un formaggino di capra… E come vino?
Il coro [in coro] Châteauneuf-du-Pape…
Marmotte Ma l’abbiamo già bevuto ieri…
Rosine Appunto, ci abbiamo preso gusto.
Marmotte E dopo?
Rosine [cantando.]

1. Abbiamo fatto buon viaggio, 7
Disdegnando auto e treni,
Un tubo come unico bagaglio,
sempre verso ovest, viaggiamo…

Abbiamo degustato
del burro e del paté,
della panna di Normandia,
e del formaggio a Brie…
A Riec assaporato
Molluschi e ostriche belon
Benedicendo Mélanie
e la sua tavola ben imbandita…

2) Abbiamo fatto un bel viaggio,
fermandoci a ogni piè sospinto,
e gustando in ogni villaggio
del buon vino e dei buoni pasti…

Mangiammo con gioia
il fois gras di Strasburgo
e quello d’Aquitania,
poi la quiche lorraine…
sulla costa atlantica,
abbiamo cenato con l’astice…
Il Riesling rende poetici
al Trois-Tetes, a Colmar…

3. Abbiamo fatto un bel viaggio
in tutti i graziosi angoli della Francia…
IL sorriso su tutti i visi
facendo gioiosamente bisboccia…

Abbiamo degustato
Tutte le specialità:
A Vire il salame,
a Nizza la ratatouille
a Aix i calisson
A Lione il salsiccione
Madleinette a Commercy,
Bergamotti a Nancy…

4. Abbiamo fatto un bel viaggio
folleggiando nei dintorni,
riparandoci all’ombra
sognando dall’alba al tramonto…

Con del Romanée
abbiamo pranzato
con lesso alla bourguignonne
prosciutto di Bayonne
gratin dauphinois
e polli di Bresse,
oche di Rouen,
prugne di Agen.

5. Abbiamo fatto un bel viaggio
sedute al bordo dell’acqua
ascoltando sotto il verde fogliame
il vento frusciare fra le rose.

Gustando presso l’Admiral
il suo pomodoro provenzale,
A Bar le marmellate,
All’Aisne una frittura,
la trota in riva al Gave
e del miele a Uriage,
champagne a Èpernay
vino rosso a Bordelais

6. Abbiamo fatto un bel viaggio
visitando città e musei…
e lasciando l’auto in garage,
per le strade abbiamo bighellonato.

Abbiano assaporato
gallette imburrate
e sidro schiumante
molto famoso ad Haras …
abbiamo paragonato
senza poterci pronunciare
l’acqua vite di Cognac
e quella d’Armagnac…

 


 
Atto II Estate [pag. 102-105]

 
Nénette Rosine cantaci qualcosa…
Rosine Non ne ho cuore…
[Silenzio.]
Lulu de Belleville Ho sognato di mamma stanotte…
Bébé Ero nel giardino di mio nonno. Raccoglievo delle prugne…. Quando mi sono svegliata e mi sono vista qui, non ho potuto impedirmi di piangere…
Havas Ho visto bene che avevi una faccia strana stamattina…
Marmotte E’ sempre al risveglio che è più dura…
Havas Si è tutte rammollite dalla notte, si è ritrovata la propria anima di prima e si vedono con i nostri veri occhi tutti gli orrori del campo… e poi in fretta si ritrova la propria corazza…
Lulu de Colmar Bisogna sempre tenerla sotto mano…
Lulu de Belleville Io no mi abituerò mai.
Havas Non bisogna abituarsi. Abituarsi è accettare. Noi non accettiamo, noi subiamo…
Lulu de Belleville Non avrei mai creduto di rimpiangere la prigione.
Marmotte E’strano: per le cose veramente terribili non si piange.
Lulu de Belleville Quando mi hanno arrestata, non ho versato una lacrima e quando mi hanno interrogata nemmeno…
Nénette Ti hanno picchiata?
Lulu de Belleville Eccome! Botte, non il bagno… Ma ho dovuto lo stesso passare tre mesi in infermeria, dopo. Hanno arrestato Papà, ma non mamma. Era nel ’41. Nel ’43 l’avranno arrestata, e forse anche il mio fratellino, che ha 6 anni…
Nénette Quando mi hanno detto che mio figlio era stato fucilato, non sono riuscita a piangere. E’ 6 mesi dopo quando ho riconosciuto la sua scrittura sull’etichetta del mio pacco, a Fresnes quando ho capito che era vivo e libero… non ho potuto più fermarmi.
Lulu de Belleville Un giorno alla Siemens, ho pronunciato il nome del più piccolo dei miei fratelli, così, senza pensarci…. Mi sono messa a piangere, non riuscivo più a fermarmi…
Titine Dite, signora Nénette, saremo a casa per Natale?
Nénette Ma naturalmente!
Hava Di quale anno?
Titine Non si deve scherzare su questo.
Havas Nel ’42, già, eravamo così sicure a Fresnes…
Marmotte Com’è lunga!
Titine Ma cosa fanno gli Americani! Ma cos’è che fanno? Che mi venga un colpo… metterci tutto questo tempo…
Lulu de Belleville Se mai avessi un innamorato a New York, sta sicura che non gli darei un appuntamento davanti a una stazione del metrò… Ne ho abbastanza di stare in piedi!
Nénette In una sala da tè ben riscaldata, con una bella poltrona, del porto e un mucchio di piccoli pasticcini…
Lulu de Belleville Preferisco quelli grossi!
Nénette Dovrai spiegarlo al tuo americano…
Havas La conversazione devia…
Marmotte E’ sempre così…
Titine E’ troppo dura; siamo stanche dopo tutto…
Bébé Voglio la mamma…
Marmotte Avrai la tua mamma… Ancora un po’ di pazienza…
Bébé Ma quando? Prima di Natale?
Havas Certo! Che domanda! Torneremo a casa l’11 novembre…
Titine Se me lo dici tu, ci credo.


 
*Le immagini di Germaine Tillion sono state prese dal sito ⇨ www.germaine-tillion.org, la pagina del manoscritto da ⇨ http://bpsgm.fr/temoignage-jacqueline-hourcabie/, i footage dal documentario ⇨ Ravensbrück Concentration Camp.
 

NOTE

 

  1. Une opérette à Ravensbrück, le verfügbar aux enfers
    Marseille [France]: le Gyptis – 08-02-2011
    regia di Danielle Stéfan
    arrangiamento musicale Alain Aubis
    scene di Christian Geschvindermann
    costumi di Virginie Breger
    luci di Nanouk Marty
    coproduzione Femmes et Résistance, Théâtre Gyptis à Marseille, Théâtre Antoine Vitez d’Aix-en-Provence… [et al.] ; con le cantanti Amandine Buixeda, Alice Mora, Murielle Tomao… [et al.]
    con Magali Braconnot [violino] e Aurélie Lombard [fisarmonica]
  2. cantata sulla scala diatonica e poi sull’aria della Carmen di Bizet ⇨ L’amour est un oiseau rebelle
  3. sull’aria della canzone ⇨ Sans y penser
  4. sull’aria ⇨ Je ne suis pas ce que l’on pense, je ne suis pas ce que l’on dit dall’operetta Trois Valsee di Oscar Strauss
  5. sull’aria della canzone ⇨ Un canne e des gants
  6. sull’aria di ⇨ Dans ton coeur dort un claire de lune di Duparc
  7. sull’aria ⇨ Nous avons fait un beau voyage da Ciboulette di Reynaldo Hahn

GERMAINE TILLION “Le Verfügbar aux Enfers” Ravensbrück [inverno 1944-1945] è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Due calci al pallone

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palloni_calcio(il più breve, e a modo suo malinconico, fra gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi raccontati fin’ora. G.B.)

di Alberto Tonti

Quando entro da Mauro il Bolognese sono già tutti a tavola da una buona mezz’ora. Le proteste per il ritardo si sprecano, mi giustifico raccontando che la riunione a Torino è durata più del previsto, che sull’autostrada c’era traffico, che ci ho messo venti minuti a trovare parcheggio, ma nessuno ci crede. Occupo la sedia vuota e ordino tortellini al ragù, una coca cola e, in attesa del primo, un po’ di mortadella a tocchetti.

Laura mi presenta un paio di sue amiche senza ricordarsi che una già la conosco: molto affascinante ma anche molto sprucida ( se volessi usare un termine del lessico personale) scostante per farmi comprendere meglio. Purtroppo il posto libero che ho occupato è quello accanto a lei e la cosa mi mette di cattivo umore.

Beh, almeno racconta cosa ci facevi a Torino.”

E’ lei che, sorridendo amabilmente, mi rivolge per prima la parola. Mi meraviglio per due motivi: il fatto che abbia aperto bocca e che, rispetto al nostro unico incontro, il suo atteggiamento sia esattamente l’opposto.

Quando non mastico, fra un boccone di pane e uno di mortadella, spiego in sintesi cosa ci faccio a Torino e tento di cambiar discorso, ma lei incalza e, sempre con un delizioso sorriso, mi invita ad approfondire perché dice: “mi interessa.”

Tiro un lungo sgarbato sospiro e racconto tutto nei minimi particolari e, alla fine, mentre loro sono già alla frutta, mi avvento sui tortellini. I discorsi a tavola si intrecciano e scopro lentamente che la signorina non è affatto indisponente e, soprattutto, mi guarda come raramente qualcuna mi ha guardato.

Che bello l’orologio che hai al polso, cos’è? Posso vederlo?” mi dice sfiorandomi la mano.

E’ un Citizen, tutta plastica, ma ha un design nuovo ed è subacqueo” le dico mentre slaccio il cinturino per porgerglielo.

Molto carino” dice mentre lo immerge nel suo bicchier d’acqua. “Vediamo se è veramente waterproof!”

La reazione spontanea sarebbe quella di dirle “che cazzo fai!” ma, siccome mi fido ciecamente della tecnologia giapponese, abbozzo un mezzo sorriso e, quando lo tira fuori dall’acqua, lo asciuga per bene col tovagliolo e me lo rimette al polso, ringraziandola le do un bacetto sulla guancia. Diventa rossa in viso e solo allora capisco che non è sprucida, è solo molto timida e, va detto, mi piace un sacco.

Per la verità da qualche settimana mi sono invaghito di una stupenda giornalista, che è ancora indecisa se mettersi con un famoso scrittore bruttino o con uno sconosciuto architetto molto meno brutto, e non mi sembra il caso di mettermi a fare lo scemo proprio adesso con un’altra, ma la serata dopo cena scivola via in maniera travolgente e si conclude a casa sua dove mi ritrovo la mattina seguente senza neppure lo spazzolino da denti.

Mentre la stupenda giornalista opta decisamente per lo scrittore, accanto alla mia nuova ragazza nel corso del tempo riesco ad allargare il giro delle mie amicizie e a conoscere persone molto interessanti, con le quali ancora oggi sono in stretto e affettuoso contatto. Il nostro rapporto prosegue a lungo fra alti e bassi, più bassi che alti a dir la verità. In compenso va tutto per il meglio con le nuove conoscenze, a cominciare dai suoi fratelli coi quali decidiamo di metter su una squadra di calcio e di sfidarne altre nell’ambito strettamente amatoriale. Con loro, più che con lei, passo la maggior parte del tempo a parlare di politica e, soprattutto, di Inter, nostra passione predominante.

red starGabriele Giulini, il più “anziano”, decide che, in onore del nostro esposto filo-comunismo, Stella Rossa sarà il nome dei magnifici undici e allora io propongo che il motto debba per forza essere: Falciate e Martellate. Motto che suscita entusiasmo e che convince tutti ad acquistare magliette, pantaloncini e calzettoni rosso sangue.

All’inizio ci si allena a Trenno, a due passi da San Siro. Ci ritroviamo lì la domenica mattina non più tardi delle otto. Anzi a turno ognuno di noi si presenta sul posto, nebbia e non nebbia, gelo e non gelo, verso le sette per “occupare” uno dei migliori campetti a disposizione. Ogni volta che tocca a me l’alzataccia mi domando chi me lo fa fare, ma la passione è tanta e alla fine mi convinco che ne vale proprio la pena. Tra l’altro, oltre che giocare fra noi, incontriamo altri pazzi che si allenano in vista di confrontarsi su un vero campo regolamentare. Insomma il giro, in breve, si allarga a macchia d’olio.

Della nostra straordinaria compagine fanno parte giocatori che vanno dai quindici ai trent’anni e passa. Fra gli altri: i tre fratelli Giulini, Daniele Abbado e addirittura Claudio Abbado, grazie al quale entra in squadra anche un fantastico violinista della Scala, Simion Vasinca.

Mentre Daniele è la nostra punta di diamante, suo padre, quelle poche volte che gli impegni scaligeri glielo permettono, passa la maggior parte del tempo in panchina.

Le occasionali partite che riusciamo ad organizzare ci vedono protagonisti di ottime prestazioni. In porta il titolare è Piero Candelora che, non è proprio Ghezzi, ma se la cava niente male. In difesa tre mastini duri e puri: Camillo Cantaluppi, Giorgio Soana e Carlo Guglielmi (il più cattivo dei tre). A centro campo spiccano Gabriele Giulini, Lazzaro Raboni e Franco Ferrarini. In attacco Paolo Giulini, Simion Vasinca, il fenomenale Daniele Abbado e il sottoscritto. Al grido di “Falciate e Martellate” facciamo sicuramente paura agli avversari e, ad onor del vero, giochiamo come dei forsennati, dotati più di cuore che di tecnica. Dopo aver inanellato una serie di vittorie cominciamo ad avere anche un certo seguito, al punto da accumulare persino sei o sette spettatori fissi, fra amici e fidanzate.

Nel frattempo la vita di tutti i giorni scorre piacevolmente. Durante la settimana di giorno il lavoro non manca, di sera le occasioni cosiddette mondane si sprecano. Nel week-end si va tutti ad Oltrona, a casa Cantaluppi che ci accoglie sempre in maniera straordinaria ed è lì, finalmente, che Claudio riesce a tirare due calci in libertà, anche perché il luogo è sprovvisto di panchine.

abbado_giovaneAltri campi che lo vedono protagonista indiscusso sono quelli in Engadina dove, soprattutto in estate, organizziamo partitelle nei prati davanti le belle case dei vari amici che ci ospitano.

La voce che la Stella Rossa è diventata la squadra da battere arriva anche all’orecchio di Mauro il Bolognese che, appena mi siedo a uno de suoi tavoli, mi lancia la sfida per la prima domenica del mese.

Mi hanno detto che siete forti ma noi non siamo da meno. Staremo a vedere”. Sembra quasi una minaccia e forse lo è.

L’appuntamento è per le sette di sera sul campo dell’Associazione Sportiva Barona. Fa un freddo boia e, prima di entrare negli spogliatoi, la nebbia è già bella fitta. Causa alcune defezioni, al gelo della stanza riservata alla squadra-ospite, siamo solo in dodici. Di nascosto faccio segno a Daniele di far entrare suo padre al posto mio, scuote la testa e mi fa capire che non ci pensa nemmeno. Ora, anche se non è proprio quel che si dice un campione, a guardarlo seduto in attesa di poter entrare in campo mi si stringe il cuore ogni volta. Lui, uno dei più grandi direttori d’orchestra apparsi su questa terra, abituato a dirigere a bacchetta (è proprio il caso di dirlo) una caterva di eccezionali professionisti a livello internazionale, non può e non deve restare in disparte. Ma suo figlio è inamovibile: “gioca solo se si fa male qualcuno!”.

Così entriamo in campo mezzi assiderati e ci rendiamo conto che ormai la visuale si aggira sui trenta-quaranta metri al massimo. Sugli spalti i nostri pochi e soliti spettatori eroici, intabarrati come esquimesi, urlano e battono le mani più per riscaldarsi che per altro. Il Maestro si siede in panchina in attesa fiduciosa di essere chiamato prima o poi a combattere la sua battaglia. Già dai primi scambi ci rendiamo conto che gli avversari sono delle belve, così come è abbastanza evidente che l’arbitro parteggia spudoratamente per loro. Si gioca più che altro a metà campo, raramente i portieri toccano palla. Minuto dopo minuto la partita si trasforma in una accanita lotta greco-romana, i calcioni si sprecano, le gomitate pure e, complice la nebbia, i colpi bassi si susseguono fra urla di dolore e veementi proteste. Verso la fine del primo tempo non so come riesco a passare una palla d’oro a Daniele che s’infila fra due difensori e si ritrova da solo di fronte alla porta, tira e mette in rete ma, nel frattempo, quel cornuto che dirige la gara fischia il fuori gioco. Apriti cielo! Si scatena una rissa furibonda. Mauro il Bolognese ed io tentiamo di dividerli ma riusciamo solo a beccarci sberle e spintoni. A quel punto Claudio, pacifista di natura, scatta in piedi per far cessare la rissa ma viene bloccato e dissuaso da un paio dei nostri: oltre ad essere rimasto in panchina ci mancherebbe altro che si facesse male per colpa nostra. Capitan Giulini ordina il ritiro della squadra così, fra insulti e gestacci irrepetibili, prima di morire congelati ci avviamo verso gli spogliatoi. I nostri sugli spalti ci applaudono ma non hanno capito che alla fine ci siamo arresi. Nella stanza gelida ci rivestiamo in fretta, tranne il Maestro che non ha fatto in tempo neppure a toccare una palla.

Da quella maledetta serata la squadra ha iniziato a sfaldarsi fino allo scioglimento ufficiale non senza lasciare in tutti noi grande amarezza e infiniti rimpianti.

Alle 8.30 del 20 gennaio del 2014, la mezz’ala meno utilizzata della Stella Rossa lascia questa terra per andare da un’altra parte a dirigere, come solo lui era in grado di fare, la sua straordinaria orchestra e, nel tempo libero, tirare due calci al pallone, in pace.

Due calci al pallone è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

Overbooking: Mirco Salvadori

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Schermata 2016-05-16 alle 17.17.24

 

 

Mix

(A proposito di Hazkarà)

di

effeffe

 

 

 

 

 

Incontrare con il proprio lavoro quello dei musicisti, dei pittori o degli scienziati è la sola combinazione attuale che non si riferisca né alle vecchie scuole né a un nèo-marketing. Sono tali punti singolari che costituiscono i focolai di creazione, delle funzioni creatrici indipendenti dalla funzione autore, distaccate dalla funzione autore. Il che non vale soltanto per gli incroci di campi differenti, è ogni campo, ogni pezzo di campo, per quanto piccolo esso sia, ad essere fatto di tali incroci.
I filosofi devono venire da ogni dove: non nel senso che la filosofia dipenderebbe da una saggezza popolare un po’ ovunque, ma nel senso per cui ogni incontro ne  produce, definendolo allo stesso tempo, un nuovo uso, una nuova posizione di connessione – musicisti selvaggi e  radio pirata. ( Gilles Deleuze, Contre le nouveaux philosophes   )

 

Schermata 2016-05-16 alle 17.37.59

 

 

Schermata 2016-05-16 alle 17.38.10

 

Schermata 2016-05-16 alle 18.44.44

 

La vita, il pezzo che conta, il frammento, lo sprazzo di memoria, la compilation, a memory card, records, il battito, la pulsazione, beat generation, la puntina e i solchi, l’incisione, le tracce, le tracce che precedono i ricordi. Anamnesis vs Hazkarà. Grazie Mirco, per avercelo ricordato.

Scheda

HAZKARA’ è un progetto editoriale, musicale e fotografico pubblicato da 13/Silentes. Una release che raccoglie racconti introspettivi e intime liriche; testi scritti da Mirco Salvadori e scelti tra il materiale edito ed inedito prodotto dall’autore negli ultimi anni. Salvadori è conosciuto per il suo lavoro di storico dj radiofonico, giornalista musicale, non che attivo diffusore di nuove esperienze sonore nella veste di co-owner e art director dell’etichetta digitale indipendente Laverna. Gli scritti sono accompagnati dalla presentazione dell’amico Fabrizio Loschi artista modenese, dalle intense immagini firmate da Stefano Gentile e Monica Testa e dalle musiche composte e suonate da Gigi Masin che nell’accluso cd “Plays Hazkarà” propone 8 tracce inedite nell’inconfondibile stile del musicista veneziano già in coppia con Mirco Salvadori nel progetto artistico InfanToo… un percorso sonoro che parte da atmosfere ambient per raccogliere ritmi e sonorità che rivestono e interpretano alla perfezione, al pari delle immagini, la scrittura intensa dello scritto. Musica totale che esula da qualsiasi catalogazione. 

Si può ordinare qui

 

Overbooking: Mirco Salvadori è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.

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